L’ultimo annuncio della Corea del Nord, anche se smentito dagli Stati Uniti, riporta in primo piano un tema che aveva impegnato Barack Obama sin dal suo primo mandato alla Casa Bianca: in che modo contenere Pyongyang e la sua strategia di proliferazione nucleare? Se lo chiede il New York Times, che sottolinea come l’amministrazione Obama si sia battuta per arrivare a una intesa sul nucleare con l’Iran – che non era ancora riuscito a sviluppare un’arma nucleare – mentre abbia fatto poco contro la Corea del Nord che possiede già un piccolo, ma minaccioso arsenale. Nell’ultimo anno diversi esperti e fonti di intelligence americane hanno avvertito in documenti segreti e pubblici che il piccolo arsenale del regime nordcoreano è arrivato a un punto di svolta e sta arrivando a dimensioni “modeste”: in molti credono che entro la fine del 2016 il regime asiatico possa arrivare a possedere 20 testate. Inoltre la Corea del Nord ha migliorato le sue armi e la possibilità di spostarle, ponendo un rischio concreto di attacco al Giappone, alla Corea del Sud, alle basi americane nel Pacifico e forse anche alla costa Ovest degli Stati Uniti. Quale può essere quindi l’approccio politico a questa situazione? Una risoluzione delle Nazioni Unite avrebbe un effetto limitato. E le possibilità che Kim Jong-un venga deposto sono attualmente remote. Ma anche la “pazienza strategica” messa in campo da Obama potrebbe essere attaccata dagli oppositori del presidente che sostengono non abbia fatto nulla per fermare la corsa verso la bomba atomica di Pyongyang. Ma – continua il New York Times – Washington in realtà sta facendo qualcosa. Il dipartimento di Stato ha elaborato una serie di proposte da mettere sul tavolo quando ricominceranno i negoziati con Pyongyang. Una strategia che potrebbe essere molto simile a quella che ha preparato il terreno ai due anni di discussioni con Teheran che hanno portato all’intesa di Vienna. I funzionari della Corea del Sud hanno tuttavia avvertito che il programma nucleare del Nord è arrivato a un punto di non ritorno. Una frase, ricorda il New York Times, usata – sbagliando – da Israele in riferimento all’Iran.