IQ. 03/01/2012 – Il licenziamento del lavoratore affetto da disturbo d’ansia è illegittimo se non si dimostra la sua totale inidoneità allo svolgimento delle mansioni e l’impossibilità di ricollocare lo stesso all’interno dell’azienda. Lo ha stabilito la corte di Cassazione.
Il licenziamento del lavoratore affetto da disturbo d’ansia è illegittimo se non si dimostra la sua totale inidoneità allo svolgimento delle mansioni e l’impossibilità di ricollocare lo stesso all’interno dell’azienda. E’ questo il principio contenuto nella sentenza n. 23330 del 18 dicembre scorso della Suprema Corte di Cassazione, sezione lavoro, che ha accolto il ricorso di un dirigente medico radiologo, in servizio presso l’Asl di Lodi dal mese di ottobre del 1991, licenziato, in data 14 marzo 2005, per “inidoneità al lavoro” in quanto affetto da una sintomatologia ansiosa a causa della quale, secondo le prescrizioni mediche, doveva essere esentato dai turni di reperibilità e doveva essere affiancato nella redazione dei referti da un collega.
Nel caso in esame, i giudici della Corte di Cassazione hanno efficacemente osservato che la Corte d’Appello di Milano con sentenza del 9 giugno – 26 settembre 2009, confermando la decisione di primo grado che aveva dichiarato illegittimo il licenziamento del lavoratore, aveva già evidenziato i seguenti aspetti rilevanti ai fini del decidere: dalle certificazioni mediche prodotte non risultava che la sopravvenuta, parziale inidoneità fisica del ricorrente avesse carattere permanente e che quindi, conseguentemente, fosse escluso un recupero della piena idoneità fisica del lavoratore stesso; l’Asl non aveva fornito la prova circa l’impossibilità di adibire il lavoratore, pur con la ridotta capacità lavorativa, ad altre mansioni compatibili con l’organizzazione aziendale; dalla documentazione medica prodotta non risultava un quadro clinico ben definito, ma la mera esistenza di un disturbo d’ansia per il quale il medico competente non aveva attestato la totale inidoneità del ricorrente allo svolgimento delle mansioni cui era adibito.
Alla luce delle precedenti considerazioni, la Suprema Corte ha confermato l’illegittimità del licenziamento del lavoratore, disponendo, oltre alla reintegra dello stesso, anche un nuovo esame della vicenda davanti alla Corte d’Appello di Milano per stabilire l’esatto risarcimento del danno. Sul punto, infatti, i giudici di legittimità hanno stabilito che, anche per i dirigenti pubblici, l’illegittimità del recesso determina gli effetti reintegratori di cui all’art. 18 dello Statuto dei lavoratori a prescindere dal numero dei dipendenti.
Con la pronuncia de qua la Suprema Corte ha, dunque, condiviso il prevalente orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo il quale il licenziamento del lavoratore per inidoneità sopravvenuta, anche parziale, può essere ricondotto a giustificato motivo oggettivo solo nel caso in cui non sia possibile, pur ricorrendo ai ben noti principi in materia di buona fede e correttezza, adibirlo ad una diversa attività lavorativa riconducibile alle mansioni già assegnategli, o altre equivalenti e, subordinatamente a mansioni inferiori, sempre che tale attività, in base all’assetto organizzativo esistente, possa essere concretamente utilizzata dall’azienda (in tal senso, Cassazione 7 marzo 2005 n. 4827; Cassazione 26 ottobre 2008 n. 25883).
In merito, si segnala che, nonostante nel tempo si siano registrate opinioni molto divergenti circa l’estensibilità ed il contenuto dell’obbligo di repechage del dipendente, gli attuali obblighi di sicurezza non si spingono a tal punto da imporre alla parte datoriale l’obbligo di adottare tecnologie non in dotazione all’azienda, ovvero, fino ad ingerire in merito a scelte organizzative del datore di lavoro.
E’ stato, dunque, precisato che è fatto salvo il potere di autodeterminazione del datore di lavoro, fondato sull’articolo 41 della Carta Costituzionale, circa il dimensionamento e la scelta del personale da impiegare purché l’esercizio dell’attività economica privata si svolga nel rispetto dei diritti al lavoro e alla salute.
Ne consegue che, come nel caso in esame, non costituisce violazione della norma sopra richiamata la pronuncia di illegittimità del licenziamento intimato per sopravvenuta inidoneità fisica alle mansioni assegnate, allorquando il datore di lavoro non accerti se il lavoratore possa o meno essere adibito a mansioni diverse e di pari livello, senza che ciò determini eventuali trasferimenti di altri lavoratori o alterazioni dell’organigramma aziendale (in tal senso, Cassazione 13 ottobre 2009, n. 21710).
http://www.amicimarcobiagi.com/?p=2066 di di Gabriele Fava