Era il “metallo romano” per eccellenza, la plastica dell’antichità, vista la grande popolarità di cui godeva e del multiforme impiego che se ne faceva. Il piombo. Abbondante ed economico, in epoca imperiale ne furono estratte da sei ad otto milioni di tonnellate, con record annuali di sessantamila tonnellate, secondo calcoli molto prudenti. Inoltre, ai tempi di Plinio mezzo chilo di piombo costava pochissimo: intorno ai due sesterzi, circa quattro euro attuali. Secondo recenti ricerche, il consumo annuale di piombo ai tempi della Roma imperiale era di 4000 grammi pro-capite, non molto lontano dall’attuale valore statunitense di 5500 grammi. Il successo di questo metallo, oltre che dall’ampia disponibilità e dal prezzo conveniente, era dovuto anche alle sue qualità tecniche: è malleabile, molto resistente alla corrosione e, con 327°C, ha un punto di fusione relativamente basso. Considerati tutti questi vantaggi, era impiegato per fabbricare recipienti e lavagne per scrivere, giocattoli e contrassegni d’ingresso (tesserae) agli spettacoli pubblici, urne, statuette votive e misure per pesare. Per fini militari lo si fondeva in proiettili da scagliare e per scopi civili in palle e pesi con cui gravare ami e reti. Era inoltre assai apprezzato in cosmetica: la biacca (un pigmento pittorico costituito da carbonato basico di piombo), unitamente al gesso, serviva per il trucco tanto che Ovidio, nel suo componimento dedicato alla “Cura del volto femminile”, la raccomandava esplicitamente alle signore che ci tenevano al loro aspetto: “Non ti manchino la biacca né la schiuma di soda rossa…” In medicina il piombo fuso, in quanto astringente e cicatrizzante, serviva come rimedio rapido e d’emergenza contro le ferite e per cauterizzare verruche, ulcerazioni ed emorroidi. Fin qui tutto bene. È il momento del rovescio della medaglia. Cominciamo con Plinio e Columella, autentici intenditori di vino. Essi si scandalizzavano per tutte quelle sostanze che venivano aggiunte al frutto della vendemmia, per renderlo già allora più gustoso e più conservabile nel tempo. Tuttavia, essi trascuravano un agente altamente tossico che contaminava assai spesso il vino: il piombo. Vi sono parecchi elementi per affermare che i disturbi e i danni fisici prodotti dal vino, e che erano fatte risalire ad altre sostanze aggiunte, derivassero in realtà dal piombo presente in esso. Ma come ci finiva il piombo nel vino? All’epoca, come abbiamo detto, per rendere più dolci e meglio conservabili i vini di poco valore, vi venivano aggiunti correttivi come la sapa (sciroppo) e il defrutum (mosto). La sciagura insita nella preparazione di questi due dolcificanti stava nel fatto che si utilizzavano in prevalenza recipienti di piombo per cui, nel prolungato processo di cottura, parti di piombo si scioglievano nel mosto bollito, accentuandone la dolcificazione. La sapa così contaminata era mescolata al vino che il consumatore apprezzava più di altre qualità e ne beveva in grandi quantità. In questo modo, rilevanti dosi di piombo finivano nell’organismo dei bevitori i quali manifestavano i sintomi dell’avvelenamento da piombo (conosciuto come saturnismo): mal di testa, nausea e dolori di stomaco, sintomi che il medico greco Dioscuride attribuiva ai dolcificanti aggiunti nel vino. L’indifferenza con cui in epoca romana si usavano i recipienti in piombo consente di affermare che non vi era una chiara consapevolezza del pericolo. Il piombo passava evidentemente come una sostanza non sospetta, ma era in realtà letale come un killer.
La maggior parte del piombo serviva tuttavia per un prodotto tipicamente romano: le famose tubature per l’acqua. Queste fistulae plumbae erano costruite ed impiegate in ogni parte del mondo romano. C’è da dire, tuttavia, che Vitruvio in un trattato di architettura ai tempi di Augusto, raccomandava l’uso di tubature di argilla sostenendo che l’acqua che vi scorreva fosse più salutare. Ma anche egli non ne era convinto più di tanto, poichè non vi erano studi approfonditi in tal senso, ma solo osservazioni accidentali ed occasionali, come ad esempio l’aspetto fisico e la salute dei minatori che estraevano il piombo. È indubbio che abbia sofferto di avvelenamento da piombo e delle sue croniche conseguenze un numero non irrilevante di Romani, per i quali i fattori dannosi (acqua dolce, calda, a lungo immagazzinata in cisterne di piombo, oppure allacciamenti diretti mediante tubature di piombo alla rete pubblica del rifornimento idrico) si sommassero. Vi era anche un altro fattore di rischio, ed era legato al clima: nelle zone calde, specialmente nei mesi estivi, c’era il pericolo che il piombo si dissolvesse in misura maggiore nelle tubature appena installate o ripulite. Infatti si sapeva bene che i tubi di piombo erano particolarmente esposti all’erosione quando l’acqua era calda. Pausania, autore di libri di viaggio, riferisce di una rilevante opera di distruzione provocata dall’acqua calda prelevata dalla zona vulcanica attorno a Pozzuoli: “L’acqua calda che scorreva attraverso tubature di piombo era così corrosiva da smangiare in pochi anni il piombo”. Se a questa testimonianza diretta si aggiungono i moniti già menzionati di Vitruvio, non si può fare a meno di rilevare una certa incoscienza nell’uso del pericoloso metallo. Sarebbe sicuramente esagerato parlare di una contrapposizione fra economia ed ecologia, ma si può dire che, pur avendo intuito che l’uso di tubature di piombo per l’approvvigionamento dell’acqua destinata al consumo alimentare comportava dei problemi, i Romani evitarono consapevolmente di andare in fondo alla questione perché quel metallo era tecnicamente troppo allettante e troppo conveniente per volerlo sostituire con un materiale meno rischioso ma non altrettanto solido (e quindi alla lunga più costoso) come i tubi d’argilla. E così, infischiandosene delle raccomandazioni di Vitruvio, i Romani continuarono a preferire il piombo e quindi un’acqua “non salutare”.
E ancora. Esiste un rapporto di casualità scientificamente dimostrato fra l’assunzione di piombo nel corpo umano e la gotta, il flagello che faceva soffrire innumerevoli Romani; fin dall’antichità era noto che si trattava di una malattia favorita da una condotta di vita volta ai piaceri: “Figlia artritica dell’artritico Bacco e dell’artritica Afrodite, di nome podagra”, scriveva un epigrammista greco. In un recente studio, “Piombo e avvelenamento da piombo nell’antichità”, il canadese Jerome O. Nriagu espone i valori elaborati con riferimento ai tre ceti della popolazione: per gli aristocratici perviene ad un valore medio di 250 microgrammi al giorno; i plebei ingerivano una dose giornaliera di 35 microgrammi che si riducevano, nel caso degli schiavi, a 15 microgrammi. La spiegazione ovvia di queste notevoli differenze è da ricercare nei diversi stili di vita e nell’alimentazione: chi era ricco mangiava e beveva di più e quindi assumeva piombo in quantità notevolmente superiori. A questo aggiungiamo che il piombo dissolto nelle tubature dell’acqua finiva a sua volta, e specialmente, nel corpo dei benestanti che disponevano di allacciamenti privati alla rete idrica costruiti col piombo. I valori medi del piombo ingerito da coloro che facevano parte del ceto romano aristocratico sono notevolmente superiori al limite di 43 microgrammi al giorno che l’OMS considera ancora tollerabile. Questo avvelenamento da piombo potrebbe essere stata la causa della pazzia di molti imperatori romani come Nerone, Caligola, Eliogabalo e Commodo? Secondo alcuni studiosi, l’ipotesi sarebbe plausibile. Secondo lo scrivente, la risposta è no. La pazzia o presunta tale di alcuni imperatori, è stata raccontata da storici a loro ostili e che volevano tramandarne una memoria negativa. Ma anche ammesso che fossero veramente pazzi, le cause sarebbero state da ricercare nel background ambientale in cui erano stati allevati, violento e pericoloso solo come una corte imperiale poteva essere. E magari, alcune menti fragili possono non aver retto ai traumi terribili subiti in giovane età, portandosi quindi nell’età adulta gli strascichi di ricordi scioccanti che ne avrebbero segnato per sempre i comportamenti futuri.
Il pandemico avvelenamento da piombo del ceto dominante non fu tuttavia una ineluttabile fatalità. Il fatto che la società romana non abbia approfondito il problema dimostra quanto risale a lungo nel tempo la tradizione dell’indifferenza e dell’incoscienza nell’impiego di sostanze di cui non si vogliono compromettere le possibilità di sfruttamento con scomode ricerche.