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DAL TEVERE AL NILO.

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La ricerca delle sorgenti del Nilo fu il grande enigma antico dell’Africa interna. Molto tempo prima di Livingstone e Stanley, che in età vittoriana attraversarono il nord del Tanganica, chi volle risolvere il problema della loro ubicazione fu (nonostante ci si possa rifiutare di crederci) uno dei più bistrattati imperatori romani: Lucio Domizio Enobarbo, noto come Nerone. Intorno al 60 d.C., l’imperatore inviò una spedizione leggera di truppe pretoriane con alcuni ufficiali ad effettuare una ricognizione in profondità lungo la valle del Nilo, oltre ogni limite raggiunto fino ad allora da chiunque, greco o romano.

Quale fu lo scopo principale della missione? Abbiamo due testi, di Seneca e di Plinio il Vecchio, che si contraddicono. Il primo sostiene che Nerone inviò i due centurioni a ricercare le sorgenti del Nilo per spiegare così il fenomeno delle inondazioni annuali; il secondo invece afferma che Nerone pensava di intraprendere una guerra contro gli Etiopi e che dunque la spedizione doveva esplorare il terreno, studiare le condizioni politiche ed economiche del Paese per raccogliere tutte le informazioni utili a decidere se era il caso di scatenare la guerra e, in caso affermativo, a regolare la condotta del conflitto nel modo migliore per Roma.

Entrambi le tesi hanno punti a favore e a sfavore, sui quali a lungo si è discusso. Infatti, le affermazioni pliniane contrastano con l’indicazione di Seneca in merito all’aiuto fornito dal re di Etiopia ai Romani, né si comprende a quale scopo militare fosse necessario spingersi così a sud.

Tali contraddizioni possono essere sanate se pensiamo ad una ricognizione militare e scientifica insieme, un po’ come la spedizione di Napoleone in Egitto. I servizi di informazione e sicurezza romani sembrano essere stati sempre dotati di notevole organizzazione e capacità operative, cosa che induce a pensare ad un’esplorazione in Etiopia tendente forse a preparare una campagna militare mascherata da esplorazione scientifica, missione commerciale, ambasciata di amicizia. I due ufficiali sarebbero in tal caso riusciti ad operare contro il Regno di Etiopia con l’aiuto del suo stesso sovrano, impresa non impossibile per personale di alto livello qualitativo e addestrativo. Né ci sembra difficile che Nerone abbia aggiunto agli scopi militari quello scientifico, tipo: “già che ci siete, date anche un’occhiata più in giù”, ben sapendo che risolvere il problema del Nilo gli avrebbe assicurato un posto di rilievo nella Storia.

Scrive Seneca: “Dai due centurioni, inviati dall’imperatore Nerone dotato, tra le altre virtù, di grande amore per la conoscenza a scoprire le sorgenti del Nilo, io stesso ho udito raccontare che dovettero viaggiare a lungo, che dal re d’Etiopia furono aiutati e raccomandati ai re dei reami vicini, raggiungendo infine le terre poste oltre il regno etiopico. Dissero di avere raggiunto delle immense paludi, la cui fine non era conosciuta neppure dagli indigeni. (…) Laggiù, continuò uno dei due, vedemmo due roccioni dall’alto dei quali cadeva una immensa massa d’acqua”.

A questo brano di Seneca, incentrato sul problema del Nilo, dobbiamo aggiungere un lungo testo di Plinio il Vecchio, dal cui contenuto risulta quanto minuzioso e preciso doveva essere il rapporto steso per l’imperatore dai due centurioni. Partendo da Siene, cioè dalla prima cateratta, i due indicano le distanze tra le tappe principali, fornendo anche indicazioni sulla fauna. Precise anche le notizie sullo stato si spopolamento e di decadenza politica della regione, frantumata in piccoli regni, punteggiati dalle rovine delle città e dei villaggi abbandonati: un quadro di desolazione che non invitava certo alla conquista.

Superata Meroe, antica capitale alla confluenza del Nilo dello Atbara, la missione assunse un carattere più decisamente scientifico e si trasformò nella più ardita puntata verso l’equatore africano tra Harkhuf e la metà del XIX secolo. I due centurioni videro regioni che soltanto intorno al 1841 sarebbero state nuovamente visitate da un occidentale.

Il testo di Seneca, derivato – non dimentichiamolo – direttamente dal rapporto e dal racconto orale dei due ufficiali, non lascia sussistere dubbi: la spedizione raggiunse il Sud, rivelato dal passo sulle immense paludi.

Difficilmente interpretabile è invece il riferimento ai due roccioni, dai quali sembra cadere la massa d’acqua del fiume e che i due centurioni dichiarano di aver visto personalmente. La prima impressione è che la spedizione abbia raggiunto le rapide di Fola, al 5° di latitudine nord. Ma ciò contrasta con la loro stessa affermazione di non avere superato il Sudd. In un articolo del 1996 pubblicato sul mensile Nigrizia, Giovanni Vantini, studioso appartenente all’Ordine dei Padri Comboniani, non sarebbe da escludersi che la spedizione sia arrivata anche in territorio ugandese, ipotizzando un riferimento alle Cascate Murchison nel passaggio di Seneca. Tali cascate, con un salto di 50 metri, si trovano in prossimità del Lago Alberto e sono formate da un ramo del Nilo Bianco, emissario del Lago Vittoria.

Se non giunsero alle sorgenti del Nilo, i due raccolsero precise notizie sulle regioni più meridionali, poiché quanto troviamo ancora in Plinio e Seneca sul cuore dell’Africa è probabilmente derivato dal loro rapporto. Non dimentichiamo infatti che i due sono contemporanei all’avvenimento: Seneca è morto nel 65, Plinio nell’eruzione del Vesuvio del 79.

Ad ogni modo, il lavoro dei due ufficiali romani fu condotto con l’abilità e la precisione degne dei migliori servizi di informazione. Peccato non possedere il testo originale del loro rapporto: ne ricaveremmo una massa di notizie ben superiore a quanto possiamo trovare nei testi di Plinio e Seneca, perché è evidente che il primo fu un alto ufficiale (era comandante della flotta navale di stanza a Miseno), quindi a conoscenza dei particolari riservati agli ufficiali abilitati dello Stato Maggiore romano. Ma è altrettanto evidente che un uomo col suo senso del dovere (morì nel tentativo di salvare gli abitanti di Pompei) e la sua elevata coscienza professionale mai avrebbe divulgato quanto doveva restare coperto dal segreto. Perché questa è l’impressione finale che scaturisce dalla lettura dei testi disponibili: che a Roma si sapesse più di quanto non si sia scritto, senza però essere ancora certi dei risultati, perché altrimenti allla scoperta delle sorgenti del Nilo si sarebbe data ampia pubblicità, a maggior gloria di Nerone e di Roma. Ma l’imperatore è morto presto e se progettava altre spedizioni per chiarire definitivamente l’enigma del Nilo non ebbe il tempo di farlo.

Mosaico del Nilo di Palestrina.

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