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Niente da perdere.Genesi, inconsapevole, di un mito.

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Il mio nome è Ivano Faraci e sono un produttore, discografico, manager, compositore e cantante di Milano. Mi sono formato sul campo con artisti affermati ed emergenti, nazionali ed internazionali. Ho vinto un contest alternativo al Festival di Sanremo; preso parte come autore alla colonna sonora del film “Riso Amore e Fantasia” e alla compilation “In alto la testa Mitch & Friends”, unitamente alla Associazione Nazionale dei Cantanti Italiani, a sostegno delle vittime del sisma di Amatrice; sono direttore artistico e produttore esecutivo della manifestazione musicale Masterplan dedicata agli artisti emergenti e ai big della musica italiana (Omar Pedrini, Andy Bluvertigo, Mauro Ermanno Giovanardi, Massimo Luca); ho fondato l’etichetta if Records & Management e prodotto, con distribuzione Universal Music Italia, Gaia Papadia e la compilation Masterplan vol.1 (con Valeria Rossi, Luca Urbani, Nathalie e molti altri) ho pubblicato come artista i singoli “Come un Estraneo” e “Riflesso”. Con la rubrica Helter Skelter (nome di un tipico scivolo dei Luna Park inglesi e titolo di una delle canzoni più significative dei Beatles), mi sono posto l’obiettivo di raccontare il mondo della musica da angolature diverse e con un approccio laterale.

Quindi siete i benvenuti e… aspettatevi di tutto, esattamente come al Luna Park!

Ivano Faraci.

6 giugno 1962.

Il guardiano, John Skinner, quella sera tiepida di mercoledì 6 giugno stava in allerta sui gradini dell’ingresso della palazzina vittoriana costruita nel 1830, situata al numero 3 di Abbey Road di Londra, con la consueta uniforme ordinata e marziale, quando quattro ragazzi dall’aspetto denutrito e arruffato apparvero nel parcheggio con uno stagionato furgoncino bianco. I ragazzi non erano soli, ad accompagnarli c’era una persona che si era presentata come il loro road manager.

“Salve, sono Neil Aspinall e loro sono i Beatles, siamo qui per una registrazione”.

Strano nome pensò il guardiano. Poi diede un’occhiata all’orologio e fece cenno ai ragazzi di entrare. Erano quasi le diciotto.

Scaricato il furgone, il gruppo penetrò all’interno della palazzina entrando in uno degli studi.

Per la prima volta in vita loro, i quattro ragazzi, si ritrovarono in un ambiente dove l’attività era strettamente routinaria e rigida. L’aria aveva un odore freddo da fumo di sigarette e di cera da pavimenti. Il corridoio era illuminato come un acquario dalle luci al neon. L’orario per registrare era ferreo, non ci potevano essere più di tre sedute al giorno e i tecnici si aggiravano per le sale in camice bianco. La storia racconta che quando un relativamente giovane Winston Churchill (ancora non era “Sir”) visitò gli studi; osservando tutto quel personale in camice, mentre faticava a salire gradini piuttosto ripidi, si fermò di botto per mormorare: “Mio Dio, temo d’aver sbagliato posto. Qui sembra di stare in ospedale!”

Mentre gli passavano davanti, l’ingegnere del suono, Norman Smith, borbottò: “Buon Dio! Chi ci siamo tirati dietro?”.

I quattro ragazzi non vestivano male, ma sicuramente erano diversi da chiunque avesse mai visto prima, portavano giubbotti di cuoio nero che fecero pensare immediatamente ai tecnici presenti: “Certo, proprio Beatles!” * (1).

George Martin, il produttore della seduta, impeccabile nell’aspetto apparentemente rigido con la camicia bianca, cravatta, capelli corti e volto ben rasato; li gratificò di uno sguardo veloce, poi scese al bar a farsi fare una tazza di tè.

La band aveva un’attrezzatura scadente, orrendi amplificatori di legno grezzo, neanche verniciati, molto rumorosi, con prese a terra e molto altro che non andava. Facevano più rumore gli amplificatori degli strumenti. Il peggiore di tutti era quello del bassista Paul e fu chiaro dall’inizio che non si sarebbe cavato nulla dalla serata se non avessero fatto qualcosa in fretta. Mentre gli addetti al settore tecnico trovavano la soluzione al dramma, i quattro ragazzi della band si sorbivano una tazza di tè sotto gli occhi solerti delle addette al locale ristoro.

Poco dopo la seduta poté finalmente iniziare, con al comando Ron Richards, l’incaricato per la maggior parte del genere rock & roll, e dai tecnici Norman Smith e Chris Neal.

Paul attaccò, con voce tremolante dall’ansia, Besame Mucho, un vecchio strappalacrime latino ormai diventato uno dei loro cavalli di battaglia durante i concerti, poi il gruppo passò alle loro composizioni originali: Love Me Do, P.S. I Love You e Ask Me Why. Fu durante Love Me Do che Norman Smith drizzò le orecchie.

“Neal, vai a tirar fuori George dal bar e sentiamo cosa pensa di questa roba!”

In quel momento, John alzò gli occhi verso l’alto, oltrepassando i grandi riflettori da studio che torreggiavano sopra la band come in una partita di cricket. Lo sguardo arrivò in cima alla scala senza fine che a lui sembrava portasse al cielo dove vivevano gli Dei onnipotenti. Si sentiva così in basso. Tutto divenne bianco e accecante e il tempo si fermò, per ritornare indietro fino all’8 maggio del 1962.

Quel giorno i Beatles erano ad Amburgo, Germania Federale, per una stagione di sette settimane allo Star Club. Il loro manager, Brian Epstein, era rimasto invece a Londra nel tentativo disperato di scovare qualcuno disposto a dare alla band di Liverpool una possibilità di entrare nel mercato discografico.

Il manager si trovava in quel genere di situazione in cui qualsiasi forma di contatto, anche minima, può dare una mano. Si fece coraggio ed entrò nel prestigioso negozio HMV Shop di Oxford Street per salutare Bob Boast che aveva conosciuto ad Amburgo durante un corso di management per la vendita all’ingrosso.

Al diavolo! Non ho niente da perdere! Pensò.

Aveva con sé un nastro a media fedeltà contenente canzoni che i Beatles avevano inciso nel corso di un’audizione per la Decca, andata male, di qualche mese prima, che riuscì a fargli ascoltare.

“Sono esausto Bob… Non faccio che passare da una casa discografica all’altra” disse Brian.

“Sembra che nessuno sia interessato a sentire questa musica!”

Bob invece lo era, per quanto aiutarlo andasse al di là delle sue possibilità. Ma perlomeno aveva un piccolo studio di registrazione dove incidevano artisti alle prime armi. Ci portò Brian e lo presentò al tecnico, che a sua volta lo portò negli uffici di Sid Coleman, general manager di una delle editrici musicali della EMI.

Coleman comprese il potenziale della band e, non avendo niente da perdere, telefonò al suo amico, George Martin, direttore artistico della Parlophone, una piccola etichetta sussidiaria della EMI, per fissare un appuntamento.

Brian, Coleman e Martin s’incontrarono ad Abbey Road la mattina del 9 maggio.

“Quello che ho ascoltato non è proprio elettrizzante “sostenne Martin, “la canzoni non sono troppo brillanti; eppure, c’è qualcosa che suona interessante. Non vale la pena di ascoltare queste cose, devo vederli di persona. Me li porti in studio”.

Appena l’incontro fu concluso, Brain Epstein corse all’ufficio postale più vicino e sparò letteralmente un telegramma ai Beatles con la buona notizia e una minima dose delle piccole bugie del caso, lasciando credere che il contratto fosse già garantito.

La prima reazione della band, abituata ai continui: “Spiacente, ragazzi” tutte le volte che il manager tornava a Liverpool da Londra, fu: “Hai dovuto metterci soldi di tuo, Brian?”

George Martin e Brian Epstein fissarono una data, senza che il manager dei Beatles ci avesse messo niente di suo.

Mercoledì 6 giugno 1962.

Il tempo ritornò a scorrere. La luce, da bianca e accecante divenne rossa.

“La luce rossa è accesa, andiamo, incominciamo!” attaccò John Lennon.

I quattro ragazzi sapevano bene che non c’era molto margine per gli errori, ogni volta dovevano giocarsi tutto registrando praticamente dal vivo al segnale della luce rossa.

George Martin, che nel frattempo era salito dal bar, alla fine, finì per farsi carico del resto della seduta. Al termine, parlò al gruppo ammassato sul fondo dello studio tramite interfono e poi li invitò nella sala di controllo per risentire i nastri e a discutere dettagli tecnici.

Martin li arringò a lungo, spiegando che i microfoni dello studio erano circolari e quindi si poteva stare ai due lati del microfono, mentre quelli da palcoscenico erano monolaterali, ma sembrava che i quattro ragazzi non facessero altro che perdere tempo. John sedeva impassibile sopra un altoparlante e George era steso sul pavimento.

I tecnici insistevano a parlare della loro attrezzatura e di tutto quel che avrebbero dovuto migliorare per diventare artisti discografici. Ma loro niente, non una parola di replica, neanche annuivano con la testa. Infine, Martin sbottò: “Insomma, vi ho dedicato anche troppo tempo e voi non avete risposto. C’è qualcosa che non va?”

I quattro si scrutarono a vicenda per un po’ trascinando i piedi, poi George Harrison lanciò a Martin un lungo sguardo inquisitivo e rispose: “Sì, non mi va la tua cravatta!”. La cosa ruppe il ghiaccio e per i successivi venti minuti i quattro furono puro divertimento. Quando poi se ne andarono a casa George Martin e Norman Smith restarono là seduti e Norman chiese a George, con le lacrime che ancora gli scorrevano sulla faccia dal gran ridere: “Però! Che mi dici della band?”

George Martin riteneva la loro musica decente, niente di speciale ma decise che poteva, dopo tutto, far loro firmare quel contratto. “Non ho niente da perdere “disse quella sera.

Fu steso il contratto discografico standard, i Beatles lo firmarono e divennero artisti EMI.

Il 5 ottobre del 1962 venne pubblicato il primo singolo dei Beatles contenente Love Me Do come lato A e P.S. I Love You, come lato B.

Il disco arrivò al numero 17 in classifica, un buon debutto. Nessuno avrebbe potuto minimamente immaginare che quei quattro ragazzi dall’aspetto denutrito e arruffato, apparsi nel parcheggio di Abbey Road con uno stagionato furgoncino bianco appena quattro mesi prima, avrebbero conquistato e fatto impazzire il mondo modificandone per sempre i connotati musicali e sociali.

Durante quella prima sessione di registrazione erano riunite personalità geniali che avrebbero fatto la storia della musica*(2), prima insieme, e poi anche separatamente dopo lo scioglimento dei Beatles. Ma in quel momento nessuno di loro era rimasto particolarmente colpito dagli altri.

Tutto si svolse in modo inconsapevole, istintivo, senza che nessuna particolare rivelazione avesse colpito i singoli protagonisti. Eppure, è proprio all’ombra di questa inconsapevolezza e di quei “non ho nulla da perdere” che prese forma la genesi del mito dei Beatles.

I fatti di questa storia si svolsero esattamente così, non c’è nulla d’inventato, il racconto è stato scritto seguendo fedelmente le date e le dichiarazioni dei protagonisti che compaiono in diversi libri e nelle interviste ufficiali.

  1. Il nome Beatles è una commistione di Beat e Beetles (scarafaggi)
  2. Norman Smith, dopo i Beatles, produsse i primi LP dei Pink Floyd (The Piper at the gates of dawnA Saucerful of secretsUmmagummaAtom heart Mother , Meddle); Invece, Geoff Emerick (presente come assistente fonico di Norman Smith il 6 giugno 1962), dopo lo scioglimento dei Beatles, lavorò con Elvis Costello, Art Garfunkel, Jeff Beck e con Paul McCartney, ottenendo il suo terzo di quattro Grammy grazie a Band On The Run; Ken Townsend, ingegnere elettronico nel fatidico giorno del primo arrivo dei Beatles ad Abbey Road, fu l’inventore dell’ADT, Automatic Double Tracking: un sistema che permette di raddoppiare una traccia vocale; George Martin, lavoro con i Beatles (e con i progetti in singolo) a parte, produsse anche album per Céline Dion, Kate Bush, José Carreras, Phil Collins; compose brani strumentali per il film di James Bond Live and Let Die e produsse il primo album solista di Jeff Beck, Blow by Blow, considerato una pietra miliare del rock strumentale.  

Ivano Faraci

https://www.instagram.com/ivanofaraci/

https://www.facebook.com/ifrecordsemanagement

Foto copertina album Abbey Road dei Beatles.

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1 COMMENT

  1. l’ho letto come fosse un romanzo! Molto divertente questo stile nel raccontare la storia della musica, complimenti!

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