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LA CHIRURGIA CONTRO L’EMORRAGIA, PARTE II: WILLIAM HARVEY E LA CIRCOLAZIONE SANGUIGNA.

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È interessante studiare la storia di alcuni concetti che al giorno d’oggi ci sembrano banali, per poi scoprire che quanto a noi oggi sembra scontato, è il realtà frutti di secoli di studi e di alternanza di teorie, dissimili rispetto all’evidenza reale.

Perché vene e arterie vengono chiamate “vasi”? Perché secondo studiosi antichi, Aristotele ad esempio, essi erano solo i contenitori del sangue, un liquido che si muoveva nel corpo, ma che non circolava, spinto dall’azione del cuore.

Per il filosofo greco, precettore di Alessandro Magno, il cuore era l’organo centrale, in cui il sangue nasceva e si distribuiva ai vasi, niente più di un semplice contenitore; egli non faceva distinzione tra arterie e vene e riteneva le pulsazioni il risultato dell’ebollizione del sangue all’interno dei vasi, dovuta al soffio vitale, mitigata dallo pneuma assorbito dai polmoni e portato dalle vene polmonari.

Prassagora riteneva che fossero solo le vene i contenitori del sangue, mentre le arteria contenevano aria secondo la sua concezione.

Galeno attraverso la sperimentazione, sconfessò le teorie di Prassagora, dimostrando che anche le arterie contenevano sangue. Per il medico romano, che non aveva ancora capito che il cuore agiva come una pompa, la forza pulsatile risiedeva nelle parete di cuore e arterie; la funzione dell’organo cardiaco era quella di una sorta di fornace dalla quale originava il calore del dorpo, il cui raffreddamento competeva ai polmoni. Egli notò che il sangue venoso era più scuro e denso e postulò che servisse per distribuire le sostanze nutritive, mentre quello arterioso, più fluido e chiaro, doveva essere pieno di spirito vitale; i due tipo di sangue appartenevano a due sistemi chiusi che comunicavano al livello del cuore attraverso dei pori della membrana tra i ventricoli e alla periferia attraverso i capillari, che chiamò “vasi invisibili”.

Nel corso dei secoli diversi scienziati, come Realdo Colombo, Michele Serveto e Andrea Cesalpino, produssero teorie più vicine a quanto conosciamo ora, ma fu un medico inglese, William Harvey (1º aprile 1578 – 3 giugno 1657) a dimostrarlo attraverso il metodo sperimentale.

Nato da una famiglia di commercianti, a differenza dei suoi fratelli, si dedicò prima a studi classico, poi alla medicina, giungendo anche a studiare nel nostro paese, all’Università di Padova, dove fu allievo di Girolamo Fabrici, il successore di Gabriele Falloppio. Fu un clinico molto apprezzato nel suo tempo: professore e medico personale del re Giacomo I e, successivamente di Carlo I; la vicinanza al re, che seguiva nella sua numerose battute di caccia, gli permisero di dissezionare numero carcasse di animali, sviluppando i suoi studi, molti dei quali furono, purtroppo, perduti durante la Guerra Civile Inglese. Alla sua morte gli fu dedicato l’ospedale della cittadina di Ashford.

L’opera fondamentale di Harvey fu “De moto Cordis”, abbreviazione del più lungo titolo “xercitatio anatomica de motu cordis et sanguinis in animalibus”, pubblicato nel 1628. Attraverso la dissezione e lo studio di diversi animali, egli dimostra l’errore di Galeno, il quale riteneva che il sangue si muovesse da destra a sinistra attrraverso le pareti ventricolari: dimostra che la contrazione del ventricolo destro spinge il sangue nell’arteria polmonare, mentre l’azione di quello sinistro permette la circolazione del sangue verso i tessuti; la circolazione, quindi, dalla parte destra del cuore a quella sinistra passando per i polmoni.

L’esperimento fu abbastanza semplice: applicò ad un braccio una legatura abbastanza stretta da provocare l’arresto del flusso sia arterioso che venoso, poi la allentò, ma in modo tale da permettere solo la ripresa della circolazione arteriosa: le vene si gonfiarono, dimostrando che il sangue attraverso le arterie arrivava alla mano e tornava indietro attraverso le vene. Un’altra prova sperimentale fu di tipo anatomico: osservando le valvole all’interno delle vene era chiaro che tutto il sistema venoso portava al cuore.

Nonostante egli abbia immaginato l’esistenza dei capillari, non aveva strumenti abbastanza avanzati per poterli visualizzare, non riuscendo, pertanto a spiegare, come il flusso ematico passasse dalle arteriole alle venule in periferia.

La dimostrazione della circolazione sanguigna e la descrizione di come questa avviene furono pertanto fondamentali, insieme agli studi di Ambroise Paré, sulla legatura dei vasi, per affrontare uno dei grandi nemici di una chirurgia che stava maturando da una età antica a quella moderna: l’emorragia.

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