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giovedì, Novembre 21, 2024

Traumi ambientali, climatici e sociali.

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Dal 2018, un gruppo di cittadini della Maremma grossetana, dalle sue colline fino alle pendici dell’Amiata occidentale, ha dato vita ad una serie di incontri periodici, le FesteContadine, che hanno come obiettivo quello di creare momenti di scambio di prodotti ma anche di idee, favorendo il dialogo tra generazioni e tra cittadini comuni ed esperti.

In questi incontri, sono state spesso condivise alcune valutazioni e una visione delle cause e delle dinamiche di problemi globali, che potrebbero essere sintetizzate come segue:

L’impossibilità per molti segmenti della popolazione mondiale di emanciparsi dalla povertà malgrado i reiterati programmi delle agenzie internazionali, le tensioni e le fratture sociali, i danni ambientali, le carestie e la diffusione di malattie, la crescita della criminalità organizzata, i conflitti per il controllo di risorse vitali come la terra, l’acqua o l’energia, i profughi, sono fatti strettamente correlati tra loro, nel contesto di una globalizzazione intrapresa nel modo più ingiusto possibile.

Quest’ingiustizia affonda le radici in un neoliberismo che non sa, non vuole e non può rispondere ai veri bisogni delle persone e non rispetta i diritti umani,perché fondato su una concezione limitata dell’economia, ridotta a terreno di competizione sfrenata.L’inasprimento della spirale di violenza cui stiamo assistendo è prodotto e strumento di questa concezione tanto esasperata quanto limitata.

L’ultimo incontro di FesteContadine, tenutosi agli inizi di luglio, ha visto produttori afferenti a diverse realtà del territorio dedite all’agricoltura biologica e sociale – dall’Emporio comunitario ‘Le Vie dell’Orto’ di Grosseto al GAT (Gruppo Acquisto Terreni) di Scansano -, piccoli coltivatori per l’autoconsumo e piccoli artigiani, o semplicemente cittadini accomunati da valori di solidarietà e di giustizia economica e sociale, dialogare con un ospite d’eccezione: Gianfranco Tamburelli, Primo Ricercatore dell’Istituto di studi giuridici internazionali del CNR.

L’idea era quella di confrontarci, avviare una riflessione sull’impatto sociale del cambiamento climatico e ambientale e valutare diffusione e rilievo delle politiche nel settore.

Ci sono ancora scienziati che negano la correlazione tra attività umane e cambiamento climatico?

La consapevolezza dell’impatto delle nostre attività sul clima della terra è relativamente recente. Dal 1990, ovvero da quando il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (Intergovernmental Panel on Climate Change – IPCC) ha prodotto il suo primo rapporto annuale, possiamo dire sia divenuto sempre più ampio il consenso degli scienziati sull’esistenza di una correlazione tra attività umane e clima, anche se permangono visioni differenti sulla portata dell’impatto antropico sul riscaldamento globale e sui tempi con cui questo cambiamento si sta verificando.

Semplificherei su questo punto condividendo un ricordo personale. Nel 2009 ho partecipato – come esperto membro della delegazione italiana – al Consiglio Artico tenutosi a Tromso, in Norvegia, dove l’Italia era ammessa come osservatore (gli Stati membri del Consiglio Artico sono: Canada, Danimarca, Finlandia, Islanda, Norvegia, Federazione Russa, Svezia, Stati Uniti d’America). Gli stessi scienziati dell’IPCC che erano stati chiamati a tenere delle relazioni sui vari aspetti del cambiamento climatico erano consapevoli di non poter stimare il grado di affidabilità dei modelli previsionali su cui lavoravano. Questo spazio di incertezza permane.

I rapporti dell’IPCC sono stati comunque di grande utilità e in altri settori, con riguardo ad altri problemi ambientali globali, la comunità internazionale è stata in grado di adottare già nella seconda metà degli anni Ottanta misure importanti ed efficaci, come quelle per la messa al bando dei clorofluorocarburi (CFC) e degli halon, tra i principali responsabili della distruzione dello strato di ozono. La Convenzione di Vienna del 1985 e il Protocollo di Kyoto del 1987 sulle sostanze che impoveriscono l’ozonosfera rappresentano un modello di successo della cooperazione internazionale. Ora – dato il progredire delle conoscenze scientifiche – quelle misure non hanno più carattere ‘precauzionale’, ma preventivo.

Per il cambiamento climatico stiamo assistendo ad un processo analogo: l’evolvere delle conoscenze scientifiche sta spostando azioni ed interventi in materia dal piano precauzionale a quello della prevenzione (e della mitigazione).

È anche da rilevare che ci sono state e si tengono continuamente conferenze, seminari, trattative, forse anche mentre parliamo è in corso qualche meeting di organi sussidiari in ambito Nazioni Unite, ma non siamo ancora riusciti a porre in essere un’azione effettiva di contrasto e mitigazione del cambiamento climatico né a livello della comunità internazionale, né a livello dell’Unione Europea, anche se quest’ultima ci prova in maniera più articolata.

Sappiamo che in qualità di esperto giuridico segui in prima linea le attività del nuovo Comitato interministeriale per la transizione ecologica (CITE). Il CITE, tra i suoi assi, ha anche la revisione e l’attuazione della Strategia Nazionale per lo Sviluppo sostenibile. Ma questo concetto è ancora attuale o è stato soppiantato da quello di “transizione ecologica”?

In Italia, “transizione ecologica” è un concetto che ha preso piede negli ultimi due-tre anni anche per alcune mirate iniziative politiche che hanno portato alla trasformazione del Ministero dell’Ambiente e della tutela del territorio e del mare in Ministero della Transizione ecologica (MITE), con l’assunzione di nuove competenze in materia di energia.

Il Comitato interministeriale per la Transizione ecologica è una specie di consiglio dei ministri a composizione ristretta che aggrega i ministeri in teoria più impegnati sui temi ecologici, quali, oltre al MITE, quello dello Sviluppo economico, dell’Agricoltura, del Lavoro, dell’Economia e delle Infrastrutture e della mobilità sostenibili. Nella prassi, alle sue riunioni sono stati regolarmente invitati anche altri ministri, come quello per gli Affari regionali e le autonomie e quello per il Sud e la Coesione territoriale.

Il Comitato ha come compito principale quello di programmare le attività istituzionali volte alla realizzazione della transizione ecologica, in particolare quella energetica. Per la prima volta è stato così approvato un Piano per la Transizione Ecologica – PTE (marzo u.s.) e c’è anche una prima relazione che monitora lo stato di attuazione delle attività previste dal Piano.

La ‘transizione ecologica’, per avere senso, deve collocarsi in una prospettiva temporale di breve-medio periodo, ben definita, che muova dagli impegni già assunti dall’Italia a livello internazionale e a livello europeo, in particolare con il Green Deal. In una prospettiva temporale di medio – lungo periodo il principio dello sviluppo sostenibile, peraltro di portata più ampia, malgrado i limiti dimostrati, continua a rappresentare un parametro fondamentale a livello internazionale ed europeo, che in Italia è andato soggetto a interpretazioni diverse e non è ancora arrivato a ispirare le politiche istituzionali.

La principale sfida per il neo costituito CITE starà nella capacità di armonizzare i propri sforzi con un altro comitato interministeriale, il CIPE – Comitato interministeriale per la politica economica, divenuto dal gennaio 2021 CIPESS – Comitato interministeriale politica economica e sviluppo sostenibile, che pure si sta dotando di una strategia per orientare la politica economica e gli investimenti pubblici nella direzione del raggiungimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda ONU 2030.

Malgrado gli enunciati, in realtà abbiamo accumulato ritardi e arretramenti nel cammino verso l’attuazione dell’Agenda 2030, con l’aumento delle povertà e delle diseguaglianze e il peggioramento delle condizioni economiche e occupazionali. Seguendo l’approccio realistico che ci sembra caratterizzi le tue osservazioni, pensi che il cambiamento che ci si attende possa venire dai vertici politici e dalle istituzioni o, se ci sarà un cambiamento, sarà bottom up?

Questione a cui è difficile dare una risposta univoca. Alcuni problemi che vediamo oggi nella stessa comunità internazionale sono gli stessi di mezzo secolo fa. La presa di consapevolezza globale delle problematiche ambientali risale infatti al 1972, anno della prima Conferenza delle Nazioni Unite sull’Ambiente Umano, tenutasi a Stoccolma. Non esisteva ancora il concetto di sviluppo sostenibile, ma quella Conferenza fu segnata dalla contrapposizione tra Paesi in via di sviluppo e Paesi sviluppati, i quali ultimi chiedevano l’introduzione di regole e controlli sulle attività produttive a paesi che avevano appena iniziato la propria corsa verso il ‘benessere’.

Questa contrapposizione si è riproposta nell’ultimo G20 del 2021 tenutosi a Roma sotto presidenza italiana, perché se non è facile concordare a livello interno delle linee d’azione, porre delle limitazioni alla crescita economica è ancora più problematico a livello internazionale. Immaginiamo di trovarci in un paese in via di sviluppo molto popoloso come l’India, in una delle sconfinate periferie di città come Kolkata o Mumbai, come possiamo anche solo pensare di imporre nuove regole restrittive o controlli che possano mettere a rischio la crescita (sopravvivenza) economica? D’altronde proprio all’India, nell’ultima COP di Glasgow, i Paesi sviluppati hanno strappato solo il 2070 come deadline per il raggiungimento della “neutralità climatica”.

Sul clima è poco credibile quello che viene deciso a livello internazionale. A guardarlo da giurista, il Protocollo di Kyoto del 1997, che fa seguito alla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sul clima del 1992, difficilmente avrebbe potuto esser definito un accordo giuridico ‘vincolante’, perché conteneva talmente tante clausole di salvaguardia da lasciare ampia discrezionalità ai singoli stati nell’attuazione. Gli accordi più recenti, come quello di Parigi sul clima (2015), sono a mio parere ancora più labili, in quanto non predispongono meccanismi stringenti per l’attuazione delle misure stabilite.

Insomma, l’azione sul clima sul piano della cooperazione internazionale è utile perché determina una crescita di consapevolezza che si diffonde a tutti i livelli, ma non è uno dei settori in cui ha successo. L’impoverimento dell’ozonosfera era molto più semplice da affrontare, perché si trattava di intervenire su una decina di multinazionali coinvolte nella produzione di determinate sostanze riconosciute come lesive; mettere a fuoco un ampissimo intervento congiunto sul clima è molto più complesso.

L’Unione europea vorrebbe avere una leadership globale sul tema e si è posta come obiettivo la riduzione delle emissioni del 55% entro il 2030, fino alla completa “neutralità climatica”. In effetti, è in atto una negoziazione nell’ambito di quello che viene chiamato ‘Fit for 55’, il nuovo pacchetto per il clima presentato dalla Commissione il 13 luglio 2021, contenente diverse proposte legislative, tra cui la revisione del sistema di scambio di quote di emissione, la modifica della direttiva sulle energie rinnovabili e l’autosufficienza/indipendenza energetica, la creazione di un Fondo sociale per il clima.

Non nascondo le mie perplessità su questo momentaneo, apparentemente forte orientamento, perché gli interessi dei singoli Stati membri (e degli stakeholders coinvolti) sono molto diversi e talvolta confliggenti. Inoltre, guardando ad esempio al nostro Paese, dove l’azione di riduzione delle emissioni è in buona parte competenza dei Comuni, non sembra essi siano dotati delle necessarie capacità tecniche e di adeguate risorse umane dedicate per mettere a terra gli obiettivi posti da alcune delle misure contenute nel ‘Fit for 55’ (e nel PNRR).

Recentemente la UE ha inserito il nucleare tra le fonti energetiche “sostenibili” nella tassonomia verde. Come si giustifica che questo settore beneficerà dei finanziamenti destinati alla transizione ecologica?

La ragione di questa decisione sta nel fatto che il nucleare, in alcuni stati come la Francia, ha ancora la sua importanza. Se è vero che il semaforo verde europeo faciliterà gli investimenti per l’ammodernamento e la messa in sicurezza delle centrali esistenti, dietro questa proposta si celano ovviamente enormi interessi, pubblici e privati.

Ci sono movimenti che sperimentano modelli pratici e di pensiero volti a smantellare l’attuale modello di sviluppo. Quali occasioni di confronto ci sono tra il livello istituzionale e il livello delle comunità?

La definizione della Strategia nazionale per lo sviluppo sostenibile ha visto il coinvolgimento dei c.d. stakeholders; in particolare, interlocutore a livello della società civile è stata l’ASVIS, Alleanza per lo sviluppo sostenibile, che comprende centinaia di organizzazioni ed enti che si prefiggono di far crescere anche in Italia la consapevolezza dell’importanza dell’Agenda globale per lo sviluppo sostenibile.

Per quanto riguarda invece le procedure che hanno portato alla stesura del Piano per la transizione ecologica, dobbiamo dire che sono state meno attente al coinvolgimento delle Regioni e della società civile, ma si stanno ora apportando alcune modifiche in tale direzione.

La strada, d’altra parte, è stata più volte indicata. Nella Conferenza ONU su Ambiente e Sviluppo tenutasi a Rio de Janeiro nel 1992 venne adottata l’Agenda 21, che prevedeva delle Agende 21 locali, con il coinvolgimento dei territori e delle comunità. In questi trent’anni, molti comuni hanno attivato processi di consultazione, ma in seguito l’Agenda 21 è diventata meno importante e ce ne siamo dimenticati, ritrovandoci oggi davanti allo stesso percorso formulato in maniera diversa.

E allora forse ad un certo punto dovremmo dire che rispetto e conservazione dell’ambiente sono una questione etica, che riguarda l’ambito degli atteggiamenti individuali, più che il diritto e la politica. Pensare di costruire un sistema di partecipazione diffusa in Italia, in un sistema in cui, a fronte di problemi epistemologicamente sempre più complessi, non c’è una pubblica amministrazione abituata all’ascolto, al dialogo e alla mediazione, non è realistico.

Un ultimo punto, considerato che hai lavorato anche sul diritto delle migrazioni. Da anni si parla di rifugiati ambientali, ma non esiste un trattato o un accordo che li riconosca a livello formale. In Italia c’è stata una ordinanza del marzo 2021 della Corte di Cassazione che riconosce i rischi ambientali come causa di lesione della dignità umana e quindi il diritto alla protezione. Come giudichi questa sentenza?

Questa ordinanza è sicuramente innovativa e di grandissimo interesse. La Corte, dopo aver osservato che il tema del disastro ambientale è stato affrontato a livello internazionale dal Comitato delle Nazioni Unite sui diritti umani nell’ambito della decisione sul ricorso avanzato da un cittadino delle isole Kiribati, Ioana Teitiota (caso n. 2727/2016, decisione del 24 ottobre 2019), afferma che qualora il giudice di merito ravvisi, in una determinata area, una situazione idonea ad integrare un disastro ambientale o comunque un contesto di grave compromissione delle risorse naturali cui si accompagni l’esclusione della popolazione dal loro godimento, la valutazione della condizione di pericolosità diffusa esistente nel Paese di provenienza del richiedente, va condotta – ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria – con specifico riferimento al peculiare rischio per il diritto alla vita e all’esistenza dignitosa derivante dal degrado ambientale, dal cambiamento climatico o dallo sviluppo insostenibile dell’area.

L’ordinanza tratta quindi in modo diretto un problema che riguarderà – in realtà già riguarda – milioni di persone, ma occorre attenderne i seguiti e un conto è la giurisprudenza, un conto è il pieno recepimento degli orientamenti giurisprudenziali nel sistema giuridico nazionale.

Zeno Puccioni.

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