IQ. 05/04/2013 – “Ad Auschwitz saresti stata attenta” è la frase detta ad una studentessa ebrea in un liceo romano. L’insegnante si è subito difesa all’attacco della classe che l’ha definita razzista, dicendo “Non sono antisemita, ma nella scuola italiana non c’è più la disciplina di una volta”. Tutto ciò è successo al liceo artistico Caravillani, in piazza Risorgimento, un sabato di ottobre. La ragazza quel giorno non stava bene per un forte mal di testa: esce dalla classe, va in bagno, rientra al suo banco all’ultima fila, ma il malessere non passa. La docente la nota, e afferma: “Se fossi stata ad Auschwitz, saresti stata attenta”.
La madre va a protestare il lunedì dalla preside, che chiede una protesta scritta alla signora e apre un’istruttoria formale. La docente cerca di spiegarsi, ma aggiunge qualcosa di ancora più grave. “Ho detto quella frase per indicare un posto organizzato”: dopo l’apertura dell’inchiesta interna rischiava 15 giorni di sospensione, ma invece si ammala. La famiglia della giovane intanto si rivolge alla Comunità ebraica romana e a gennaio in un incontro a cui partecipano la ragazza, sua madre, la dirigente scolastica e il presidente della Comunità Riccardo Pacifici, la prof dice di non essere antisemita, ma non cambia la sua posizione: “Ammetto di aver detto quella frase in classe, ma l’ho pronunciata per indicare un posto dove regnava l’ordine”. Alla fine la prof porta si mette in malattia per un mese, in attesa di andare in pensione a settembre per raggiunti limiti d’età. Ieri la classe è stata ricevuta da Pacifici al Museo ebraico. I compagni di classe sono stati da subito solidali con la ragazza e la loro capacità di non rimanere indifferenti è stata la migliore risposta ad ogni forma di razzismo e intolleranza. Commentare episodi legati ai campi di sterminio non è mai semplice. È un capitolo della storia così doloroso, così orribile che per quanto si voglia essere reali si rischia di non esserlo mai troppo. Si corre il pericolo di semplificare, di banalizzare per il solo scopo di raccontare. Per quanto colpevole c’è sempre, quando si narra, una sorta di occhio o gesto che risana e ripaga, in un certo senso, qualcosa che non potrà mai essere ripagato.