“Era nata come una passione ed è finita come un incubo.
Era partito tutto da ‘mamma domani uso il nastro in palestra per la prima volta’ ed è finita con ‘non posso mangiare né bere, domani l’allenatrice porta la bilancia e se ho messo su peso mi toccherà correre per un’ora con la fune ed i pesi sulle caviglie, come fanno fare a Giulia, che deve perdere peso'”.
Sono le parole di Sveva Lamberti, 18 appena compiuti, costretta a rinunciare al sogno della ginnastica ritmica, a un passo dalla morte a causa dell’anoressia.
“Io sono sempre stata molto sottopeso, ma ero terrorizzata, Giulia era una mia grande amica e temevo – racconta in una testimonianza raccolta da ChangeTheGame – che ciò che facevano a lei, come ad altre compagne, potesse essere fatto anche a me.
Una volta Giulia era salita sulla bilancia, l’allenatrice ha guardato il peso, poi ha guardato Giulia ed è scoppiata a ridere per umiliarci. Giulia si mise a piangere. Erano pressioni indirette che però hanno gravato tanto su di me”. “Ovviamente – prosegue Sveva – non sono mancate nemmeno pressioni dirette. Una volta mi ero messa in body, la mia allenatrice mi disse ‘settimana prossima hai gli allenamenti nazionali, dove credi di andare con quel sedere? Guarda che vi peseranno!’. Un’estate, una delle mie allenatrici aveva fatto un cartellone con i nostri pesi attuali e quelli che, per lei, dovevamo raggiungere: tutto fatto senza fondamento scientifico né medico. Quando mangiavo poco venivo elogiata e così mi convinsi che stavo facendo la cosa giusta. La ginnastica era la mia vita, o forse anche di più ma, a causa degli inevitabili problemi con il cibo che ne sono conseguiti, ad agosto 2020 ho dovuto smettere. Non avevo più forze. Da lì è iniziato il declino”.
“Dopo 8 mesi – sono le parole di Sveva – sono stata ricoverata in neuropsichiatria d’urgenza per anoressia. Ero in fin di vita, avevo 30 battiti al minuto e rischiavo l’arresto cardiaco. Mi hanno messo il sondino, non volevo mangiare. Non riuscivo a guardarmi allo specchio, mi vedevo sempre grassa, pesavo 37kg ed ero alta 1,73. Mi pesavo 30 volte al giorno. Ero convinta fosse giusto così, o meglio era quello che mi avevano fatto credere fosse giusto. La mia allenatrice aveva fatto diventare la bilancia lo strumento che stabiliva il mio valore. Non ero più una persona, ero un numero. Il primo ricovero non è servito a molto. Durante questo, infatti, continuavo a vedere i medici come nemici, mentre la voce della mia allenatrice mi rimbombava in testa e mi continuava a spingere sempre di più verso la morte. Uscita dall’ospedale mi misero subito in attesa per un altro ricovero in un centro per disturbi alimentari. Quando venni ricoverata, la mia situazione era talmente critica che non potevo fare nulla, non potevo andare a scuola, non potevo camminare, non potevo studiare, non potevo vivere. I medici, giustamente, mi avevano impedito di fare tutto ciò per salvaguardare la mia vita che stava per essere inghiottita dalla morte. Questo centro per disturbi alimentari mi ha salvato la vita assieme alla mia psicologa. Non ne sono uscita, sono ancora sulla via della guarigione, ma quest’ultima, che prima sembrava essere diventata quasi irraggiungibile, ora è ad un passo da me”.