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IPAZIA: ANATOMIA DI UN OMICIDIO.

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Il 25 novembre scorso è stata la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. Con questo articolo vogliamo rendere omaggio ad una delle tante, troppe vittime femminili che nel passato e ancora oggi sono state oggetto di ogni forma di violenza, financo l’omicidio. La sensibilizzazione sul gravissimo problema ha, secondo noi, ancora tanta strada da percorrere: basti pensare alle pratiche barbare che sono tuttora in uso in taluni Paesi del Terzo Mondo, ma anche alle violenze commesse nel civile occidente. Molte volte, chi sa guarda dall’altra parte per non essere coinvolto e non avere problemi, e tante altre volte è la Magistratura stessa a non avere – o non volere – i mezzi per punire i colpevoli. Fatta questa doverosa premessa, procediamo con l’argomento di oggi.

Alessandria d’Egitto, anno 415 dell’era cristiana: lungo la Via Canopica viene trascinato il cadavere di una donna, assassinata da un’orda di fanatici cristiani che farà scempio del suo corpo in un luogo chiamato “Cinaron”. Il nome di questa sventurata era Ipazia, una grande filosofa neoplatonica che ebbe tra i propri discepoli i giovani delle élite del Mediterraneo orientale. Ma prima di addentrarci nei dettagli del suo omicidio, cerchiamo di determinare i contesti nei quali esso fu perpetrato.

Fotogramma dal film Agorà.

Il contesto storico-geografico: Alessandria d’Egitto

Fu la prima delle città omonime fondate da Alessandro Magno tra il 332 e il 331 a.C., che sostituì la precedente fondazione greca sul Delta, Naucrati. Al tempo del geografo Strabone, la città era formata da un intreccio di ampie vie, ai lati delle quali sorgevano imponenti e fastosi templi, edifici come la tomba di Alessandro Magno e dei Tolomei, l’ippodromo, lo stadio, il ginnasio e il famoso faro. La città ebbe uno straordinario sviluppo in vari settori. A livello commerciale, infatti, grazie alla sua produzione artigianale ed artistica, Alessandria divenne il più importante snodo del Mediterraneo e un crocevia di scambio di merci di ogni genere, che ne fecero una delle più importanti città del mondo ellenistico e più tardi una delle principali metropoli dell’antichità, seconda solo a Roma per grandezza e ricchezza. Non stupisce, quindi, che in un luogo del genere si incontrassero e convivessero culture diverse, tra greco-macedoni, ebrei, egiziani, romani, arabi e siriani, ognuno con leggi e costumi differenziati. Per tutta l’antichità, Alessandria fu meta di studiosi che la consideravano un prestigioso centro culturale, grazie anche alla presenza della celeberrima Biblioteca: non dimentichiamo che fu proprio qui che la Bibbia venne tradotta in greco nella versione conosciuta come dei “Septuaginta” (ossia “dei Settanta”, dal numero dei sapienti che collaborarono all’impresa), che costituisce tuttora la parte liturgica dell’Antico Testamento per le chiese ortodosse orientali di tradizione greca.

Il contesto religioso: la lotta tra cristiani e pagani

Malgrado la progressiva cristianizzazione di Alessandria, nel IV secolo il politeismo non aveva ancora perso fulgore: dèi greci, orientali e romani convivevano e si fondevano nella tradizione greco-egizia. Tuttavia, non mancarono gli attriti ideologici e politici. In particolare, i cristiani erano in aperta critica con le altre correnti religiose: disapprovavano i pagani e le loro filosofie, si scontravano con gli ebrei che ritenevano “deicidi”, i quali ricambiavano l’ostilità descrivendo il cristianesimo come devianza dell’ebraismo. La corrente principale della cristianità antica disprezzava le eresie sorte in seguito ai primi Concili ecumenici, ovvero le idee di quei gruppi di cristiani che interpretavano la Bibbia diversamente da loro, ad esempio sostenendo che il dio cristiano non fosse una trinità (come il nestorianesimo, l’arianesimo e il monofisismo). Il politeismo iniziò a decadere nel V secolo quando, a livello politico, sociale ed economico s’imposero progressivamente l’élite cristiana e la Chiesa, favorite da un Impero ufficialmente cristiano a partire dal 380, quando entrò in vigore “l’Editto di Tessalonica”: emesso il 27 febbraio di quell’anno (Ipazia aveva allora 25 anni) dal nuovo imperatore d’Oriente Teodosio I, insieme agli imperatori d’Occidente Graziano e Valentiniano II (che aveva nove anni), esso fu un capolavoro di intolleranza che imponeva il cristianesimo cattolico come unica religione ufficiale dell’Impero Romano e vietava altri culti, quali l’arianesimo e il paganesimo, fortificando il potere dei vescovi, i quali poterono dare sfogo al loro odio cieco e fanatico. Riteniamo opportuno dare qui la versione integrale dell’Editto: “Gli imperatori Graziano, Valentiniano e Teodosio Augusti. Editto al popolo della città di Costantinopoli. Vogliamo che tutti i popoli che ci degniamo di tenere sotto il nostro dominio seguano la religione che san Pietro apostolo ha insegnato ai Romani, oggi professata dal Pontefice Damaso e da Pietro, vescovo di Alessandria, uomo di santità apostolica; cioè che, conformemente all’insegnamento apostolico e alla dottrina evangelica, si creda nell’unica divinità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo in tre persone uguali. Chi segue questa norma sarà chiamato cristiano cattolico, gli altri invece saranno considerati stolti eretici; alle loro riunioni non attribuiremo il nome di Chiesa. Costoro saranno condannati anzitutto al castigo divino, poi dalla nostra autorità, che ci viene dal Giudice Celeste. Dato in Tessalonica nel terzo giorno delle calende di marzo, nel consolato quinto di Graziano Augusto e primo di Teodosio Augusto”. Parole che praticamente erano un’arma micidiale posta nelle mani di qualsiasi vescovo esaltato.

Ed infatti sulla base di questo editto, il patriarca di Alessandria, Teofilo, spinse i cristiani egiziani a manifestazioni violente. Dalla sua parte erano schierati i monaci di Wadi-el-Natrun, eredi di eremiti cristiani che, secondo le fonti, avevano sviluppato uno spirito brutale e un odio verso la società. Sotto la spinta del pio Teofilo, questi estremisti incendiarono diversi santuari pagani ed ebraici. La distruzione del Serapeum (il grande tempio dedicato al dio Serapide) fu il culmine di una serie aggressioni esplose mentre i cristiani erigevano una chiesa in un luogo abbandonato. Secondo Rufino di Aquileia, durante i lavori vennero alla luce resti di grotte collegate al culto di Mitra e oggetti rituali che i cristiani esibirono con scherno. Tale condotta irritò i pagani e portò ad un violento scontro che causò diverse vittime. Allora i politeisti cercarono rifugio nel Serapeo. Per evitare che gli episodi di violenza aumentassero, le autorità si dimostrarono clementi con entrambi i gruppi e per tutta risposta i cristiani assaltarono il tempio. Il simulacro di Serapide (una imponente ed alta statua realizzata in una lega metallica bluastra e ricoperta da un mantello adornato di pietre preziose, venerata da pellegrini che giungevano da tutto l’Oriente) fu decapitato e ridotto in frammenti ed ogni sua parte fu data alle fiamme. La distruzione del magnifico tempio rappresenta l’emblema di una cancel culture ante litteram che segnò l’inizio della fine della straordinaria civiltà antica, sostituita da un oscurantismo che ha causato all’umanità la perdita di secoli e secoli di progresso.

Chi era Ipazia?

Sembra assurdo, ma la più nota filosofa dell’antichità, quella che conosciamo di più anche grazie ad opere letterarie, romanzate e film, non ci ha lasciato molte notizie di sé. I suoi scritti sono andati distrutti in uno dei vari incendi della Biblioteca, e ciò che sappiamo è stato ricostruito tramite il contesto scientifico e religioso dell’Alessandria del IV e V secolo d.C., nonché dalle informazioni presenti nelle lettere che il suo discepolo più conosciuto, Sinesio di Cirene (in seguito vescovo di Tolemaide), scambiò con la maestra e con i compagni di scuola.

Ipazia era figlia di Teone d’Alessandria, uno dei più illustri maestri della città. Matematico ed astronomo, Teone tramandò diversi scritti, tra cui un metodo per estrarre le radici quadrate e due commentari per le opere “Elementi” di Euclide e “Almagesto” di Tolomeo. Quando nacque sua figlia, iniziò a trasmettere queste conoscenze anche a lei perché sarebbe stata la sua erede, come prevedeva la “diadoche”, una sorta di tradizione iniziatica di avvicendamento dei maestri nella filosofia neoplatonica. Probabilmente orfana di madre, Ipazia crebbe nello studio del padre, apprendendo tutto ciò che sapeva. Dalla filosofia neoplatonica assorbì l’austerità, la schiettezza, la spiritualità, l’apertura al dialogo e la ricerca della verità. Più tardi, dopo aver approfondito le sue conoscenze anche ad Atene e in Italia, Ipazia divenne così capace che, ancora ragazza, le offrirono la cattedra di una delle più importanti scuole di Alessandria. Maturò in una donna distinta, tollerante, persuasiva, appassionata: abile ed equilibrata nella parola, ma anche decisa nelle azioni. Si narra che nelle conoscenze scientifiche, filosofiche e politiche avesse superato il padre; Socrate Scolastico, storico suo contemporaneo, scrisse che: “era arrivata a un tale vertice di sapienza da superare di gran lunga tutti i filosofi della sua cerchia”. Non a caso i potenti dell’epoca la consultavano spesso per prendere decisioni e le chiedevano di fare da intermediaria negli scontri politici, una situazione pericolosa che sarà il motivo del suo assassinio. Nonostante fosse pagana, era stimata anche da alcuni cristiani, come appunto il vescovo e suo allievo Sinesio di Cirene, ed era ammirata anche da molti di coloro che la ritenevano inferiore in quanto donna.

Filosofia, scienza e religione erano all’epoca campi dai confini labili, che si contaminavano a vicenda. Dell’Ipazia scienziata sappiamo che realizzò commenti e rivisitazioni di opere di algebra, geometria e astronomia di autori classici, inoltre inventò e fece realizzare dai suoi studenti almeno tre strumenti: un idroscopio (per misurare la densità dei liquidi), un aerometro (che misurava la densità di alcuni gas) e un astrolabio piatto, uno strumento che consentiva di localizzare gli oggetti celesti, formato da due dischi metallici forati che potevano ruotare l’uno sull’altro grazie a un perno rimovibile.

Non sappiamo che aspetto avesse Ipazia. Le fonti la descrivono come molto bella e si dice che gli studenti, che talvolta avevano un’età superiore alla sua, spesso se ne innamorassero e la corteggiassero, finendo tutti respinti duramente dalla filosofa che ricordava loro come il desiderio fisico fosse legato al corpo e alla nostra spinta a perpetuare la specie, impulso da sublimare e da trasformare in amore per il sapere.

Una filosofa trasversale

Ipazia era una seguace del neoplatonismo nella sua variante scientifica, che riteneva la matematica e l’astronomia alcuni dei passi verso la conoscenza dell’Uno, l’essere supremo da cui emanano tutte le cose e di cui quelle materiali sono una copia imperfetta. Questa fu la ragione per cui tra i suoi allievi si trovavano pagani e cristiani (che potevano identificare l’Uno con il Creatore); sia gli uni che gli altri condividevano il desiderio di elevarsi spiritualmente. Se a prima vista possa sembrare strana la convivenza tra studenti di fedi diverse, ciò si spiega facilmente se si considera che Ipazia poneva l’accento su una riflessione di carattere scientifico, basata appunto su matematica ed astronomia. Fu questa la ragione per cui la filosofa mantenne una posizione neutrale durante gli scontri tra pagani e cristiani che dilaniavano la città: risulta infatti che non si schierò durante gli eventi che portarono alla distruzione del Serapeum nel 391. Ipazia non era una pagana devota e, per raggiungere l’Uno, non ricorreva alla magia o agli oracoli che invece erano lo strumento della corrente maggioritaria dei neoplatonici. Eppure, nonostante questa neutralità e razionalità, essa fu uccisa.

L’assassinio di Ipazia

Nel 415 d.C. la filosofa stava tornando a casa in carrozza, quando una folla di cristiani la afferrò, la trascinò sulla strada e la denudò. In gruppo la trascinarono nel Caesareum (il quartier generale del vescovo Cirillo, trasformato in chiesa cristiana) dove la smembrarono con l’aiuto di cocci e le cavarono gli occhi mentre era ancora viva. Poi trascinarono i suoi resti lungo la via Canopica e diedero loro fuoco in un luogo chiamato Cinaron. Le fonti in nostro possesso sono abbastanza concordi nella ricostruzione di questo efferato omicidio, e nel VI secolo Damascio, un autore pagano, accusa apertamente il patriarca di Alessandria Cirillo e i suoi seguaci. Questo atto criminoso fu condannato da molti, ma non dall’imperatrice di fatto, l’estremista Pulcheria, che reggeva il trono dell’imperatore bambino Teodosio II, né da altri politici, che erano stati corrotti. Così l’inchiesta fu insabbiata e il crimine restò impunito. Ma perché fu uccisa, se non era mai stata schierata con nessuna delle fazioni, e chi furono gli esecutori del vile delitto?

Gli esecutori

Sulla base delle fonti viene ormai accettato che l’omicidio di Ipazia fu compiuto dai Parabolani, un collettivo laico vincolato a Cirillo e che, pur essendo nato per assistere i malati bisognosi, agiva come suo braccio armato. Secondo diversi studi, i Parabolani furono reclutati tra i monaci di Wadi-el-Natrun, antichi seguaci del predecessore di Cirillo, Teofilo. Questi monaci avevano giocato un ruolo non secondario nelle aggressioni cristiane contro la comunità ebraica nel 414, e avevano attaccato con ferocia il prefetto d’Egitto Oreste, rappresentante imperiale ad Alessandria reo, secondo i devoti cristiani, di aver condannato il gesto ed aver inviato una protesta ufficiale a Costantinopoli. Eppure, dopo quell’attentato, i monaci erano fuggiti e Cirillo poteva disporre ad Alessandria solo dei Parabolani. Se dunque essi furono gli esecutori del crimine, quale fu il motivo dell’assassinio?

Cirillo di Alessandria.

Il movente

È assai probabile che Ipazia sia stata vittima degli intrighi politici del tempo e la sua fine dipese molto probabilmente dallo scontro aperto tra Cirillo e Oreste. Quando, come abbiamo visto, quest’ultimo fu aggredito dai cristiani, Cirillo elogiò pubblicamente il gesto, rendendo impossibile ogni tentativo di riconciliazione. Oreste era malvisto anche da molte altre figure cattoliche perché, nonostante fosse cristiano, gestiva il potere in modo laico. Tuttavia, ciò rispondeva ad una concreta necessità: l’amministrazione imperiale cercava infatti di preservare la stabilità politica di Alessandria, metropoli di enorme importanza politica ed economica. Per questo il prefetto, per quanto cristiano, doveva necessariamente contare sulla collaborazione dell’aristocrazia cittadina, che rendeva per lo più culto agli dèi pagani. Doveva inoltre evitare a tutti i costi l’opposizione degli ebrei e ottenere al contempo l’appoggio di quei cristiani che si opponevano a Cirillo e alla violenza con cui questi esercitava il vescovato. In un simile contesto Ipazia appariva agli occhi di Oreste come un adeguato negoziatore, un intermediario accettato dalle forze della società alessandrina, sia per la sua condizione di filosofa di prestigio sia perché non si era compromessa nella difesa del politeismo. E soprattutto perché, tramite i suoi vecchi alunni, manteneva relazioni cordiali con i circuiti del potere cristiano ad Alessandria e a Costantinopoli. L’autorevolezza a lei riconosciuta in simili ambienti la rese una figura di elevata influenza nella città, immune alle pressioni che poteva esercitare il pio e mansueto Cirillo. Ipazia era quindi il simbolo della nuova alleanza tra pagani, ebrei e cristiani. Andava quindi assolutamente eliminata.

Il mandante

Cirillo, dunque. Anzi, San Cirillo fu colui che organizzò l’omicidio di Ipazia. Ci viene da pensare, malignamente, che la misogina Santa Chiesa del tempo lo abbia voluto ricompensare con la canonizzazione per aver rimesso “al suo posto” una donna pagana e (orrore!) pensante… Ai nostri occhi tale individuo non è né più e né meno che un volgare gangster, ma i paramenti ecclesiastici fanno miracoli. Questo nefasto personaggio venne nominato patriarca o vescovo di Alessandria nel 412 non senza polemiche, perché in teoria non era lui che doveva succedere allo zio Teofilo. Per questo motivo cercò sempre di fare sfoggio del proprio potere e di ottenere la lealtà della congregazione cristiana di Alessandria. A questo si devono anche i suoi attacchi ai politeisti e agli ebrei (massacrati ed espulsi, come abbiamo visto, nel 414). Presto si guadagnò anche l’opposizione di quei cristiani che rifiutavano l’uso della violenza, pochi, in verità. L’aiuto su cui poteva contare, ossia sulle orde di monaci del deserto, non era insolito perché lui stesso si era formato in una di quelle comunità monastiche. Cominciò con una campagna di diffamazione contro Ipazia, che venne accusata di magia nera e descritta come una pericolosa strega che con i suoi sortilegi riusciva ad attrarre ai suoi corsi i credenti e che era riuscita ad abbindolare lo stesso Oreste. Infatti, poiché la filosofa si incontrava spesso con il prefetto, fu accusata di essere proprio lei a non lasciare che si potesse realizzare una riconciliazione con Cirillo. E ancora, fu accusata anche di essere la causa per cui Oreste non andasse più a messa e avesse consentito l’ingresso di persone non cristiane nella propria casa. Tutti questi luoghi comuni – nemmeno così originali, se si pensa a cosa dovettero subire le donne che occupavano una posizione “trasgressiva” rispetto al tradizionale ruolo di madri e mogli – miravano a trasformare in nemica pubblica un personaggio di prestigio della società. Come racconta Suida, un tardo lessicografo, il culmine si ebbe quando Cirillo passò davanti alla casa di Ipazia e vide che era molto frequentata da coloro che la consultavano e apprendevano da lei. L’episodio avrebbe portato il vescovo-criminale alla decisione fatale: “Cirillo si sentì mordere l’anima: fu per questo motivo che organizzò ben presto l’assassinio di lei, la più empia di tutte le uccisioni”. L’omicidio di Ipazia mise fine alla minaccia che la filosofa rappresentava per il patriarca, visto il suo peso nella politica promossa da Oreste, che si basava sul consenso tra i diversi gruppi religiosi.

Perché tanta violenza

Ancora oggi, le modalità estremamente violente di questo omicidio lasciano sgomenti. Perpetrato in un clima di fanatismo, di ripudio della cultura e della scienza in nome della crescente religione cristiana (i cui seguaci avevano da tempo iniziato a criticare la cultura dei paesi che li ospitavano…), il delitto è stato compiuto con modalità rituali, che si ripeterono anche nella fine violenta di due patriarchi di Alessandria, uccisi rispettivamente prima e dopo Ipazia: gli ariani Giorgio di Cappadocia, nel 363, e Proterio, nel 457. Sebbene le circostanze che avvolsero la morte dei due vescovi e della filosofa siano ben diverse, i loro decessi presentano lo stesso schema rituale: sfilata in processione del cadavere lungo la via Canopica (il principale asse urbano di Alessandria), squartamento del corpo e trascinamento dei resti per i distretti della città, con successiva incinerazione. Nel 391, durante l’assalto al Serapeum, abbiamo visto come anche la statua del dio Serapide fosse stata oggetto della stessa violenza rituale. Tale reiterazione dimostra che Ipazia non fu vittima isolata di una violenza estrema, poiché la crudeltà che le venne riservata corrisponde ad un modus operandi già sperimentato in città dal 249, ossia da quando i cristiani andarono incontro ad una morte simile in seguito alle persecuzioni dell’imperatore Decio. In tale ottica, la morte della filosofa alessandrina non fu il risultato di una ferocia incontrollata, ma di un rituale “istituzionalizzato” contro i presunti nemici della concordia cittadina.

Un delitto impunito

Come abbiamo già detto, il terribile omicidio restò impunito perché l’inchiesta fu insabbiata. Oreste fu costretto ad accontentarsi di alcuni provvedimenti relativi ai Parabolani: gli imperatori d’Occidente e d’Oriente, Onorio e Teodosio II, limitarono la loro presenza negli spazi pubblici, proibendo il loro intervento nelle riunioni del consiglio cittadino, nelle sale della giustizia o negli spettacoli, e limitando il loro reclutamento ad un massimo di cinquecento membri. Con ciò il governo cercava di svincolarli dal patriarca e di metterli sotto il controllo dei prefetti augustali tramite l’iscrizione obbligatoria ad una corporazione, per poterli meglio identificare in caso di uno scontro armato.

Le conseguenze

L’assassinio di Ipazia rappresentò sicuramente un “danno collaterale” del tentativo di distruzione del potere statale da parte dei capi cristiani più avidi, ma la sua morte non segnò la fine del Neoplatonismo. L’educazione ellenica che la filosofa tramandava sopravvisse fino al Rinascimento e contaminò il culto cristiano e le filosofie a venire. Dopo la sua scomparsa pagani e cristiani continuarono a convivere ad Alessandria per più di un secolo e la scuola neoplatonica mantenne la propria vitalità, garantita da alunni cristiani e pagani, fino alla conquista araba dell’Egitto nel VII secolo; prova di tale convivenza è il fatto che, agli inizi del VI secolo, il direttore della scuola fu un pagano, Ammonio, e il suo vice, nonché curatore delle opere, il cristiano Giovanni Filopono.

Il “problema” di essere donna

In un clima di fanatismo religioso come quello di Alessandria, ma anche in altri luoghi dell’Impero, essere donna ha rappresentato per Ipazia un’aggravante, in quanto persona di libero pensiero. La religione cristiana in espansione non accettava che la donna potesse avere ruoli importanti nella società (non dimentichiamo che le origini del cristianesimo sono medio-orientali…), men che meno una posizione libera come la sua, capace di aprire le menti e educandole al ragionamento autonomo, senza inchinarsi a nessun dogma. Inoltre, in un clima in cui si imponeva alle donne di girare col velo e di restare chiuse in casa in posizione subalterna all’uomo, non poteva essere accettato che una donna formulasse ipotesi sul funzionamento del cosmo.

Ipazia in un ritratto immaginario del 1908 di Elbert Hubbard.

L’eredità di Ipazia

Considerata già dai suoi contemporanei una delle menti più avanzate esistenti allora, viene oggi ricordata come un simbolo della libertà di pensiero e dell’indipendenza della donna, oltre che come martire del paganesimo e del dogmatismo fondamentalista. È una delle poche donne ad essere citata in quasi tutte le opere che parlano di storia e di scienza. Gli Illuministi resero la filosofa un esempio del razionalismo greco e un emblema della necessità di liberare l’umanità dal dogmatismo religioso: Voltaire considerò la morte di Ipazia un assassinio bestiale dei “mastini tonsurati di Cirillo”, mentre lo storico inglese Edward Gibbon considerò il suo assassinio il riflesso del trionfo della religione che segnò la fine di Roma: siamo tentati di sentirci un po’ “Gibboniani”… La sua fine ha ispirato molti altri scritti, poesie, opere teatrali e dipinti. La scienziata compare anche in alcuni fumetti, come una storia di “Corto Maltese” e “Monument Valley” di Zagor, ed è celebrata nel brano musicale “Anno 410” di Salvatore Sciarrino. È famoso il film liberamente ispirato alla sua storia girato nel 2009, “Agorà”. E non dimentichiamo che a suo nome è stato dedicato il Centro Internazionale Donne e Scienza, creato nel 2004 dall’UNESCO a Torino per sostenere lo studio, la ricerca e la formazione, in particolare delle donne scienziate del Mediterraneo. Ipazia fu maestra di un sapere scientifico le cui origini risalgono ad almeno mille anni prima e che il crollo del mondo ellenico e il trionfo del cristianesimo seppellirà per molti secoli, sino al nascere della scienza moderna, da Galileo in poi. La sua storia, ancora oggi, dovrebbe far riflettere su come i dogmi –ideologici, politici, religiosi o di qualsiasi altra natura- siano nemici della conoscenza, della libertà di pensiero e dell’evoluzione.

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