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Il legame tra calcio e salute delle ossa.

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Il legame tra calcio e salute delle ossa è dato per scontato, ma i dati degli studi indicano che l’integrazione con il minerale non riduce il rischio di fratture in modo significativo, anche se risulta associata con un leggero aumento della densità ossea. Anche l’integrazione con vitamina D non presenta effetti protettivi importanti: soltanto quando vitamina D e calcio sono combinati la riduzione del rischio diventa apprezzabile.

Le proteine sono state ritenute a lungo un problema per la salute delle ossa, a causa dell’aumentata escrezione di calcio che è legata ad un consumo elevato, potenziale causa di minor densità ossea. Per ogni grammo di proteine in più consumato, si registra un aumento dell’escrezione di calcio di circa 1 mg, legato ai processi metabolici che coinvolgono gli aminoacidi contenenti zolfo e che comportano un aumento del carico acido, neutralizzato grazie all’azione tampone del minerale che è così sottratto alla matrice dell’osso. Tuttavia, gli studi a supporto di questa ipotesi sono vecchi, risalgono agli anni 70 del secolo scorso, su gruppi molto limitati, con problemi metodologici rilevanti alla luce di procedure più moderne e rigorose.

Lavori più recenti e estesi studi di popolazione hanno mostrato che un buon apporto proteico è in realtà associato ad una miglior salute delle ossa particolarmente in soggetti adulti e anziani, soprattutto quando la dieta è ricca di calcio e prevede un elevato consumo di verdura e frutta. Un ridotto consumo di proteine è invece associato a valori altrettanto ridotti di fattori di crescita — IGF-1 in primo luogo — che sono importanti per lo sviluppo e il mantenimento della massa ossea, un dato problematico sia durante la crescita, fase essenziale per lo sviluppo di uno scheletro sano e robusto, sia nella terza età quando — a causa dell’osteoporosi — aumenta il rischio di fratture.

Desta quindi particolare interesse un lavoro recente, uno studio di popolazione il cui obiettivo è stato di stabilire il rischio di fratture in siti specifici in funzione della dieta, particolarmente in soggetti vegani, in un arco di tempo molto esteso.

Il lavoro ha utilizzato i dati provenienti dall’EPIC-Oxford, uno studio di popolazione che ha coinvolto 65.000 soggetti a partire dal 1993. Al momento del reclutamento i soggetti hanno compilato un esaustivo questionario che ha permesso di raccogliere dati dettagliati su storia medica, dieta, stile di vita e condizione socioeconomica. Un secondo questionario, simile al primo, è stato utilizzato nel 2010 e i partecipanti sono stati seguiti, per raccogliere gli eventi di interesse — specifici tipi di fratture, in questo caso — fino al 2016.

Molto elevato il numero iniziale di soggetti coinvolti, 54.898; di questi 30.391 hanno risposto anche al secondo questionario. In base alle risposte fornite i soggetti sono stati suddivisi in quattro gruppi:

carnivori, 29.380;

pescetariani, che non consumano carne ma mangiano comunque pesce, 8.037;

vegetariani, che eliminano sia carne che pesce ma che comunque consumano latte e latticini o uova (anche entrambi), 15.499;

vegani, che consumano soltanto prodotti di origine vegetale, 1982.

I ricercatori hanno valuto sia il rischio di fratture in siti specifici — braccio, con omero,radio e ulna; polso; anca; gamba con corpo del femore, rotula, tibia e fibula; caviglia; clavicola; costole e vertebre — sia il rischio totale di fratture, la cui incidenza è stata definita come la prima registrazione di una frattura in qualsiasi sito.

I dati raccolti sono stati sottoposti a rigorosa analisi, tenendo conto di fattori determinanti come età, sesso, indice di massa corporea, abitudine al fumo, consumo di alcol, utilizzo di integratori alimentari — in particolar modo calcio e vitamina D — stato sociale e livello di educazione. Per le donne, si è anche tenuto conto dello stato menopausale, dell’eventuale ricorso a terapia sostitutiva ormonale e del numero di gravidanze. Ovviamente una particolare attenzione la si è riservata alla dieta, valutando non soltanto la tipologia di cibi consumati ma anche l’apporto proteico e quello di calcio. Sono stati esclusi dall’analisi tutti i soggetti con patologie metaboliche, cardiovascolari e cancro e quelli trattati in cronico con farmaci.

Nel periodo esaminato sono state registrate 3941 fratture in totale, ulteriormente classificate a seconda dei vari siti di interessati; le più numerose? quelle dell’anca.

Al termine dell’analisi è risultato che per quanto riguarda il rischio totale di fratture i vegetariani, e ancor di più i vegani, presentano un aumento significativo rispetto a pescetariani e carnivori. Anche tenendo in considerazioni fattori come indice di massa corporea, apporto proteico e di calcio, il rischio rimane più elevato, in maniera apprezzabile per i vegani, in maniera più sfumata per i vegetariani.

L’aumento del rischio per soggetti vegani e, in misura minore, vegetariani, permane anche per fratture di anca, femore, tibia e fibula, clavicola, coste e vertebre. Non sono invece presenti variazioni significative nel rischio di fratture delle ossa di braccio e avambraccio e della caviglia.

Anche analisi più raffinate, che hanno esaminato soltanto soggetti con sufficiente apporto di proteine e calcio e hanno tenuto conto dell’età dei partecipanti, hanno mostrato questo tipo di associazione, particolarmente rilevante per donne vegane nella fase postmenopausale, in soggetti con ridotta attività fisica e basso indice di massa corporea.

Gli autori concludono il loro lavoro indicando che, alla luce dei dati raccolti, il rischio di fratture, in particolar modo dell’anca, aumenta progressivamente tra i pescetariani, i vegetariani e soprattutto tra i vegani; una parziale spiegazione, aggiungono i ricercatori, potrebbe essere legata a un ridotto apporto di calcio e proteine tra i soggetti che non consumano carne, anche se differenze apprezzabili rimangono quando si tiene conto di questi fattori.

Punto di forza dello studio è l’elevato numero di soggetti coinvolti, che ha permesso di esaminare i risultati tenendo conto di molti fattori in grado di influenzare i risultati, mantenendo comunque i campioni in esame sufficientemente numerosi (un problema di molti studi è infatti il numero molto ridotto dei soggetti esaminati, un fattore che può ridurre in maniera notevole la potenza statistica del lavoro). Inoltre l’analisi dei due questionari compilati ha evidenziato che non si sono avuti importanti cambiamenti nelle abitudini alimentari dei soggetti, cambiamenti molto temuti in questo genere di studi perché in grado di influenzare pesantemente i risultati.

Potenziali punti deboli: il fatto che il campione esaminato è costituito soprattutto da soggetti di discendenza europea e quindi i risultati potrebbe non essere generalizzabile a soggetti di etnia diversa, e in prevalenza da donne, circa il 77%, per cui i risultati potrebbero essere influenzati da fattori legati al sesso.

Alimenti insospettabili come i funghi champignon, purché esposti per un certo periodo di tempo all’azione della luce solare o di radiazione ultravioletta, possono garantire un discreto apporto di vitamina D, altrimenti quasi del tutto assente in un’alimentazione vegana.

Le diete vegane sono davvero un problema per le ossa? Studi di questo tipo sono molto interessanti ma hanno un enorme difetto: si prestano ad essere trasformati in temibili armi nelle lotte di religione che sono, purtroppo, la regola tra i “fedeli” delle varie tipologie di dieta.

Per anni i vecchi studi degli anni 70 sono stati utilizzati da vegetariani e vegani — non tutti, sia chiaro, qui si parla di zeloti e militanti — come la pistola fumante in grado di provare che il consumo di proteine, e per traslato di carne, sciogliesse letteralmente le ossa in un mare di acido. Ovvio che questo lavoro, se interpretato in maniera assolutamente parziale, potrebbe fornirà alle tante tribù carnivore l’arma con cui attaccare i fragili — lo dice la scienza! — vegani.

In realtà, un’analisi ponderata dei dati ci indica che l’associazione tra dieta e rischio di fratture è molto meno evidente, seppur ancora presente, quando si tenga presente dell’indice di massa corporea del soggetto. L’effetto protettivo di un peso corporeo maggiore, soprattutto per fratture dell’anca, era stato evidenziato da diversi studi e potrebbe essere dovuto a fattori diversi: il grasso sottocutaneo può smorzare la forza dell’impatto in caso di caduta; il grasso viscerale può aumentare la produzione di estrogeni, essenziali per i processi di modellazione delle ossa; infine, il peso maggiore, che esercita uno stimolo meccanico sulle ossa più grande, può contribuire ad una maggiore densità ossea. In effetti, non ci sono differenze apprezzabili nel rischio di fratture della caviglia, probabilmente perché il maggior indice di massa corporea dei soggetti carnivori è causa di maggiori forze di torsione a livello di questa delicata articolazione. L’insieme di questi dati indica che la densità ossea non è il solo fattore a determinare maggiore o minore incidenza delle fratture, e che l’indice di massa corporea del soggetto gioca un ruolo importante, sia in positivo, sia in negativo.

Altro fattore importante, che non riguarda direttamente le ossa, è la presenza di minor massa muscolare in vegetariani e vegani, fattore che aumenta il rischio di cadute accidentali e fratture soprattutto tra i più anziani.

I vegani presentano spesso un apporto ridotto di calcio, inferiore a 500 mg al giorno, meno della metà di quello indicato dalle linee guida (1200 mg/die); vegetariani e vegani presentano anche un apporto ridotto di proteine, spesso inferiore ai 50 g giornalieri, valore che cala ulteriormente tra gli anziani che spesso presentano un consumo di proteine inferiore a 0,8g per kg di peso corporeo, valore al di sotto del quale si osservano più spesso fratture dell’anca.

Allo stesso tempo, a livello delle ossa non sembrano esserci problemi significativi per un apporto proteico elevato, fino a 2 g per kg di peso corporeo, un consumo molto comune tra soggetti sportivi, purché questo non sia associato ad un apporto di calcio inferiore a 600 mg/die. Un buon apporto proteico, con una quota apprezzabile proveniente da proteine di elevato valore biologico, ricche di aminoacidi essenziali, è probabilmente legato a livelli più elevati di vitamina D, vitamina B12 e IGF-1, tutti fattori che non sono stati direttamente indagati nel lavoro in esame e che possono avere un ruolo importante nella salute delle ossa.

Lo studio fornisce un’indicazione importante: chi segue diete che restringono in maniera significativa l’apporto di alcuni alimenti deve essere molto attento alla composizione e alla qualità complessiva della dieta, tenendo in dovuto conto non soltanto un adeguato apporto dei vari macronutrienti ma anche quello di minerali e vitamine. Chi segue una dieta vegana stretta necessita di un’attenta valutazione di quanto viene consumato e dell’integrazione di alcuni nutrienti essenziali il cui apporto con la selezione di cibi consumati può essere eccessivamente ridotto.

Lo stesso ragionamento è valido per chi segue certe diete, oggi molto di moda, che escludono il consumo di alcuni nutrienti di origine vegetale per il timore di fantomatici problemi legati a eccessi di zuccheri — il fruttosio, signora mia, il fruttosio! — o alla presenza di antinutrienti come i fitati, non certo così terribili come alcuni credono. Per timore di remotissime possibilità di danno si riduce in maniera drammatica la varietà della dieta, con un impatto rilevante sul microbiota intestinale, l’insieme di batteri presente nel nostro apparato digerente, la cui azione è essenziale per la nostra salute.

D’altronde, se si parla di aumenti del rischio legati a consumi eccessivi, una rilevante mole di studi indica che un eccessivo consumo di carni rosse e conservate comporta un aumento apprezzabile del rischio di patologie cardiovascolari e di alcune forme tumorali, malattie il cui impatto è decisamente più devastante di quello legato a fratture.

È evidente che tutti, e sottolineo tutti, i regimi alimentari presentano vantaggi ma si trascinano dietro anche problemi, talvolta molto importanti. Ha davvero poco senso prendere un singolo studio — o anche un bel mucchietto di studi — e utilizzarne le indicazioni, avulse da ogni contesto, per stabilire la superiorità di questo o di quell’approccio all’alimentazione.

Gli esseri umani sono sistemi estremamente complessi, in costante interazione con l’ambiente, anche attraverso gli alimenti che assumono, ma gli esiti di questi consumi sono influenzati da una miriade di fattori, molti dei quali estremamente difficili da misurare: un fatto che rende molto difficile gran parte degli studi nel campo della nutrizione, sia nella realizzazione, sia nell’interpretazione dei dati e, ancora di più, nell’indicazione di comportamenti specifici basati su quanto osservato.

Di certo l’eliminazione di interi gruppi di alimenti, così come il consumo eccessivo di altri, devono essere accompagnati da una grande attenzione a quanto è sul piatto, visti i potenziali problemi legati a carenze ed eccessi: in una dieta vegetariana l’adeguata assunzione di ferro, vitamina B12 e vitamina D è certamente possibile ma richiede una scelta oculata degli alimenti e un’accurata selezione di quei cibi che possano garantire un apporto adeguato di proteine e, soprattutto di aminoacidi essenziali.

Che si parli di salute delle ossa o di malattie cardiovascolari, di diete vegetariane o ricche di prodotti animali, il messaggio che arriva dalla ricerca è chiaro: quello che mettiamo nel piatto — o scegliamo di non mettere — ha un ruolo importante nel determinare il nostro benessere. Chi mangia male, inevitabilmente aumenta il rischio per questa o quella patologia: scegliamo bene, allora, senza cedere a paure immotivate o a speranze esagerate.

Dott. Febo Quercia- Biologo Nutrizionista

Per info e contatti: cell. 347.5706003

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