Teatralmente, un Don Giovanni a fuoco vivo e a fior di pelle. Giovane, umano, vitalissimo e che ben corre saltando libero oltre la quarta parete nella sua spregiudicata sfida rocambolesca fra scena, palchi e platea dissoluto, ossia sciolto com’è, nel sentire quanto nel fare da ogni vincolo o scrupolo di etica e di legge. E lo fa sullo sfondo spoglio, ma a tutt’oggi di grande suggestione, dell’allestimento a metà stile fra Comedia de Corral e Globe elisabettiano creato per la stagione lirica 2002 del Teatro San Carlo di Napoli dal regista Mario Martone, in sempre felice squadra con Sergio Tramonti (autore sia della scena unica e fissa con passerelle praticabili avanti il proscenio che dei raffinati costumi settecenteschi) e con Pasquale Mari, cui si devono le luci ben studiate e funzionali. Produzione tornata nel 2006 e ora riproposta pur con qualche minima modifica ma con la stessa, semplice tribuna in legno polveroso e dal sapore antico laddove il regista colloca manichini, figuranti e coristi, attori e spettatori passivi a un tempo di quanto narrato fra libretto e musica dal premiato tandem Da Ponte-Mozart.
Al riparo da ogni fuorviante elucubrazione sul mito, il “burlador” di Siviglia non è qui certo un erotomane (non gliene va bene una) né tantomeno un potenziale femminicida. Non lo è nelle fonti e, giustamente, non lo è in tale rilettura anche se, con il tempo, il regista napoletano pare abbia voluto accentuare il peso di un’inclinazione criminale. Ma, a parte la pantomima nuova dei nastri rossi, non se ne coglie per fortuna alcun altro segno. Resta piuttosto il rapido accenno all’eros libertino con la figurante magrissima a seno scoperto, il livido corteo funebre che porta in macabra sfilata al centro della sala il cadavere del Commendatore ucciso di fresco in duello e l’accentuata gestualità che vede il protagonista ficcarsi e scappare prontamente dai guai. Fino a sprofondare nella voragine dannata ai piedi del Convitato di pietra creata spaccando d’improvviso al centro, tra fumi e lampi spaventosi, le assi degli scranni della tribuna. Il tutto stavolta da noi visto a prospettiva parziale da una barcaccia che, dovendo ospitare per pochi minuti la figurante con lanterna, ci ha pure fatto perdere la Canzonetta di Don Giovanni rivolta nell’ennesimo atto di seduzione alla cameriera di Donn’Elvira, ascoltata dal corridoio con gli altri colleghi nella comune postazione.
Sul piano musicale invece, pur al netto dei tanti applausi elargiti a pioggia da un pubblico (in questo caso a ogni recita foltissimo) purtroppo sempre meno attento a questioni di tecnica e stile, è un Don Giovanni che indubbiamente perde colpi nel tempo: si è partiti nel 2002 in epoca Lanza Tomasi con la coppia affiatatissima e vocalmente esemplare formata da Ildebrando D’Arcangelo nel ruolo del titolo e da Andrea Concetti nei panni del servitore Leporello accanto a una super-terna femminile guidata dalla Donn’Anna della belcantista e interprete tragica a 24 carati Mariella Devia, con la Donna Elvira della magnifica Anna Caterina Antonacci e la fresca Zerlina di Elizabeth Norberg-Schulz, più Massimo Giordano come Don Ottavio e Gabriele Ferro sul podio. Quattro anni dopo, ferme restando le voci della Devia, della Norberg-Schulz e di Concetti nei rispettivi ruoli, subentravano lo statuario e persino inquietante Don Giovanni di Erwin Schrott, Sonia Ganassi come Elvira e il mozartiano Steve Davislim per Don Ottavio, con Yoram David alla direzione. La ripresa numero tre, in questi giorni, ha quindi visto interpreti piuttosto giovani e con tanta buona volontà a fronte però, qua e là, di non poche sfocature in termini di tecnica, intonazione, volume e soprattutto di stile.
Risultato: risparmiando un Don Giovanni che, pur non lasciando più di tanto il segno quanto a magnetismo scellerato e svettante, come dovrebbe, su tutto e tutti se non altro per aver dato il suo massimo per temperamento, proiezione, accenti e fatto salvo un Commendatore ben centrato sotto ogni punto di vista ma per lo più coperto dalla massa orchestrale, restano una Donn’Anna di tempra limpida ma dai suoni spesso molto fissi, una Donna Elvira che mal governa fiati e agilità spillando suoni aspri o affaticati al centro come all’acuto, un Leporello assai prestante scenicamente ma poco concreto quanto ad appoggi e a colore di una voce più seria che buffa, un Don Ottavio pur nobile ma di timbro ovattato e poco incline a mantenere l’intonazione sulle note lunghe. A completare il quadro, una Zerlina a vocazione seria, un Masetto alquanto chiaro.
Carisma e magnetismo sul fronte sonoro, d’altra parte, latitavano a partire alla base, ossia dal podio, nell’occasione affidato unitamente alla realizzazione al cembalo dei recitativi semplici al direttore d’orchestra tedesco, classe ’75, Constantin Trinks. A mancare è stato insomma quel colpo d’ala pur contenuto sin dal perfetto impianto dell’Ouverture che è sintesi profetica di quel che verrà nel suo potente contrasto fra il mondo delle ombre contenuto nell’Andante d’introduzione e lo spiccato vitalismo del Molto allegro organizzato in forma-sonata. Stando a quanto restituito dall’Orchestra del Teatro San Carlo, invece, il tutto risulta più misurato e amorfo, in quota sinfonica anziché scavato e scolpito in dimensione drammatica. Le scelte metriche e dinamiche sono sostanzialmente corrette, ma scivolano via senza quel giro di vite necessario per far scattare in pentagramma l’alta e demoniaca tensione in bilico continuo fra il dramma e il gioco lungo cui corre il senso stesso del Don Giovanni mozartiano. Ne consegue una visione funzionale e al contempo accademica che, al di là di qualche dilatazione, forzatura come nella scena finale della cena andata a coprire il pur imponente Commendatore o della sfasatura fra buca e voci come nel caso dell’aria del Catalogo o nella cosiddetta aria dello champagne, tanto rapida da mettere in difficoltà il baritono che la riduce a un mero caleidoscopio di accenti senza far capire una parola, procede solerte e senza guizzi accompagnando in maniera canonica l’azione e, senza vigore plastico, sostenendo l’intera architettura musicale. Né l’orchestra da par suo, in non facile fase di rinnovo e integrazione, tira fuori colori degni di nota o di particolare interesse. Nei pochi interventi corali si ha modo invece di apprezzare il lavoro del nuovo Maestro della compagine, Fabrizio Cassi.
Pur non essendo, come accennato, il Don Giovanni del secolo, il bravo baritono Andrzej Filończyk che ricordiamo quale ottimo Figaro nel Premiato Barbiere romano in era Covid, parimenti di Martone, e al Teatro San Carlo nel ruolo di Marcello in Bohème e di Filippo nella recente Beatrice di Tenda in forma di concerto, anche in tal caso mostra tecnica solida e una padronanza dell’articolazione utili a tener testa tanto alla parte vocale (qualche riserva giusto sull’eccessiva corsa in “Fin ch’han dal vino”) quanto a un impegno fisico che sfiora l’atletico, veramente non per tutti. Il suo è un Don Giovanni concreto e umanissimo, persino simpatico, il che non giova al personaggio. Perfettamente in parte è il Commendatore di Antonio Di Matteo, talento partito dal Coro del San Carlo e presto distintosi, oltre che per la superba presenza scenica, per la tinta bronzea di una voce intensa e con sapienza gestita fin nei suoni più gravi. Di austera nobiltà è il suo breve ingresso al momento della sfida e duello, pregnante lo spessore alla resa dei conti nel finale.
Viceversa in un ruolo per lui non particolarmente a taglio, il basso polacco Krzysztof Bączyk cerca e trova in discreta misura con il suo Leporello una serrata intesa con il proprio padrone. Sul piano cinetico, nonostante l’altezza, l’interprete si impegna più che può mentre vocalmente, a parte il timbro maggiormente consono a ruoli seri romantici, presenta troppa aria per il suo concreto sillabato. D’afflato lirico ma con non poche ombre fra colore e intonazione pur nell’omogeneità di pasta è il Don Ottavio del tenore amoroso Bekhzod Davronov mentre, chiudendo il cerchio degli uomini, troppo chiaro (il ruolo è pur ibrido ma sostanzialmente da basso) per quanto dalla linea ben salda il Masetto del baritono spagnolo esperto in belcanto Pablo Ruiz, entrambi gli interpreti alla loro prima prova al San Carlo.
Più alta in termini di volume ma meno soddisfacente per stile o tecnica la resa sul fronte femminile. La migliore è senz’altro la Donna Anna di Roberta Mantegna che, al suo personaggio di statura tragica, garantisce con timbro luminoso e terso il giusto piglio lirico-drammatico. Tuttavia perde in sfaccettature espressive volando all’acuto con emissioni fisse così come troppo attaccati al pentagramma risultano i passaggi di bravura in sedicesimi nel suo non facile rondò all’atto secondo (Non mi dir, bell’idol mio), spingendo e schiacciando le vette dei la e del si bemolle oltre il pentagramma.
Al di là di qualche squillo lucente apprezzabile soprattutto nei numeri d’assieme, poco in linea con l’articolazione mozartiana si rivela poi fin dall’aria di sortita la Donna Elvira del soprano lirico Selene Zanetti risolta spingendo gli acuti, svuotando di appoggio i centri, perdendo il filo dei fiati e la cura del suono come nei salti e nelle quartine dell’aria “Mi tradì quell’alma ingrata”, eseguita come sui vetri. Infine di fibra più seria che rustico-leggera la Zerlina del soprano moldavo Valentina Naforniţa, al suo debutto sancarliano.
Generosi gli applausi per tutti, a scena aperta e ai saluti finali.
Paola De Simone
Fonte: CONNESSIALLOPERA.IT