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CIE. Misura efficace o inutile costo per la collettività?

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CIEdi Vladimiro Modolo (*)

IQ. 22/05/2013 – Vengono chiamati CIE (centri di identificazione ed espulsione) ed esistono in Italia da 15 anni, in recepimento delle direttive in materia di immigrazione previste dall’Unione Europea.

Istituiti dalla Legge Turco–Napolitano (L. 40/1998) e previsti dall’articolo 14 del Testo Unico sull’immigrazione (TU 286/1998), come modificato dall’articolo 13 della Legge Bossi–Fini (L.189/2002), i centri di identificazione ed espulsione (CIE), anteriormente denominati centri di permanenza temporanea e assistenza (CPTA o più brevemente CPT), si distinguono dalle strutture adibite all’accoglienza e al trattenimento degli immigrati per la loro finalità in quanto sono stati creati per trattenere gli stranieri senza titolo di soggiorno e in attesa di espulsione, nei casi in cui non sia possibile l’esecuzione immediata della misura. Il trattenimento presso i CIE, incide sulla libertà personale, pur non configurandosi come misura detentiva finalizzata all’espiazione di una pena e deve essere convalidata dall’autorità giudiziaria analogamente a quanto previsto per il fermo e per l’arresto.

Cresciuti come diffusione sul territorio e numero di stranieri trattenuti, successivamente alla legge Bossi-Fini ed alle norme del “pacchetto sicurezza” del 2009, la durata del trattenimento è passata dai 2 poi ai 6, fino ai 18 mesi complessivi.

Tale innovazione, ha contribuito ad alimentare il dibattito sul tema “espulsioni”, considerato una vera anomalia giuridica e amministrativa da vasti settori della società civile e del mondo giudiziario che hanno contestato nel corso degli anni la grave inadeguatezza dei CIE nel tutelare la dignità e i diritti fondamentali della persona.

Più nello specifico, le critiche all’istituto dei CIE, rivolte in modo specifico da alcune associazioni per i diritti umani, derivano dall’impossibilità di giustificare il trattenimento coattivo a fronte di uno status giuridico (l’irregolarità del soggiorno).

C’è di più.

Secondo il rapporto dell’associazione MEDU (medici per i diritti umani), che ha elaborato un dossier relativo all’anno 2012, visitando gran parte dei centri di identificazione in Italia, la misura dei CIE non appare in grado di contrastare efficacemente il fenomeno dell’immigrazione clandestina in Italia.

Nel 2012, 14 anni dopo l’istituzione dei centri, risulta come appena la metà (50%) dei trattenuti sia stato effettivamente espulso. Il 10% dei transitati nei CIE è stato dimesso dal centro per impossibilità di procedere con l’identificazione, il 20% dimesso per altri motivi (salute, gravidanza, ricorso accolto, motivi di giustizia), un altro 10% è riuscito a fuggire, mentre ancora, ad una percentuale al inferiore al 5% risulta essere stata accolta la richiesta di asilo politico.

Molte inoltre le criticità riscontrate nel rapporto annuale 2012 da MEDU tra cui:

– Presenza di un alto numero di trattenuti provenienti dal carcere (circa il 50%), la cui identificazione sarebbe dovuta avvenire durante il periodo di espiazione della pena.

– Presenza di un numero significativo di cittadini comunitari (che non dovrebbero essere trattenuti).

– Strutture e servizi del tutto inadeguati ai bisogni di una popolazione eterogenea per status giuridico, percorsi migratori e vulnerabilità.

– Significativo scadimento qualitativo e quantitativo dei servizi erogati a seguito delle drastiche riduzioni dei bilanci a disposizione degli enti gestori previsti dalle nuove gare d’appalto.

– Elevati costi per assicurare la sorveglianza, la manutenzione e la riparazione delle strutture a seguito dei numerosi danneggiamenti.

– Grave carenza di spazi ed attività ricreative.

– Assenza del Servizio Sanitario Nazionale all’interno dei centri e ostacoli rilevanti nell’accesso alle cure specialistiche e agli approfondimenti diagnostici.

– Pregiudizio del rapporto di fiducia medico-paziente a causa del contesto oggettivo del trattenimento.

– Eccessiva discrezionalità tra i veri centri nei criteri di idoneità sanitaria al trattenimento.

– Frequenti atti di autolesionismo (spesso utilizzati dai trattenuti per farsi ricoverare al fine di riuscire poi a scappare).

– Utilizzo di psicofarmaci da parte di un alto numero di trattenuti e carenza di un’adeguata assistenza medica specialistica

– Standard di erogazione dei servizi di mediazione linguistico-culturale, orientamento legale e supporto socio-psicologico non omogenei tra i vari centri e nel complesso insoddisfacenti.

– Fornitura di beni essenziali (vestiario, biancheria, coperte e prodotti per l’igiene personale) insufficiente in alcuni centri.

In sintesi, i CIE, sembrano funzionare male per quanto attiene l’ordinaria amministrazione ed il rispetto dei diritti umani e risultano efficaci solo a metà in termini di rimpatri effettivi. Ciò nonostante gli elevati costi per la collettività.

Si calcola che negli ultimi 7 anni, la spesa complessiva per il contrasto all’immigrazione clandestina sia stata di 1 miliardo e seicento milioni di euro (dati dell’associazione Lunaria) di cui circa un terzo spesi per il mantenimento e la gestione dei centri di identificazione.

Per il triennio 2012-2014, il governo ha stanziato 634 milioni di euro per i CIE.

In molti ambiti della società civile, la domanda ricorrente è come riuscire a superare il concetto di detenzione o trattenimento riuscendo al contempo ad ottemperare agli obblighi europei in temi di libera circolazione e contrasto all’immigrazione clandestina.

Sempre secondo l’associazione MEDU, l’unica soluzione sarebbe la chiusura dei CIE o la limitazione all’uso degli stessi solo a casi rari, non trovando reale e valida giustificazione: il trattenimento di cittadini comunitari, il transito nei CIE di ex detenuti per l’identificazione (che potrebbe essere fatta direttamente in carcere), casi di persone passate per i CIE solo per aver dimenticato a casa i documenti, cittadini richiedenti asilo politico.

(*) Sociologo

 

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