Nel 1954, la scrittrice Rosemary Sutcliff pubblicò il suo capolavoro, “The Eagle of the Ninth” (“L’Aquila della IX Legione”). Ambientato nella Britannia del II secolo, narra le vicende di carattere personale e militare che vedono protagonista il giovane comandante Marco Flavio Aquila. La legione romana a cui si riferisce il titolo del romanzo, la Legio VIIII Hispana, è realmente esistita per quasi due secoli, tra l’epoca di Augusto e quella di Marco Aurelio, e si narra che fu inviata nel 117 a sedare una rivolta scoppiata tra le tribù della Caledonia, scomparendo nel nulla. Tale scomparsa è una questione nella quale elementi leggendari hanno finito per unirsi a quelli storici. Nel romanzo, il giovane Marco Aquila cerca di scoprire cosa sia accaduto alla IX Ispanica e al suo comandante, ossia il padre di Marco, Flavius, e al tempo stesso tentando di recuperare l’aquila di bronzo, l’insegna che precedeva ogni legione, la cui perdita o cattura da parte del nemico rappresentava un insopportabile disonore e vergogna. Il romanzo divenne un bestseller, vendendo un milione di copie e incantando generazioni di ragazzi e adulti. Tuttavia, gli storici hanno dissentito dalla teoria della scomparsa della IX, teorizzando che essa non sparì assolutamente in Britannia. Il romanzo della Sutcliff (da cui è stato tratto il film “The Eagle”), di cui raccomandiamo la lettura, rappresenta un ottimo esempio del fascino esercitato dalle storie sulla scomparsa di intere legioni romane.
In questo articolo vedremo quali altre legioni perdute hanno acceso la fantasia di generazioni di scrittori. Sebbene in molti casi si tratta di racconti immaginari, alcuni di questi trovano la loro giustificazione nello sforzo di spiegare eventi storici apparentemente incomprensibili. L’assenza di prove storiche viene colmato da teorie a volte più stravaganti ed incomprensibili dell’evento stesso. Ma a volte, la verità è più banale di quanto si immagini. Tuttavia, non vi è nulla di più irresistibile di un enigma irrisolto e, in assenza di prove conclusive, il mistero continua, ed è ciò che andremo ad indagare in questo nuovo articolo della rubrica La Stele di Rosetta, in esclusiva per IQ.
TABELLA DEI CONTENUTI:
- LE LEGIONI DI CRASSO E LA CINA
- TEUTOBURGO
- LA LEGIO VIIII HISPANA
- LA SCOMPARSA DELLE LEGIONI XXI RAPAX E V ALAUDAE
- LA LEGIO AUGUSTA THEBAEORUM
- PER CONCLUDERE
LE LEGIONI DI CRASSO E LA CINA
Ne abbiamo già parlato in un precedente articolo, dedicato allo strano caso dei cinesi con gli occhi azzurri e dalla fisionomia vagamente europea (per chi vuole approfondire, questo il link). Vale la pena di riproporre la faccenda, nell’ambito del più ampio contesto inerente alla vicenda della presunta scomparsa di legioni romane.
La battaglia di Carre
Nel 53 a.C. il triumviro Marco Licinio Crasso mobilitò sette legioni (per un totale di 42.000 uomini), più varie forze ausiliarie, per affrontare il potente impero partico sulla frontiera orientale dei territori romani. Ossessionato dall’idea di superare Giulio Cesare e Pompeo, suoi colleghi nel triumvirato, Crasso aspirava ad emulare Alessandro Magno, che era riuscito nella straordinaria impresa di conquistare il vasto Impero persiano. Tuttavia, senza un’adeguata preparazione, la sua avventura si trasformò in uno dei più grandi disastri della storia romana, un errore inappellabile dalle conseguenze rovinose. Il 6 giugno del 53 a.C., nei pressi di Carre (l’odierna Harran) i due eserciti si scontrarono. L’esercito partico, al comando del generale Surena, aveva solo la cavalleria, valutabile sui 50.000 uomini che bersagliarono i Romani con micidiali dardi. Le fonti antiche narrano con dovizia di particolari lo svolgimento della battaglia, che qui non andremo ad approfondire ma alla quale dedicheremo un prossimo articolo. Sappiamo che, nonostante innumerevoli episodi di valore e atti di coraggio (tra i quali spiccano quelli dei Celti che il figlio di Crasso, Publio, si era portato dalla Gallia, nonostante fossero tormentati dal caldo e dalla sete cui non erano abituati), i Romani lasciarono nella battaglia di Carre 20.000 morti e 10.000 prigionieri. Furono questi ultimi a dare origine alla leggenda.
Il destino dei 10.000 prigionieri romani
Secondo Plinio, essi furono inviati nella regione della Margiana (tra gli attuali Afghanistan e Turkmenistan) per proteggere la frontiera orientale dell’Impero partico dalle minacce degli Unni. Questa fu l’ultima notizia che ricevettero i familiari dei prigionieri, il cui dolore non si era ancora dissipato quando trent’anni più tardi Augusto cercò di negoziarne il rimpatrio. Ma a quel punto nemmeno i Parti sapevano più che fine avessero fatto i legionari. Orazio afferma che si fossero stabiliti nella stessa Margiana, ma non ci sono prove al riguardo. Non si sa nemmeno quanti fossero sopravvissuti ai 2.500 km che separano la regione dal luogo della battaglia.
Legionari in Cina?
Negli anni ‘50, basandosi su Plutarco e Plinio e dopo aver analizzato le cronache cinesi dello Hou Han Shu (Libro degli Han posteriori), il professore di storia cinese Homer Dubs propose una teoria fondata sul resoconto della campagna condotta nel 36 a.C. dal governatore delle regioni occidentali dell’Impero Han, Gan Yen-shou, e del suo generale, Ch’en T’ang. Secondo Dubs, i legionari romani furono inizialmente inviati ad Alessandria Margiana (l’odierna Merv, in Turkmenistan), ma in seguito riuscirono a fuggire per unirsi come mercenari a Zhizhi Shan-yu, il nuovo capo della tribù nomade degli Xiongnu, che mirava ad espandere il suo dominio a spese dell’Impero Han.
Zhizhi aveva ordinato di costruire vicino al fiume Talas (tra il Kirghizistan e il Kazakistan) una fortezza che minacciava il commercio lungo la Via della Seta. Per questa ragione il generale T’ang convinse il suo superiore ad attaccarla con un esercito di 40.000 uomini. Nel resoconto dell’assedio della fortezza, T’ang afferma che le mura erano protette anche da una doppia palizzata in legno, come quella spesso usata dai legionari. Inoltre “più di cento fanti, schierati su entrambi i lati della porta in formazione yù-lin-cheng (a squame di pesce), praticavano esercitazioni militari”. Dubs riconobbe in questa formazione la famosa testudo (testuggine) dei legionari romani.
Liqian, la città “romana”
Nel suo rapporto all’imperatore, il governatore Gan Yen-shou dichiarava la cattura di 145 soldati che Dubs identificò con i mercenari schierati contro T’ang. Come riconoscimento della loro abilità militare, questi prigionieri sarebbero stati trasferiti in territorio han per proteggere il confine occidentale dalle incursioni tibetane e avrebbero fondato la città di Zhelaizhai (nella provincia del Gansu). Questa in origine si chiamava Liqian o Li-Jien (il nome con cui in Cina era conosciuta Alessandria d’Egitto e con cui per estensione si identificava l’Impero Romano. Secondo lo storico Chen Zhengyi, Liqian dovrebbe essere pronunciato “Lijian”, trascrizione fonetica del latino legio. L’ipotesi è che i romani sopravvissuti al disastro di Carre avrebbero potuto esser stati autorizzati a fondare una colonia lungo il corridoio di Hexi, il transito verso il Tibet della Via della Seta, per agevolare le transazioni con l’Occidente e per proteggere il confine occidentale dalle incursioni tibetane.
Prove non definitive
Gli abitanti dell’odierno Liqian hanno evidenti tratti somatici europei. E loro stessi si considerano discendenti degli antichi legionari. Su tali caratteristiche hanno costruito fiorente industria turistica con la quale fanno soldi, onestamente, ci mancherebbe, ma sulla cui attendibilità vi sono dubbi. Anche se recenti analisi del DNA condotto nel 2001 su 93 abitanti ha evidenziato che il 50 per cento mostrava tratti genetici caucasici, tuttavia ciò non significa che siano di discendenza romana. In epoca repubblicana l’esercito romano era composto principalmente da Italici e socii (ossia popoli legati a Roma attraverso un trattato di alleanza) e non dal ventaglio di etnie molto diverse che avrebbero poi formato le truppe imperiali negli anni a venire. Le truppe dislocate in Oriente erano costituite da numerosi mercenari greci che Crasso non avrebbe avuto difficoltà ad ingaggiare in gran numero. Inoltre, esistono altri gruppi caucasici ai margini occidentali della cultura cinese, come i wusun (tocari) o i greco-battriani, ed è da escludere che piccoli gruppi di occidentali abbiano raggiunto il territorio cinese in seguito a migrazioni sporadiche. Pertanto, la percentuale di DNA caucasico nella popolazione di Liqian è spiegabile senza ricorrere alla pur suggestiva ipotesi di un’antica origine romana.
Mancano inoltre le evidenze archeologiche, salvo quelle di una campagna di scavo cinese che ha rinvenuto a Liqian una fortificazione con tecniche costruttive romane. Il problema sta nel fatto che l’amministrazione han permetteva l’insediamento solo a stranieri parzialmente sinizzati (e i legionari, invece, erano completamente estranei al mondo cinese), e mai in numero così esiguo (nel nostro caso, 145 uomini).
Per quanto riguarda la formazione “a squame di pesce” dei soldati contro cui combatterono gli Han presso il Talas, identificata come la testudo romana, era già utilizzata dai cinesi fin dal I millennio a.C. e nota ai mercenari greco-sogdiani. Di fatto, i soldati Han erano a volte equipaggiati con scudi rettangolari simili allo scutum romano.
Concludendo, la storia affascinante secondo la quale la “legione fantasma” di Crasso sarebbe riapparsa in Estremo Oriente dopo vent’anni dalla disfatta di Carre, a cinquemila km di distanza dalla battaglia, è un’ipotesi basata solo su prove indiziarie, e una presunta traccia genetica dei soldati potrebbe essere andata perduta quando i Tibetani rasero al suolo la città nel 746 d.C.
TEUTOBURGO
Nel periodo imperiale capita di assistere alla distruzione e scomparsa totale di alcune legioni, famose e purtroppo note come quelle comandate da Publio Quintilio Varo, che nella foresta di Teutoburgo, vicino Kalkriese, perse nel 9 d.C. ben tre legioni, la XVII, XVIII e XIX. Questo disastro, a cui abbiamo già dedicato un ampio articolo (questo il link per chi volesse approfondire), cambiò per sempre la storia dell’Europa, impedendo ad Augusto la programmata conquista della Germania e attestando la frontiera dell’Impero al Reno. Arminio, il traditore che gettò le legioni in una vile imboscata, fu assunto ad eroe nazionale tedesco. È ragionevole pensare che senza un Arminio e con la romanizzazione della Germania – e la sua civilizzazione – probabilmente non ci sarebbe stato un Adolf Hitler (che di Arminio fu un ammiratore) e le conseguenze che tutti conosciamo. La Storia è disseminata di bivi, trivi e quadrivi: chissà come avremmo potuto essere se alcuni avvenimenti non fossero accaduti e se fossero state fatte certe scelte invece di altre.
La storia è ben nota: durante la primavera dell’anno 9 il governatore Varo organizzò le sue forze per iniziare una campagna che lo avrebbe tenuto occupato tutta l’estate e l’avrebbe portato fino alle terre dei Cherusci. Si trattava di una missione di routine nella quale, oltre a riscuotere le imposte e ad amministrare la giustizia, avrebbe passato in rassegna e integrato le guarnigioni sull’altra sponda del Reno. Si trattava quindi di un compito di carattere prevalentemente amministrativo, e non di una spedizione militare.
Le truppe che partirono dall’accampamento di Vetera (l’attuale Xanten, nel nord della Germania) erano composte da tre legioni, oltre a sei coorti di truppe ausiliarie e da tre ali ausiliarie di cavalleria. Varo disponeva, in totale, di 17.000 combattenti. Insieme ai contingenti militari marciavano anche numerosi civili: tra i 3.500 e i 4mila, tra i quali anche le mogli e i figli dei soldati, una miriade di servitori, commercianti e gente di ogni tipo che viveva all’ombra dell’esercito.
Contando di trovarsi in territorio amico e fidandosi delle informazioni riportate da Arminio, Varo non diede importanza alle notizie che gli arrivavano sull’annientamento di alcuni piccoli contingenti romani ad opera di bande germaniche. In realtà, dietro questi episodi non si celava altro che le truppe comandate dallo stesso Arminio, il quale aveva disegnato un meticoloso piano d’attacco.
Arminio, un capo cherusco divenuto cittadino romano con il grado di Prefetto di Coorte, iniziò a complottare per unire sotto la sua guida diverse tribù di Germani ed impedire ai Romani di realizzare i loro progetti. Tuttavia, mentre di nascosto creava una coalizione antiromana, Arminio mantenne il suo incarico di ufficiale della Legione e da cittadino romano ottenne la fiducia di Varo, che si fidò completamente di lui, ignorando le accuse di tradimento formulate nei suoi confronti dai Romani e promuovendolo a suo consigliere militare.
Il massacro nella foresta
Quella che viene chiamata Battaglia di Teutoburgo, fu in realtà una vigliacca imboscata e un susseguirsi di scontri, durati in tutto quattro giorni che ebbero come epilogo la distruzione dell’esercito di Varo ai piedi della collina di Kalkriese, circa 20 km a nord-est di Osnabrück.
In tale agguato i legionari non furono neppure schierati in assetto da combattimento ma, contro tutte le regole romane, furono fatti proseguire in semplice assetto di marcia ed affardellati. La maggior parte dei legionari fu massacrata senza potersi schierare né difendere, con lo stesso Varo che si tolse la vita, mentre i Germani si lasciarono andare ad orribili atrocità, tanto che le testimonianze dei pochi sopravvissuti parlarono di torture e mutilazioni perpetrate sui legionari romani catturati e sulle loro famiglie.
Le Aquile perdute
Con Teutoburgo, non furono solo le legioni a scomparire nel fango della Germania. Le tre Aquile, emblema delle legioni distrutte, furono la parte più ambita del bottino ricavato dai furiosi saccheggi germanici. L’Aquila era tra i simboli più sacri dell’esercito romano ed era il simbolo di Roma stessa. Rappresentava Giove, il protettore dello Stato. Fungeva da emblema del potere di Roma e del suo Impero e nessuno poteva vantarsi di averla strappata ad una legione. O poteva, ma l’avrebbe pagato caro. L’onore di Roma era legato anche a queste insegne: i Germani lo sapevano bene. Ed infatti predarono e custodirono con cura questo preziosissimo bottino, segno tangibile della vittoria contro Roma. Anche se inizialmente si pensava che esse fossero perdute per sempre, i Romani non erano disposti a lasciar perdere così facilmente. Le Aquile dovevano tornare a casa: solo così si sarebbe lavata l’onta della sconfitta.
E così fu. Durante le campagne del grande generale Germanico contro Arminio, fu recuperata una prima Aquila. Nel 15 d.C. essa viene ritrovata dall’ufficiale di cavalleria Lucio Stertinio. Dopo aver sconfitto i Bructeri e saccheggiato il loro territorio, egli trova con grande stupore (purtroppo non conosciamo i dettagli) l’Aquila della XIX Legione.
La seconda Aquila è recuperata invece dopo la battaglia di Idistaviso nel 16 d.C. Un capo dei Marsi, Mallovendo, non solo si arrende a Germanico per evitarne la furia, ma gli rivela anche il luogo dove è custodita un’altra delle Aquile: è stata infatti sotterrata in un vicino bosco sacro, sorvegliata da pochi guerrieri. Germanico non perde tempo e invia un distaccamento di soldati a recuperare l’insegna: mentre una parte deve impegnare e distrarre i guerrieri posti a custodia, un altro gruppo di soldati scava nel terreno e recupera l’Aquila, della quale non conosciamo a quale legione appartenga.
La terza Aquila verrà recuperata sotto il regno di Claudio. Nel 41, Publio Gabinio Secondo, dopo aver sconfitto i Cauci in battaglia, scopre con sorpresa il suo nascondiglio (anche in questo caso le fonti sono carenti di dettagli).
E le tre legioni?
In questo caso non si può parlare di misteriosa scomparsa: sappiamo bene che fine abbiano fatto le tre legioni di Varo. Germanico, guidato dai sopravvissuti, tornò sul luogo del massacro ritrovando i resti insepolti dei legionari e dando loro degna sepoltura. E siccome essi erano mescolati a quelli dei Germani, i Romani seppellirono anche loro, rendendo onore ad amici e nemici: la pietas romana riconosceva la dignità di ogni defunto, a prescindere dal lato di appartenenza della barricata.
Le legioni XVII, XVIII e XIX, forse per scaramanzia o forse per rispettare i caduti, non furono mai più ricostituite. Esse, oltre a scomparire nell’oscurità di una foresta, scomparvero così anche dalla Storia.
LA LEGIO VIIII HISPANA
È la più famosa tra le legioni scomparse, la più decorata dell’Impero, quella a cui si sono ispirati romanzi e film. Verità o leggenda che sia, il mistero della VIIII scomparsa tra gli impervi boschi scozzesi è un argomento che affascina studiosi ed appassionati.
Una Legione vittoriosa
La Legio VIIII (chiamata meno correttamente Legio IX) vantava già diverse vittorie in Gallia e sotto le guerre civili sotto Cesare. Quando Ottaviano ebbe necessità di formare una nuova Legione, richiamò in servizio i veterani del padre adottivo, i quali riformarono la VIIII. Essi combatterono nella battaglia navale di Azio, lo scontro che concluse la guerra civile tra Ottaviano e Marco Antonio. Furono poi mandati in Spagna, distinguendosi per valore nelle guerre cantabriche, terminate nel 13 a.C.; da questi eventi bellici, la Legio VIIII ottenne da Augusto il titolo di Hispana. Sotto Tiberio, fu vittoriosa in Mauretania ed impiegata sul turbolento confine renano, in Pannonia e sul Danubio. Era già la Legione più decorata dell’Impero prima ancora di prendere parte alla conquista della Britannia ordinata dall’imperatore Claudio. Nel 60 la VIIII si distinse nel sedare la rivolta capeggiata dalla regina degli Iceni Boudicca, o Boadicea, alla quale abbiamo già dedicato un articolo (per chi vuole approfondire, questo il link).
La scomparsa dell’Hispana
Sappiamo che la Legio VIIII Hispana ricevette l’ordine di costruire la fortezza di Eburacum (l’attuale York) per contenere le incursioni delle tribù del nord. Eppure, tempo dopo, la maggior parte della VIIII e dei suoi ausiliari – circa 10.000 uomini – scomparve dalla Storia.
A partire da quel momento non si sa bene cosa accadde all’unità. Sono sorte diverse teorie su quale possa essere stata la sua destinazione finale.
Le teorie
La più diffusa ipotizza che tra il 119 e il 120 il contingente marciò verso nord per scontrarsi con i Pitti della Caledonia (Scozia) o i Briganti che ancora si battevano strenuamente contro l’occupazione romana. Secondo questa teoria, la VIIII fu distrutta in un agguato proprio da queste tribù, ma le fonti non dicono nulla al riguardo. L’unica cosa certa è che l’imperatore Adriano decise allora di abbandonare la conquista della Britannia settentrionale, mise di stanza ad Eburacum la Legio VI Victrix e ordinò la costruzione del Vallo che avrebbe portato il suo nome a difesa della provincia romana. La Hispana fu quindi cancellata dagli archivi dopo una catastrofica sconfitta? L’assenza di informazioni non implica necessariamente la volontà di nascondere un evento tragico: non era infatti insolito che le legioni cessassero di comparire nei registri senza ulteriori spiegazioni. Inoltre, nessuna fonte o reperto archeologico conferma una campagna nel nord della Britannia, tanto meno un disastro militare di tale portata.
Il ritrovamento di due sigilli della Hispana porta ad una seconda ipotesi: quella di un suo trasferimento a Noviomagus (l’odierna Nimega, nei Paesi Bassi) nel 120 per rafforzare la frontiera della Germania Inferiore. Tuttavia i reperti, datati intorno all’80 d.C., non provano in alcun modo un trasferimento dell’Hispana al di fuori della Britannia. Infatti, si potrebbe trattare di una semplice vexillatio (distaccamento) inviata poco prima della presunta tragedia. D’altra parte, diverse iscrizioni attestano come ex ufficiali della Hispana avessero svolto in seguito fortunate carriere in veste di legati, governatori e persino consoli. Data la rigida mentalità romana, è difficile credere che avessero potuto ottenere tali incarichi se fosse pesato su di loro il disonore di una disfatta, anche nel caso in cui avessero lasciato la Legione prima della sua scomparsa.
Una terza ipotesi è legata alla scoperta di una lapide a Ferentino, in provincia di Frosinone, dalla quale sappiamo che dei rinforzi di emergenza di oltre 3.000 uomini furono mandati in Britannia nei primi mesi del regno di Adriano che, di persona, visitò l’isola nel 122 al fine di “correggere molti errori”, portando con sé una nuova Legione, la VI. Il fatto che, come abbiamo visto, risiedettero nella fortezza legionaria di York – costruita, lo ricordiamo, dalla VIIII – sembrerebbe confermare le notizie riportate dallo scrittore romano Marco Cornelio Frontino, contemporaneo di Adriano, secondo cui un gran numero di soldati romani fu ucciso dai Britanni. Le perdite a cui si riferisce Frontino sarebbero relative, quindi, proprio all’Hispana la quale, essendo la più settentrionale di tutte le legioni in Britannia, dovette più di tutte soffrire la rivolta, finendo i suoi giorni a combattere i ribelli nel tumulto di inizio II secolo.
L’ipotesi più realistica
Sappiamo che le fortezze legionarie erano soggette ad avvicendamenti (vedi il forte di Vindolanda), quindi la VIIII potrebbe aver semplicemente cambiato acquartieramento, sostituita dalla VI Victrix di Adriano. Per quanto accattivante possa essere la storia di una legione scomparsa, è più probabile che la Hispana continuò a prestare i suoi servizi in altri importanti conflitti che infuriavano nell’Impero Romano in quel periodo. È il caso della ribellione di Simon Bar Kokheba (Simone “Figlio della Stella”) in Giudea (132-135) per sedare la quale fu necessario mobilitare sette legioni. Alcune di esse subirono perdite così pesanti che Adriano potrebbe averne ordinato lo scioglimento. Nel suo resoconto in Senato in merito alla campagna militare, infatti, omise la consueta formula introduttiva “Io e le legioni stiamo bene”…
La Legio VIIII Hispana nel folklore popolare
Un alone di mistero avvolge ancora oggi la VIIII Hispana, soprattutto in Scozia, dove la sua vicenda è ancora molto presente e sentita, condita di implicazioni nazionalistiche e di racconti misteriosi. Uno di essi racconta che fosse stata maledetta durante un rito druidico perché i suoi soldati avevano frustato la regina Boudicca e violentato le sue due figlie.
Un’altra leggenda vuole che i legionari di Roma abbiano attraversato in marcia, armati di tutto punto e guidati da un comandante vestito con una tunica candida, una località della Scozia centrale, Dunblane, nel settembre del 1974. Dell’episodio, raccontato da alcuni terrorizzati abitanti del luogo, venne dato conto nelle cronache locali e in libri di autori specializzati in fenomeni paranormali, che narrano anche di gatti domestici dal pelo ritto sul dorso che sembravano spaventati da “qualcosa che stava attraversando il salotto”.
Ma nei secoli, molti sono stati gli avvistamenti di colonne legionarie fantasma in marcia in determinate notti e su specifici sentieri. Seguendo le teorie di Mommsen, la VIIII Legione avrebbe perso la sua aquila, conquistata dai locali e nascosta chissà dove. Sappiamo quanto era importante per una legione romana preservare e proteggere la propria Aquila e abbiamo già visto che la sua perdita in battaglia significava vergogna e disonore per tutti i legionari. Ed ecco, quindi, che la VIIII Hispana sarebbe stata condannata a marciare per la Britannia per l’eternità alla ricerca della sua Aquila perduta.
LA SCOMPARSA DELLE LEGIONI XXI RAPAX E V ALAUDAE
Un evento poco conosciuto riguarda la scomparsa completa e in parte misteriosa, di due legioni, avvenuta durante le campagne militari di Domiziano contro i Sarmati o i Daci. Questa sconfitta completa delle due Legioni, con conseguente cancellazione dall’albo, rimane ancora oggi non perfettamente nota. Seguiamone la storia.
La Legio XXI Rapax
Composta probabilmente da soldati della Legio XXI di Giulio Cesare, questa Legione fu reinquadrata da Augusto nel 31 a.C. dopo la battaglia di Azio. Essa fu poi di stanza a Ratisbona in Rezia e, in seguito al disastro di Teutoburgo, inviata a presidio del fronte germanico a Xanten, dove insieme alla V Alaude, difese la frontiera del Reno ormai sguarnita. In seguito, appoggiò Vitellio contro Vespasiano: tuttavia non fu punita per questo (sappiamo che Vespasiano vinse, diventando il nuovo imperatore). Nel 70 partecipò insieme ad altre legioni contro la cospirazione di Gaio Giulio Civile (un militare germanico naturalizzato romano, membro della tribù dei Batavi), risolta la quale venne poi inviata a Mogontiacum (Magonza) dove divise il campo insieme alla Legio XIV Gemina. Queste due legioni sostennero nell’88 Lucio Antonio Saturnino (allora governatore legato della Germania Superior – che comprendeva alcuni territori delle attuali Svizzera, Germania e Francia) nella rivolta contro Domiziano, fallita la quale esse vennero separate e la Rapax fu inviata in Pannonia. E qui si si perdono le sue tracce. Si ipotizza che la Legione possa essere stata annientata durante la rivolta dei Sarmati contro Domiziano nel 92.
La Legio V Alaudae
Nota anche come V Gallica venne creata da Giulio Cesare nel 52 a.C. ed era composta da nativi della Gallia Transalpina. Il soprannome di Alaudae (“allodole”) derivava dall’alta cresta tipica dei guerrieri Galli, che usavano piume di allodola per decorare gli elmi legionari. Partecipò alle guerre galliche di Cesare e poi a quelle spagnole. Era una delle legioni più coraggiose del grande generale: si racconta, infatti, che durante la battaglia di Tapso (oggi Ras Dimas, in Tunisia) del 46, dopo aver sostenuto e respinto con efficacia una carica di elefanti africani, alla stessa fu dato come simbolo proprio l’elefante. Nel corso della guerra tra Antonio e Ottaviano, la Legione parteggiò per il primo, ma dopo Azio entrò a far parte dell’esercito di Augusto. Nel corso dell’Impero fu quasi sempre sulla frontiera renana: nel 16 a.C., sotto il comando di Marco Lollio, fu sconfitta da alcune popolazioni germaniche, i Sugambri egli Usipeti, perdendo anche l’Aquila. La clades Lolliana fu, dopo la clades Variana, la più grave sconfitta subita dai Romani durante il principato di Augusto, anche se assai meno nota. Nel 69 prese parte, insieme alla XXI Rapax, alla prima battaglia di Bedriacum, nel corso della guerra civile tra Vitellio e Vespasiano, stando dalla parte del primo. Perdonata da Vespasiano, rimase in zona fino a Domiziano quando scompare dall’elenco delle Legioni, in seguito alla guerra dacica o sarmatica. Analisi recenti sulle campagne di Domiziano rivalutate come importanza hanno stabilito che la V Alaudae fu con molta probabilità distrutta nell’85 a seguito dell’invasione della Mesia da parte dei Daci, dove il legatus Gaio Oppio Sabino venne sconfitto e morì in battaglia.
LA LEGIO AUGUSTA THEBAEORUM
C’è chi dubita dell’esistenza di questo reparto, che non compare nei registri delle unità militari. La sua particolarità era che pare fosse costituita da giovani cristiani copti di stanza nel distretto tebano dell’Egitto, addestrati da ufficiali veterani di origine siriana e armena. La leggenda narra che essa fu sterminata per ordine dell’imperatore Massimiano nel 286, come castigo per aver disobbedito ai suoi ordini, considerati immorali.
La leggenda ha origine nel 450, quando Eucherio, vescovo di Lione, identificò i resti umani presenti in una fossa comune venuta alla luce dopo un’esondazione del Rodano come le spoglie dei seimila martiri che costituivano la Legio Augusta Thebaeorum. Secondo Eucherio, negli ultimi anni del III secolo la Legione sarebbe stata trasferita nell’Europa Centrale, operando tra Colonia e il versante settentrionale delle Alpi sotto il comando del generale Massimiano, che nel 285 venne nominato Caesar da Diocleziano e l’anno successivo Augustus. Massimiano era impegnato contro Quadi e Marcomanni che, dopo aver oltrepassato il Reno, facevano incursioni in Gallia e contro le rivolte contadine dei Bagaudi. Eucherio narra che i legionari tebani eseguirono brillantemente la loro missione.
Ma ben presto sorsero dei problemi. Infatti, alcuni dei suoi ufficiali si erano impegnati con Papa Caio (nipote di Diocleziano) a disobbedire a qualsiasi ordine contrario alla loro fede. Infatti, Massimiano impose ai suoi soldati un rituale che prevedeva di prostrarsi di fronte a lui in segno di sottomissione e adorazione nei suoi confronti. I soldati, compreso il loro comandante Maurizio, non solo si rifiutarono di partecipare a questo atto pagano, ma si opposero allo sterminio dei Bagaudi, anch’essi cristiani e cittadini romani. Massimiano, furioso, ordinò una severa punizione per l’unità e, non bastando la sola flagellazione, decise di applicare la decimazione, ossia una punizione militare che consisteva nell’uccisione di un soldato su dieci, mediante lapidazione o bastonate. I superstiti decisero comunque di non cedere e venne ordinata una seconda decimazione ed infine l’intera Legione (6.600 uomini), e il suo comandante Maurizio, venne sterminata dalle altre.
Il luogo del presunto massacro viene indicato in Aganum, oggi San Maurizio, nel Cantone svizzero del Vallese, sede dell’omonima abbazia. E forse non tutti sanno che la località svizzera di St. Moritz, prende il nome proprio dal generale tebano Maurizio, il comandante della Legio Augusta Thebaeorum, a cui è dedicata l’unica statua conosciuta di un soldato romano africano, conservata nella Cattedrale di Magdeburgo.
Il culto di San Maurizio
Secondo una tradizione sorta secoli dopo il presunto massacro della Legione Tebea, il comandante Maurizio riportò da Gerusalemme un oggetto che si riteneva dotato di strani poteri: la Lancia di Longino, che renderebbe invincibili in battaglia. Nel medioevo il culto di San Maurizio si diffuse dalla Svizzera in territorio germanico e assunse grande rilevanza, al punto che il generale santificato divenne patrono del Sacro Romano Impero e la Lancia Sacra (che in realtà è di epoca carolingia – una delle tantissime false reliquie che inondarono l’Occidente credulone) entrò a far parte degli attributi del potere regale utilizzati durante l’incoronazione dei sovrani, fino al 1916. Oggi San Maurizio è patrono degli Alpini e delle Guardie Svizzere.
Leggende?
L’esistenza di una Legio I Maximiana, anche nota come Maximiana Thebaeorum, è riportata nella Notitia Dignitatum, un documento redatto tra la fine del IV secolo e l’inizio del V. la sua notevole importanza documentaria per la conoscenza amministrativa e militare del tardo Impero Romano è in parte diminuita dall’incertezza se l’originale derivasse o meno da vere e proprie fonti ufficiali. È per questo che la menzione della Legio non può essere una prova.
Molti studiosi hanno messo in dubbio la veridicità della leggenda della Legione Tebea: infatti essa è sorta in un periodo in cui fiorivano storie di martiri volte a rafforzare la fede cristiana. Inoltre, va considerato che le autorità romane non sterminarono mai un’intera legione, nemmeno durante le guerre civili del I secolo a.C. e che comunque la pratica della decimazione era all’epoca già un anacronismo.
Se aggiungiamo che la militanza di cristiani in una legione prima di Costantino I era un fatto abbastanza improbabile, ecco che molto ragionevolmente possiamo considerare i racconti di Eucherio come una completa finzione.
PER CONCLUDERE
Abbiamo visto come non sempre la scomparsa delle legioni romane debba essere ascrivibile a fatti misteriosi. A volte è solo il risultato di eventi tragici ma reali. Abbiamo anche visto che le leggende sorte intorno a tali eventi vengono usati per rafforzare la fede religiosa o miti fondativi: è il caso della Legio VIIII Hispana che è penetrata in profondità nella coscienza nazionale di Inghilterra e Scozia. È facile capirne i motivi: un gruppo di guerrieri britanni che, sfavoriti, infliggono (secondo il mito dominante) una sconfitta umiliante ad un esercito professionale, ben addestrato e pesantemente armato. La stessa cosa succede in Italia, con i Molisani che ancora oggi ricordano con orgoglio la sconfitta inflitta dai Sanniti ai Romani alle Forche Caudine.
Tuttavia, l’affascinante alone di nebbioso mistero che circonda tali scomparse è duro a morire e, come abbiamo detto, nulla è più irresistibile di un enigma irrisolto.