Città e siti che non dovrebbero esistere, almeno per l’archeologia ortodossa, e che però esistono e impongono una riflessione sulle origini della civiltà umana. Si, perché secondo la letteratura scientifica convenzionale, la più antica civiltà del mondo è quella sumera. Antecedente ad essa, l’uomo era un cacciatore-raccoglitore che, proprio per la natura della sua attività, non aveva necessità di insediamenti stabili, i quali vennero realizzati solo dopo il passaggio all’agricoltura, e con essi la costituzione di una società organizzata a più livelli divenne il nuovo modus vivendi dell’essere umano. Tuttavia, alcune recenti scoperte archeologiche mettono in seria discussione la narrazione che abbiamo imparato sui banchi di scuola e allargano in modo esponenziale l’orizzonte della Storia. Sapere che alcune città sono più antiche delle piramidi egizie (e non di pochi anni, ma di migliaia di anni!) potrebbe essere sconvolgente perché le implicazioni di tali affermazioni rivoluzionerebbero le nostre conoscenze, obbligandoci a porci domande sulla vera storia dell’umanità. Riprendendo una consuetudine iniziata l’anno scorso (vedi “Una giornata con l’imperatore”), trascorreremo il periodo estivo con una raccolta monotematica, che si concluderà poco prima dell’equinozio d’autunno. Ogni puntata sarà dedicata ad un sito diverso che, per le sue caratteristiche, sfida ogni nostra conoscenza convenzionale, supera le barriere del tempo, piegandole fino a farlo diventare un sito inspiegabile, un sito, appunto, impossibile.
In questa nuova puntata delle “Città impossibili”, in esclusiva per IQ, andremo in Libano, nella fertile Valle della Beqaa, a circa 65 km ad est della capitale Beirut, dove si trovano le imponenti rovine di un antichissimo sito archeologico la cui architettura sfida realmente le leggi della fisica. Diversi archeologi e ricercatori indipendenti sono della convinzione che i Romani, per l’edificazione dei loro imponenti templi, usarono come fondazione una preesistente e gigantesca acropoli che già si imponeva nel sito e che non ebbe paragoni nell’antichità, principalmente per l’enormità dei blocchi di pietra usati per la sua costruzione. La piattaforma su cui poggia il tempio di Giove, infatti, ha delle dimensioni incredibili, e tre delle pietre che compongono la base, costituiscono quello che viene chiamato Trilithon. In pratica si tratta di tre enormi monoliti, lunghi ognuno circa 20 metri, con una profondità e un’altezza di circa 5 metri e pesanti qualcosa come 1.000 tonnellate. Benvenuti nel misterioso sito di Baalbek.
TABELLA DEI CONTENUTI
LA VALLE DELLA BEQAA: QUELLO CHE NON TI ASPETTI
IL TEMPIO CIRCOLARE O TEMPIO DI VENERE
IL TEMPIO DI GIOVE ELIOPOLITANO
IL TRILITHON, UNA SCONCERTANTE MERAVIGLIA
PERCHE’ QUESTE ENORMI DIMENSIONI
IL MISTERO DEI BLOCCHI DI PIETRA
L’ORTODOSSIA DELLA STORIOGRAFIA UFFICIALE
LA VALLE DELLA BEQAA: QUELLO CHE NON TI ASPETTI
La Valle della Beqaa (o Beqāʿ) è una fertile vallata che si estende per il Libano e la Siria, si trova a circa 30 km ad est di Beirut. Essa è delimitata dalle montagne del Monte Libano ad ovest e dai monti dell’Anti-Libano ad est. È la parte più settentrionale della Rift Valley, un’area di frattura geologica della crosta terrestre che si estende dalla Siria fino al Mar Rosso e dall’Etiopia fino al Mozambico in Africa. La Valle è lunga circa 120 km e ha un’ampiezza media di circa 16 km. In essa nascono due fiumi: l’Oronte (Asi), che scorre in direzione nord verso la Siria, ed il fiume Leonte, che scorre verso sud per poi piegare ad ovest verso il Mar Mediterraneo. Ha un clima di tipo mediterraneo costituito da inverni umidi e tiepidi e da estati molto calde e secche. Dal I secolo a.C., quando la regione era sottoposta alla dominazione romana, la Valle della Beqaa serviva come fonte di grano per la provincia romana della Siria. Oggi la Valle costituisce il 40% della terra arabile del Libano. L’estremo nord della valle, con la scarsità di piogge ed i suoli meno fertili, viene utilizzata principalmente come terra per la pastorizia esercitata da nomadi. Più a sud, suoli più fertili permettono coltivazioni di grano, mais, cotone, e vegetali, con vigne e frutteti che si trovano attorno a Zahle.
Il vino, l’eccellenza della Valle Ci sembra giusto fare una piccola digressione, doverosa per inquadrare il più possibile lo scenario che andremo ad esaminare più avanti. Quando pensiamo al Libano, ci viene in mente una terra martoriata dalla guerra civile e desertica. Invece, non tutti sanno che la regione vinicola della Valle della Beqaa è la patria dell’industria vinicola moderna del paese. Questa zona è una delle regioni vinicole più antiche del mondo e oggi produce oltre il 90% di tutti i vini prodotti in Libano. La storia della regione vinicola della Valle della Beqaa è sempre stata legata alla viticoltura. Durante l’era biblica, gli scritti dei profeti israeliti menzionavano i vini del Libano. Inoltre, gli antichi fenici parlavano approfonditamente degli ottimi vini prodotti lungo il Mediterraneo. Le uve più popolari coltivate nella regione vinicola della Valle della Beqaa sono di origine francese, in particolare Cabernet Sauvignon e Merlot. Altre varietà coltivate includono Cinsault, Carignan e Grenache. Oltre alle uve francesi, vengono coltivate alcune varietà autoctone libanesi come Merwah e Obaideh. Queste uve vengono utilizzate per produrre vini libanesi di alta qualità come il famoso blend Musar White. La maggior parte dei vigneti della regione viene lavorata solo a mano. Nella produzione del vino, viene utilizzata una combinazione di tecniche tradizionali e moderne. Oltre ai vini da tavola tradizionali, la regione vinicola della Valle della Beqaa produce anche l’arak, un distillato aromatizzato all’anice, considerato la bevanda alcolica preferita della nazione libanese.
La splendida Valle della Beqaa è una delle destinazioni naturalistiche più popolari del Libano. L’aumento dell’ecoturismo nella regione ha portato a una serie di iniziative di conservazione e preservazione dell’ambiente locale. Ciò significa che il paesaggio e l’ambiente circostante sono meravigliosamente conservati e intatti.
LA STORIA DEL SITO DI BAALBEK
Baalbek è una cittadina nella Valle della Beqaa, capoluogo di un omonimo distretto libanese. Situata ad est delle sorgenti del fiume Leonte, ad un’altitudine di 1170 metri sul livello del mare, la città è famosa per le monumentali rovine di alcuni templi romani risalenti al II e III secolo dopo Cristo, quando Baalbek, con il nome di Heliopolis ospitava un importante santuario dedicato a Giove Eliopolitano nella provincia romana di Siria. La storia di Baalbek è molto antica e contempla eventi che si sono avvicendati per più di 5.000 anni. Le origini conosciute delle costruzioni di Baalbek risalgono a due insediamenti cananei che gli scavi archeologici sotto il tempio di Giove hanno permesso di identificare come databili all’età del bronzo antica (2900-2300 a.C.) e media (1900-1600 a.C.).
Il toponimo
L’etimologia del toponimo è legata al sostantivo báʿal o bēl che in varie lingue dell’area semitica nord-occidentale (come l’ebraico, il cananeo, e l’accadico) significa “signore“. Il termine Baalbek significherebbe dunque “signore della Beqaa” e sarebbe probabilmente da correlarsi all’oracolo e al santuario dedicato al dio Baal o Bēl (spesso identificato come Hadad, dio del sole, della tempesta e della fertilità della terra) e ad Anat, dea della violenza e della guerra, sorella e consorte di Baal (più tardi identificata con Astarte), forse associati a Tammuz (più tardi identificato con Adone), dio della rigenerazione primaverile. Le pratiche religiose di questi templi contemplavano probabilmente, come in altre realtà culturali contigue, la prostituzione sacra, i sacrifici animali (e forse anche umani) e le offerte rituali di bevande alle divinità.
Baal era la divinità principale appunto dei Fenici ed una delle più importanti in assoluto di tutto il vicino Oriente antico. Esso era Dio della tempesta, dei tuoni, della fertilità e dell’agricoltura, e pertanto il signore indiscusso della Valle della Beqaa, che è ancor oggi, come abbiamo visto, – a motivo della precedente digressione – una delle principali zone di agricoltura di tutto il Libano. I Cananei erano soliti dedicare a Baal rituali di vario genere come anche sacrifici, per aggiudicarsi i favori del dio, poiché era comune convinzione che in questo modo Baal avrebbe inviato nella zona con continuità abbondanti piogge in modo da rendere fertile e rigogliosa la valle stessa.
La città, pur situata in una posizione favorevole dal punto di vista strategico, in prossimità delle sorgenti dei fiumi Lītānī (Leonte) e Oronte, non ebbe comunque, almeno inizialmente, un importante valore commerciale e strategico, non venendo menzionata da fonti coeve egiziane o assire.
La fase ellenistica
Lo storico ebreo Giuseppe Flavio (37 – 100) menziona Baalbek come tappa, nel 334 a.C. del viaggio di Alessandro Magno verso Damasco, iniziando così il processo di ellenizzazione dell’area. Dopo la morte di Alessandro Magno i Tolomei d’Egitto occuparono Baalbek e la ribattezzarono col nome di Heliopolis, “la Città del Sole”.
Furono proprio i Tolomei ad identificare il dio Baal con il dio egizio Ra e il dio solare Helios, creando così una forma ibrida di culto del dio Giove, conosciuto in quel periodo come “Giove Eliopolitano”, allo scopo di cementare una maggiore fusione culturale all’interno dei propri territori.
I Tolomei costruirono anche un importante tempio al cui all’interno veniva ospitato un santuario in cui si facevano oracoli a scopo di divinazione. Durante l’epoca ellenica fu costruito anche un podio che doveva ospitare un altro piccolo tempio che però non venne mai portato a termine.
Fase romana
Dopo la conquista romana nel 64 a.C. ad opera di Pompeo, la città di Baalbek-Heliopolis fu compresa nei domini dei tetrarchi della Palestina.
Nel 47 a.C. Giulio Cesare si stabilì nella città e ordinò la costruzione di tre grandiosi templi che furono eretti in onore delle principali divinità del “Pantheon” romano, ovvero Giove (Dio del cielo e del tuono), Bacco (Dio dell’agricoltura e del vino) e Venere (Dea dell’amore e della bellezza). Non troppo lontano dalla città, sulla cima di una collina, fu installato un piccolo tempio in onore del Dio Mercurio, divinità molto cara ai Romani.
La divinità identificata con Giove conservò tuttavia alcuni dei caratteri dell’antica divinità indigena e assunse la forma e il nome di Giove Eliopolitano. Il dio veniva raffigurato con un copricapo svasato, con fulmini nelle mani e inquadrato da due tori, l’animale che accompagnava il dio Baal. La triade eliopolitana (Giove, Bacco e Venere) ebbe altari e culto anche in lontane regioni dell’impero (province balcaniche, Gallia, province ispaniche, Britannia). Il culto assunse un carattere mistico e forse misterico, che favorì probabilmente la sua diffusione.
Nel 15 a.C. il santuario entrò a far parte del territorio della Colonia Iulia Augusta Felix Beritus, l’odierna Beirut. L’edificazione del tempio fu nuovamente intrapresa sulla piattaforma ellenistica e si concluse in diverse tappe: il tempio vero e proprio (tempio di Giove) fu terminato nel 60 d.C., sotto Nerone, e contemporaneamente venne edificato l’altare a torre che precede il tempio. Sotto Traiano (98-117) si iniziò la sistemazione del grande cortile. Sotto Antonino Pio (138-161) venne eretto il tempio di Bacco. I lavori, inclusi quelli riguardanti il tempio di Venere, vennero completati durante la dinastia dei Severi, e in particolare sotto Caracalla (211-217). Sotto Filippo l’Arabo (244-249), imperatore romano nato nella vicina Damasco, fu infine costruito il cortile esagonale del santuario.
In quest’epoca Heliopolis, elevata da Settimio Severo (193-211) al rango di colonia di diritto italico con il nome di Colonia Iulia Augusta Felix Heliopolis, divenne il centro principale della provincia della Syria-Phoenicia, istituita nel 194 con capitale Tiro.
Fase cristiana e conseguente decadenza
Nel corso di tre secoli successivi, ogni imperatore romano avrebbe donato ad Heliopolis i più imponenti edifici religiosi mai costruiti nell’Impero Romano. Monumenti che destarono l’ammirazione del mondo finché il cristianesimo non fu dichiarato religione ufficiale dell’Impero Romano nel 313 d.c. Da allora gli imperatori cristiani bizantini ed i loro rapaci sottoposti depredarono migliaia di santuari pagani. Dopo averli depredati poi li spoliarono e li distrussero.
Con l’avvento del Cristianesimo e la promulgazione dell’Editto di Milano – che determinava l’obbligo di restituire tutti i luoghi, beni e possedimenti in precedenza acquistati, requisiti o tolti ai cristiani durante il lungo periodo delle persecuzioni – infatti, il santuario di Baalbek iniziò una lenta decadenza, accelerata probabilmente dai crolli dovuti ai terremoti. Le prime trasformazioni si ebbero sotto Costantino I (306-337), che secondo Eusebio di Cesarea vi istituì una sede vescovile e decise la costruzione di una chiesa.
L’imperatore Teodosio I (379-395) non seppe fare di meglio che distruggere le statue pagane e costruire nel grande cortile una basilica cristiana con le pietre del Tempio di Giove, facendo radere al suolo l’altare-torre, trasformando in chiese sia la corte esagonale che il tempio di Venere. Questo segnò la fine della Heliopolis romana. Alcuni studiosi ritengono tuttavia che Baalbek continuò a costituire un centro di culto pagano.
L’imperatore bizantino Giustiniano (527-565) ordinò infine di asportare otto delle colonne del tempio di Giove affinché fossero riutilizzate nella basilica di Santa Sofia a Costantinopoli.
La città del sole declinò progressivamente e cadde nel dimenticatoio. Sorvoliamo sulla oscura età arabo-islamica…
LA RISCOPERTA DI BAALBEK
Nel XVIII secolo gli esploratori europei iniziarono a visitare le rovine e a riportarne dettagliate descrizioni, piante e vedute a disegno. Nel 1751 Robert Wood descrisse le rovine come tra le più audaci opere di architettura dell’antichità. Erano ancora in piedi nove colonne del tempio di Giove, ma tre crollarono, probabilmente in occasione del terremoto del 1759. Altri viaggiatori furono Volney (1781) – che pianse sulle stupende rovine come Scipione su Cartagine, consolandosi poi all’idea del progresso della civiltà – Cassas (1785), Laborde (1837), David Roberts (1839). I blocchi crollati dalle antiche costruzioni venivano all’epoca ancora riutilizzati per la costruzione di edifici moderni della cittadina.
Una prima spedizione scientifica fu condotta nel 1873 dal Fondo di Esplorazione della Palestina e in seguito alla visita dell’imperatore Guglielmo II di Germania vi venne condotta una missione archeologica tedesca (1898-1905), guidata da Otto Puchstein, durante la quale furono effettuati i primi restauri. Dopo la prima guerra mondiale altre missioni si ebbero durante il Mandato francese ad opera di C. Virolleaud, R. Dassaud, S. Ronzevalle, H. Seyrig, D. Schlumberger, F. Anus, P. Coupel e P. Collard.
Dopo l’indipendenza del Libano nel 1943 le operazioni di restauro e conservazione passarono sotto l’egida del Servizio delle Antichità del Libano (H. Kalayan).
IL SANTUARIO DI BAALBEK
Le rovine di Baalbek, situate su una grande collina (metri 1170) con una vista ampia sulle pianure adiacenti, sono delimitate su due lati dalla città di Baalbek e dagli altri lati da terreni agricoli appartenenti a agricoltori locali. All’interno del vasto complesso sono una profusione di templi e piattaforme piene di una straordinaria collezione di colonne cadute e sculture. Le strutture primarie alle rovine sono la Grande Corte; il Tempio di Baal / Giove situato sui massicci blocchi di pietra preromani noti come il Trilithon; il cosiddetto Tempio di Bacco; e il Tempio Circolare che si pensa possa essere associato con la dea Venere. Innanzitutto, andremo a conoscere brevemente le strutture primarie presso l’area sacra.
I Propilei
Una scala ricostruita sale all’ingresso monumentale dei Propilei. Quattro delle dodici colonne originarie sono state rialzate e sono incorniciate da due grandi torri trasformate nei baluardi della fortezza medievale. Furono costruiti agli inizi del III secolo, all’epoca di Caracalla in cima ad una scalinata monumentale e costituivano l’accesso all’area sacra del tempio di Giove. Erano in origine costituiti da una facciata di 12 colonne (10 delle quali rialzate nel corso dei restauri tedeschi), tra due torri più alte, sormontate da un frontone.
Nel muro retrostante si aprivano un ingresso centrale ad arco e due passaggi laterali, che più tardi furono murati. Il muro era decorato da due piani di nicchie che in origine dovevano ospitare delle statue, inquadrate da edicole con frontoni alternativamente triangolari e arcuati, sostenuti da lesene corinzie al piano terra e ioniche al piano superiore.
Il Cortile Esagonale
Dai propilei si accedeva ad una corte a pianta esagonale (metà del III secolo, sotto Filippo l’Arabo, 244-249), circondata da portici che si aprivano sul fondo con esedre rettangolari, un tempo riccamente decorate. Esso costituiva uno spazio intermedio dove i fedeli si preparavano in meditazione prima di accedere al santuario vero e proprio. Il cortile subì pesanti modifiche all’epoca in cui vi fu installata la cappella dedicata alla Vergine e successivamente per la trasformazione in bastione difensivo della cittadella araba.
Il Grande Cortile
Il cortile (135 x 113 m) (età traianea) ospitava il grande altare a torre di età neroniana e bacini laterali per le abluzioni. I portici laterali (128 colonne con fusti in granito di Aswān) sono sostenuti da eleganti criptoportici voltati e sul fondo si aprivano esedre a pianta alternativamente rettangolare e semicircolare, queste coperte da semicupole in pietra. Iscrizioni dipinte in alcune delle esedre testimoniano il loro uso per i pasti sacri di confraternite e comunità, che dovevano far parte del culto eliopolitano.
Nella corte venne costruita la basilica teodosiana, dedicata a san Pietro.
IL TEMPIO DI BACCO
È il tempio meglio conservato al mondo. Per avere un’idea delle sue dimensioni, questo tempio, che appare minuscolo rispetto al contiguo santuario di Giove, è comunque più grande dello stesso Partenone di Atene. Tutte le pietre di Baalbek sono di dimensioni sproporzionate. Anche il Tempio di Bacco non fa eccezione, essendo particolarmente sovradimensionato. Assai godibili sono i fregi che decorano il portale e il peristilio.
Elevato su un podio di 5 m di altezza, misura 69 x 36 m e vi si accede da una scalinata con 33 gradini. Era preceduto da un cortile porticato con un monumentale accesso. Risale alla metà del II secolo (Antonino Pio, 138-161) e si tratta di un tempio periptero con 8 colonne sulla fronte (“ottastilo”) e 15 sui lati lunghi, molto ben conservato (manca solo il tetto della cella e parte delle colonne laterali). Le colonne raggiungevano con basi e capitelli un’altezza di 19 m e anche in questo caso il fregio era decorato da protomi di tori e leoni. La peristasi (lo spazio tra le colonne e i muri della cella) era coperta da un soffitto cassettonato: i cassettoni poligonali e triangolari, erano decorati con busti di divinità (tra cui Marte, la Vittoria, Diana, Hygeia) e una ricca decorazione vegetale.
L’incorniciatura del portale d’ingresso della cella presenta fregi figurati e una decorazione di tralci di vite che riferiscono il tempio al dio Bacco, ma il soffitto del portale mostra un’aquila con un caduceo, attributo tipico del dio Mercurio, ed è per questo che alcuni studiosi lo attribuiscono a quest’ultimo. Il culto del dio locale, con caratteristiche simili a quelle del greco Adone, aveva comportato l’utilizzo del vino, dell’oppio e di altre droghe per il raggiungimento dell’estasi religiosa.
All’interno della cella le pareti laterali sono decorate da nicchie su due ordini: quelle inferiori sono sormontate da frontoni arcuati e quelle superiori da frontoni triangolari; le nicchie sono inquadrate da semicolonne corinzie. Sul fondo del tempio un adyton (sacrario) ospitava la statua del dio.
All’angolo sud-est del tempio venne in seguito edificata una torre che nel XV secolo, all’epoca dei Mamelucchi ospitava la residenza del governatore locale.
IL TEMPIO CIRCOLARE O TEMPIO DI VENERE
All’inizio del III secolo, un bel tempio circolare venne aggiunto al complesso Baalbek. Il tempio, a cui si accede da una scalinata, era preceduto in origine un pronao rettangolare tetrastilo, le cui due successive file di quattro colonne presentavano un’ampia spaziatura centrale: intercolunnio doppio rispetto ai due alle estremità. Ne risultò, di conseguenza, un pronao coperto a botte sull’asse d’ingresso, architravato e sorretto nelle ali da gruppi di quattro colonne su disposizione quadrata. La cella rotonda era decorata all’esterno da nicchie coperte da semicupole a conchiglia. Le colonne che circondano la cella presentano la trabeazione che non segue la linea del colonnato, ma si incurva audacemente verso l’interno fino a toccare il muro esterno della cella, creando un’insolita forma stellare e inquadrando in tal modo le nicchie.
La testimonianza di Eusebio di Cesarea, che attesta la continuità del culto agli inizi dell’epoca cristiana, ci informa della sua natura orgiastica e della presenza, probabilmente, della prostituzione sacra.
Il tempio era stato trasformato in chiesa di Santa Barbara, ma restò al di fuori della cittadella araba e l’intero complesso venne in seguito coperto da una fitta rete di abitazioni. I resti del tempio furono smontati e rimontati a poca distanza in uno spazio libero.
Mentre i primi visitatori europei presumevano, molto sagacemente, che fosse un tempio di Venere a causa dei suoi ornamenti di conchiglie, colombe e altri motivi connessi al culto della Dea, oggi l’attribuzione viene messa in dubbio. Eppure, essa è sostenuta da molti indizi e considerazioni. Ad esempio, Già il tempio rotondo era per tradizione destinato alle antiche Dee. Le colombe sono state in ogni angolo del mondo l’attributo della Grande Madre, da Ishtar, ad Inanna, ad Anat, Artemide ecc. Le conchiglie inoltre rimandano alla antica Dea del Mare ed alla eterna Afrodite che nacque appunto dalla spuma del mare e portata sull’Olimpo su un carro trainato da candide colombe. Che sia dedicato alla Dea del mare, della bellezza, dell’amore e del sesso sembrerebbe quindi piuttosto chiaro.
IL TEMPIO DI GIOVE ELIOPOLITANO
Sei colonne residue delle cinquantaquattro originarie attestano la grandiosità del podio che sovrastava di sette metri il cortile e costituisce un eccezionale punto panoramico sull’area archeologica, la città e le due catene montuose libanesi.
Il tempio, della prima metà del I secolo, che ospitava la statua di Giove Eliopolitano, dominava il Grande Cortile, sopraelevato sopra una scalinata a tre rampe. Fu presumibilmente costruito sopra le fondamenta di una costruzione più antica dedicata all’antica Triade Adad-Ishtar-Shamash (che nella forma sumera diveniva Ishkur-Inanna-Utu). Si trattava del più grande tempio romano conosciuto, in origine un periptero con 10 colonne sulla fronte (“decastilo”) e 19 sui lati lunghi. Restano in piedi sei colonne colossali, con fusti di 2,20 m di diametro (pari a 75 piedi romani) e alte circa 20 m con la base e il capitello, realizzate con tre rocchi di pietra. La trabeazione, che raggiunge i 5 m di altezza, comprendeva un fregio decorato con protomi (teste) di tori e di leoni e con ghirlande.
Il Tempio di Giove è costruito con accuratezza sopra un altro piedistallo, che si eleva di ben tredici metri rispetto al terreno. E qui cominciano i “guai”.
IL MISTERO DEL BASAMENTO
Il grande mistero delle rovine di Baalbek riguarda infatti le massicce pietre delle fondamenta sotto il tempio romano di Giove. Questo elegante e sofisticato tempio poggia infatti su un colossale terrazzamento di circa 465.000 metri quadri, le cui pietre variano nel formato da 450 tonnellate (quelle della piramide di Cheope a Giza hanno un peso di 2,5 tonnellate) fino ai tre più grandi, chiamati Trilithon, il cui peso supera 800 tonnellate ciascuno. Un’altra pietra ancora più grande – che andremo a vedere più avanti – si trova in una cava di calcare un quarto di miglio dal complesso di Baalbek.
Sul suo peso c’è una stima di 1700 tonnellate: è il singolo più grande pezzo di pietra mai realizzato al mondo.
Queste pietre sono un enigma per gli scienziati contemporanei, sia ingegneri che archeologi, per il loro metodo di estrarli dalle cave, il trasporto e la precisione del posizionamento millimetrico, assolutamente al di là dalla capacità tecnologica dei più noti costruttori antichi o moderni. Non ci sono indicazioni precise sul periodo in cui fu edificata la piattaforma, né esistono reperti organici su cui effettuare il test del Carbonio 14 (sulla pietra il test non si può fare). Pertanto, non si ha a tutt’oggi alcuna informazione circa il popolo che lo costruì ed i mezzi che impiegò
Gli abitanti della Valle Beqaa conservano delle leggende sulle origini della Grande Piattaforma del tempio, e dicono che la prima città di Baalbek è stata costruita prima del Diluvio da Caino, e poi ricostruita da una razza di giganti.
IL TRILITHON, UNA SCONCERTANTE MERAVIGLIA
Come abbiamo visto, sopra i sei blocchi sul lato occidentale ci sono tre pietre ancora più grandi, chiamate Trilithon. Questi impressionanti megaliti, tagliati e squadrati in un modo che non trova spiegazioni logiche nemmeno oggi, sono stati posti ad un’altezza di oltre 10 metri. Nonostante l’immane dimensione, sono stati lavorati ed uniti l’uno accanto all’altro all’interno del basamento su cui è stato eretto il tempio di Giove con un livello di precisione tecnologica così alta che, se non fosse per la presenza visibile dei tagli della pietra, sarebbe quasi impossibile distinguere la fine di un blocco e l’inizio di un altro. Sebbene non formino una trilite nel senso archeologico moderno – una struttura costituita da due grandi pietre verticali (pali) che sostengono una terza pietra posta orizzontalmente sulla sommità (architrave) – sono noti come Trilithon almeno a partire dall’inizio del periodo bizantino.
Il Trilithon è probabilmente opera di una civiltà dalle avanzatissime capacità tecnologiche in campo edilizio, la quale anticipò di svariati millenni i successivi stanziamenti operati dalle altre culture che costruirono anch’esse i loro monumenti nel sito, così come precedette di svariati millenni anche la costruzione dei templi (seppure anch’essi di grande impatto) costruiti dai Romani. La visione accademica prevalente della preistoria non riconosce la possibilità di civiltà sofisticate all’inizio del Neolitico o pre-Neolitico. Tuttavia, diverse strutture presso le rovine di Baalbek, possono essere spiegate solo con il ricorso a tali culture antichissime. Ma c’è di più. Nel muro di sud est è stata trovata una fila di nove blocchi grandi la metà di quelli che formano il Trilithon; sono tutti sullo stesso livello delle pietre. Inoltre, le pietre su cui poggia il Trilithon, prolungano la piattaforma fino al muro di sud ovest. Tale particolare si nota solo con una visita accurata sul luogo e certifica il fatto che il Trilithon venne eretto sopra a delle pietre ciclopiche.
È ampiamente riconosciuto che i romani nella loro millenaria storia, che ci è ben nota per altri e familiari motivi, fossero capaci di trasportare a Roma obelischi come quello proveniente da Heliopolis in Egitto del peso di 235 tonnellate, ma non erano assolutamente dotati di attrezzature tali da poter tagliare, spostare, alzare e assemblare pietre da 1.000 e più tonnellate ciascuna nel modo in cui il Trilithon fu messo in opera. Semplicemente, i Romani non sembrano aver fatto altro che utilizzare un basamento già esistente: sì, ma esistente da quanto tempo prima?
Le massicce pietre del basamento di Baalbek sono semplicemente al di là delle capacità ingegneristiche di qualsiasi costruttori antichi o contemporanei riconosciuti.
Ci sono diverse altre questioni sulle pietre di Baalbek che confondono ulteriormente gli archeologi e le teorie convenzionali della civiltà preistorica:
- Non ci sono leggende e racconti popolari di epoca romana che collegano i Romani con le pietre gigantesche.
- Non ci sono assolutamente ricordi di un qualsiasi metodo romano o altre fonti letterarie riguardanti i metodi di costruzione o le date e i nomi dei benefattori, designer, architetti, ingegneri e costruttori della Grande Terrazza.
- Le pietre megalitiche del Trilithon non hanno alcuna somiglianza strutturale o ornamentale con qualsiasi delle costruzioni di epoca romana, sopra di loro, come i Templi precedentemente descritti di Giove, Bacco e Venere.
- Le rocce calcaree del Trilithon mostrano ampie prove di erosione per vento e sabbia che è assente nei templi romani, indicando che le date di costruzione megalitiche risalgono molto prima.
- Le grandi pietre di Baalbek mostrano analogie stilistiche con altre mura in pietre ciclopiche in siti pre-romani, come la fondazione dell’Acropoli di Atene, le mura di Alatri, le fondamenta di Micene, Tirinto, Delphi e persino costruzioni megalitiche del “nuovo mondo”, come Ollyantaytambo in Perù e Tiahuanaco in Bolivia.
IL PROBLEMA DEL TRASPORTO
Come hanno fatto a trasportare e mettere in opera blocchi di 1.000 tonnellate ciascuno. E come hanno fatto a metterli allineati con straordinaria precisione? Queste pietre sono un enigma sia per gli scienziati contemporanei, sia per gli ingegneri che per gli archeologi perché il loro metodo di estrazione, trasporto e posizionamento di precisione va al di là della capacità tecnologica di qualsiasi noto costruttore antico o moderno. Vari ‘studiosi’, a disagio con l’idea che le culture antiche avrebbero potuto sviluppare conoscenze superiori alla scienza moderna, hanno deciso che le massicce pietre di Baalbek venivano faticosamente trascinate dalle vicine cave al sito del tempio. Mentre le immagini scolpite nei templi dell’Egitto e della Mesopotamia testimoniano questo metodo di trasporto a blocchi – usando corde, rulli di legno e migliaia di lavoratori – i blocchi trascinati sono noti per essere solo 1/10 tonnellate – le dimensioni e il peso del Baalbek pietre e sono stati spostati lungo superfici piane con ampi percorsi di movimento. Il percorso verso il sito di Baalbek, tuttavia, è in salita, su terreni accidentati e tortuosi, e non vi è alcuna prova che una superficie piana di trasporto sia stata creata in tempi antichi.
Jean-Pierre Adam, un archeologo francese, specializzato in architettura antica, ha condotto vari studi su antichi siti architettonici romani, greci e in diversi siti egiziani sparsi in tutto il Mediterraneo. Nel suo studio pubblicato col titolo “A propos du trilithon de Baalbek. Le transport et la mise en oeuvre des mégalithes”, un trattato che riguarda proprio il trasporto dei monoliti che compongono il Trilithon, cerca di fornire diverse spiegazioni o soluzioni, citando anche gli studi e i resoconti di alcuni autori antichi secondo i quali la lavorazione dei monoliti sarebbe stata possibile da effettuare anche da persone di statura normale grazie a dei meccanismi semplici caratterizzati da leve, contrappesi, ruote in legno, tronchi d’albero e ganci di varie forme. Ma c’è un punto oscuro che non trova spiegazione: come avrebbero potuto reggere dei tronchi di legno o delle semplici ruote un peso di 1.000 tonnellate? Crediamo che non esista nessun tipo di legno che possa sopportare un peso così spaventoso, e dei tronchi si sarebbero sicuramente distrutti per l’incredibile peso dei monoliti. Anche volendo far scorrere quei giganteschi blocchi su rulli realizzati ad hoc in pietra, questi sotto il peso del monolite si sarebbero conficcati nel terreno.
Anche l’ipotesi del trasporto dei monoliti utilizzando le ruote laterali di legno e di ferro ci sembra abbastanza azzardata, primo perché i disegni dell’autore non rispettano le reali proporzioni dei monoliti, e poi, delle ruote realizzate in quel modo, come gli ipotetici rulli di pietra, sarebbero sprofondate inevitabilmente nel terreno, che tra l’altro, in quell’area non è nemmeno pianeggiante ma ricco di dislivelli, che avrebbero potuto causare anche la rottura del monolite stesso. Osservando infatti il terreno nell’area di Baalbek, ci si rende conto dell’impossibilità a muovere quei pesi con tali sistemi. Avrebbe più senso utilizzare degli argani, ma andrebbe comunque considerato l’immenso attrito col terreno, le salite, le discese e la rampa finale. Crediamo che per raggiungere quel risultato, servirebbero decine e decine di argani saldamente bloccati in profondità nel terreno e una moltitudine di funi, spesse e resistenti. Ma per trasportare blocchi così enormi, si dovrebbe perlomeno creare una corsia lunga per tutto il tragitto, circa 1 chilometro (ma purtroppo di questa non ve n’è traccia) sui cui lati, dovrebbero appunto esserci gli argani bloccati in profondità, ma onestamente non riusciamo ad immaginarli fatti di legno: sicuramente dovremmo riconsiderare anche i materiali utilizzati per questo trasporto.
IL PROBLEMA DEL SOLLEVAMENTO
E ‘stato teorizzato che le pietre sono state sollevate utilizzando una complessa serie di ponteggi, rampe e pulegge gru, alimentate da un gran numero di uomini e animali. Un esempio storico di questo metodo è stato suggerito come soluzione per l’enigma di Baalbek. L’architetto rinascimentale Domenico Fontana, quando eresse un obelisco egizio di 327 tonnellate di fronte alla Basilica di San Pietro a Roma, usava le enormi pulegge 40, che richiedevano una forza combinata di uomini 800 e cavalli 140. L’area in cui è stato eretto questo obelisco, tuttavia, era un grande spazio aperto che poteva facilmente ospitare tutti gli apparecchi di sollevamento e gli uomini ei cavalli che tiravano le corde. Nessuno spazio è disponibile nel contesto spaziale di come sono state collocate le pietre di Baalbek. Le colline si allontanano da dove sarebbe stato necessario collocare l’apparecchio di sollevamento e non è stata trovata alcuna prova di una superficie piana e strutturalmente solida (e poi misteriosamente rimossa dopo il sollevamento). Inoltre, non è stato eretto solo un obelisco, ma piuttosto una serie di pietre giganti sono state posizionate esattamente fianco a fianco. A causa del posizionamento di queste pietre, non vi è semplicemente alcun luogo immaginabile in cui un enorme apparato di puleggia possa essere stato posizionato.
E ancora, una gru che avrebbe dovuto sostenere un tale peso, sarebbe stata a grandi linee, con un’altezza di circa 56 metri!. È difficile pensare che in tempi remoti una civiltà sia stata in grado di costruire macchinari di tali dimensioni. Molti sostengono che ad oggi, non esiste, e in generale non sia mai esistito nessun tipo di macchinario in grado di sollevare dei blocchi così pesanti.
Bob MacGrain, direttore tecnico della Baldwins Industrial Services, una delle più importanti industrie inglesi, mise in campo la sua esperienza e i suoi macchinari per simulare lo spostamento della Ḥajjar al-Ḥibla (La Pietra della Partoriente, che vedremo in seguito) con l’utilizzo di una gru, la Gottwald AK-912, in grado di sollevare pesi fino 1.200 tonnellate. Il macchinario, però, risultò inutile al momento del trasporto, in quanto tali gru non possono muoversi durante il carico di un tale peso, dunque, sarebbe stata necessaria una macchina dotata di cingoli. È evidente anche oggi quanto sia difficoltoso realizzare una simile opera, e certamente ancor più con l’impiego di strumentazioni non tecnologiche.
Architetti e ingegneri edili, affermano che non ci sono tecnologie di sollevamento note nemmeno nei tempi attuali che potrebbero sollevare e posizionare le pietre Baalbek data la quantità di spazio di lavoro. Le massicce pietre della Grande Terrazza di Baalbek sono semplicemente al di là delle capacità ingegneristiche di qualsiasi costruttore riconosciuto antico o contemporaneo.
PERCHE’ QUESTE ENORMI DIMENSIONI
Molti ingegneri si chiedono anche perché siano stati usati grandi blocchi di pietra, dal momento che era più facile portare a termine la costruzione usando blocchi più piccoli, considerando anche che nelle grandi pietre vi può essere un difetto trasversale, causa di un successivo problema strutturale. A questa domanda purtroppo nessuno ha una risposta definitiva, ma si può ipotizzare che, edificando una struttura così imponente, così mastodontica, sarebbe stata anche più solida e strutturalmente più sicura e in grado di sostenere pesi elevatissimi. Ma da quest’ipotesi, nasce subito un’altra domanda: cosa doveva sostenere di così pesante in tempi remoti una piattaforma di quelle dimensioni? Questo nessuno lo saprà mai. Ciò che è sicuro, è il fatto che il la piattaforma su cui poggia il Tempio di Giove è eccessivamente sovradimensionata rispetto alla costruzione che i Romani vi realizzarono. L’unica spiegazione è che l’hanno trovata già bell’è pronta.
STRUTTURE SIMILI
È giusto far notare che anche in una galleria chiamata Kotel, proprio sotto il “Muro Occidentale” a Gerusalemme (chiamato impropriamente Muro del Pianto), è presente una sorta di piattaforma composta da diversi monoliti, di cui il più grande, un enorme monolite chiamato “Western Stone”, conosciuto anche come “Pietra Occidentale”, è considerato come uno degli oggetti più pesanti mai sollevati dagli esseri umani senza l’assistenza di qualsiasi macchinario. Ebbene, questo monolite ciclopico, secondo alcuni sarebbe molto simile a quelli del Trilithon di Baalbek.
Volendo, potremmo ipotizzare che anche questa struttura forse sia stata eretta dagli stessi costruttori del Trilithon. Ora, il tempio di Giove, edificato proprio sopra il Trilithon, è stato eretto dai romani, che avevano a disposizione diversi tipi di macchinari, come ad esempio le gru, con la quale riuscirono a sollevare fino ad un’altezza di circa 19/20 metri degli enormi e pesanti architravi ed erigere imponenti colonne. Ma se, come ipotizzano in molti, il Trilithon fosse più antico, potrebbe essere stato eretto dagli stessi costruttori che portarono anche la Western Stone a Gerusalemme. A proposito di questo, nel libro (Re I 6:1) della Bibbia, troviamo la descrizione della costruzione del tempio di Salomone, in cui si dice che collaborarono gli esperti Fenici, sia come direttori dei lavori che come costruttori.
IL MISTERO DEI BLOCCHI DI PIETRA
I più grandi “misteri” di Baalbek però riguardano senza ombra di dubbio tre impressionanti megaliti, del tutto compatibili con quelli del Trilithon, che furono scoperti nei pressi del sito a più riprese nel corso del tempo. Andiamoli a vedere.
La roccia della partoriente
È il famosissimo blocco di pietra lavorato e squadrato che si trova ancora parzialmente attaccato ad una cava di calcare – quasi fosse pronto per essere tagliato libero e trasportato nella sua posizione presunta accanto alle altre pietre del Trilithon – dove fu abbandonato a 1 km di distanza dal tempio di Heliopolis, diverse migliaia di anni fa. Questo gigantesco blocco, la cui lunghezza è di 22 metri e il cui peso è all’incirca di 1000 tonnellate (ci sono stime molto differenti tra di esse che vanno dalle 1.000 alle 2.000 tonnellate, ma di sicuro si tratta di qualcosa di mostruosamente pesante) viene comunemente chiamato dagli estimatori occidentali “Monolito di Baalbek”, mentre per le popolazioni di lingua araba essa è “Ḥajjar el-Houble”, ovvero “La roccia della partoriente”, ed è sicuramente uno tra i più grandi blocchi di pietra che siano mai stati lavorati nella storia della Terra.
Ci sono molteplici storie dietro il nome. Una dice che il monolite prende il nome da una donna incinta che ingannò la gente di Baalbek facendole credere di sapere come spostare la pietra gigante se solo l’avessero nutrita fino al parto. Altri dicono che il nome deriva dalle leggende secondo cui ai jinn (creature invisibili nell’Arabia preislamica e in seguito nella cultura e nelle credenze islamiche) incinti era stato assegnato il compito di tagliare e spostare la pietra, mentre altri dicono che il nome riflette la credenza che una donna che tocca la pietra sperimenta un aumento della fertilità.
La Pietra del Sud
Nel 1990, in uno scavo archeologico condotto nella stessa cava, fu rinvenuto un secondo monolite dalla forma perfettamente rettangolare, e con un peso stimato di 1.242 tonnellate, così da renderlo addirittura più pesante della già impressionante “Roccia della partoriente”.
La pietra di Janeen
Ma quello che ha lasciato sbigottiti e increduli i ricercatori, e più in generale gli osservatori di tutto il mondo, è senza dubbio il terzo monolite ritrovato in ordine cronologico ma non di importanza, rinvenuto nell’estate del 2014 grazie ad una spedizione archeologica voluta e organizzata dal dipartimento di orientalistica del “Deutsches Archäologisches Institute”.
Questo sensazionale e smisurato reperto chiamato “La pietra di Janeen” è lungo 20 mt, largo quasi 6 mt e profondo oltre 5 mt, dall’incredibile peso stimato di oltre 1.600 tonnellate, ed è ad oggi, per quanto ne sappiamo, il più grande blocco di pietra esistente sulla faccia della Terra.
L’ORTODOSSIA DELLA STORIOGRAFIA UFFICIALE
Gli archeologi, incapaci di risolvere i misteri del trasporto e del sollevamento dei grandi blocchi, raramente hanno l’onestà intellettuale di ammettere la loro ignoranza della questione e quindi concentrano la loro attenzione esclusivamente su misure ridondanti e discussioni riguardanti i templi verificabili dell’epoca romana nel sito. Purtroppo la divulgazione scientifica e la storiografia ufficiale non sapendo come manipolare questo ed altri scomodi reperti hanno affibbiato loro il termine di “misteri”, un’operazione sicuramente abile ed astuta ma certamente alquanto scorretta. La presenza dei megaliti di Baalbek, così come quella di moltissime altre opere architettoniche sparse in ogni punto del pianeta, sono un mistero soltanto per chi vuole ritenerli tali, ma in realtà la presenza di reperti storici realizzati con una tecnologia avanzata millenni prima dell’era cosiddetta “moderna” non è affatto un mistero, bensì la prova reale e tangibile dell’esistenza di avanzatissime società antidiluviane che abitarono la Terra millenni prima della comparsa delle nostre culture perfino le più antiche. Una realtà tenacemente negata e taciuta dalla storiografia ufficiale che come al solito cerca di occultare, mistificare, nascondere, interpretare e falsificare per mantenere a tutti i costi a galla alcuni dogmi che si dimostrano più filosofici che scientifici ma razionalmente nonché materialmente infondati, costruiti a tavolino nel lontano Settecento senza però sottoporli alla necessaria verifica che non può essere divisa dalla dura e faticosa ricerca sul campo. Il risultato è che i dati di realtà – storici, archeologici, della tradizione letteraria e della stessa esperienza dei siti di monumenti – sconfessano quella stessa faticosa costruzione storiografica. Insomma, se la realtà smentisce clamorosamente la ricostruzione storica qualcosa di strano ci dev’essere.
BAALBEK OGGI
Negli anni successivi all’indipendenza libanese, la valle della Beqaa soffrì per la relativa marginalità economica e politica, anche se Baalbek poté contare sui proventi legati al crescente afflusso di visitatori locali e stranieri. Dopo l’avvio saltuario di spettacoli estivi all’aperto nel 1922, a partire dal 1955 iniziò ad essere organizzato in maniera sistematica il Festival di Baalbek, comprendente nel suo programma un misto di spettacoli teatrali, opera lirica, musical, concerti di musica classica e musica leggera e organizzato solitamente nella cornice del grande cortile. Direttori d’orchestra, interpreti e gruppi del calibro di Herbert von Karajan, Mstislav Rostropovich, Fairouz, Umm Kulthum, Ella Fitzgerald, Joan Baez (ma anche Sting, Gilberto Gil e Massive Attack) hanno tenuto memorabili concerti in questa sede monumentale.
Il festival fu interrotto nel 1975, con lo scoppio della guerra civile libanese (1975-1990), quando la cittadina di Baalbek divenne una roccaforte della milizia sciita Hezbollah (“Partito di Dio”). La milizia, con la probabile approvazione del governo siriano, fu sostenuta dal governo iraniano tramite il Corpo delle guardie della rivoluzione islamica (che forniva addestramento militare e indottrinamento) e si distinse per la politica estremamente ostile nei confronti degli Stati Uniti e di Israele, che all’epoca occupava militarmente una parte del territorio libanese.
Dopo la fine della guerra civile libanese nel 1990 (in seguito agli accordi di Ṭā’if del 1989), la situazione si è lentamente ma progressivamente normalizzata e oggi la visita al sito archeologico e alla cittadina è possibile senza alcun tipo di pericolo. Nel 1997 sono riprese le serate del Festival di Baalbek, mentre nel 1998 è stata inaugurata la collezione permanente che costituisce il nucleo centrale del nuovo Museo archeologico.
La cittadina è stata oggetto di pesanti bombardamenti israeliani nel luglio 2006.
Dal 1984, Baalbek è stato dichiarato Patrimonio Mondiale dell’Umanità dall’UNESCO.
Baalbek è uno dei luoghi più belli e suggestivi al mondo e insieme, è uno dei siti archeologici ancora poco studiato e conosciuto per ovvi motivi di ordinaria follia di una parte di popolazione residente su quei territori: sono gli integralisti islamici che vogliono riportare il Medio-Oriente (ma anche l’Occidente, dove essi si sono insediati grazie alle sconsiderate e suicide politiche migratorie di governi, nemici del proprio popolo) al più cupo Medioevo.
Concludiamo questo lungo episodio con un video che ricostruisce in 3D i Templi di Baalbek. Buona visione.
Nel prossimo episodio: una scoperta che, se confermata, sgretolerebbe i convenzionali paradigmi archeologici e costringerebbe a riscrivere la storia. A 30 km dalla città di Cianjur, nella provincia di Giava, in Indonesia, potrebbe esserci davvero la piramide più antica del mondo. Anzi, una delle costruzioni più antiche del pianeta.
I recenti studi di un team di esperti farebbero pensare infatti che questo incredibile sito megalitico sia antecedente alle piramidi egizie e persino a costruzioni ritenute le più antiche della Terra come quelle di Gobekli Tepe in Turchia. Un team di studiosi dell’Agenzia nazionale per la ricerca afferma che la struttura indonesiana potrebbe avere tra i 25mila e i 14mila anni! Non per nulla i locali lo considerano un luogo sacro, lo venerano e ad esso sono legati da vincoli atavici. Il sito, dichiarato patrimonio culturale nazionale, viene chiamato Montagna dell’illuminazione e si trova sulla sommità di un vulcano spento. Benvenuti a Gunung Padang.
Se ti sei perso gli episodi precedenti…