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I CAMBIAMENTI CLIMATICI E IL CROLLO DELL’IMPERO ROMANO: C’E’ UNA RELAZIONE?

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sabato, Novembre 23, 2024
 Cole Thomas Cole, “Il corso dell’ Impero – Distruzione”, 1836, oggi a New York, presso la New-York Historical Society.

Nel corso degli ultimi 2.500 anni si sono verificati numerosi esempi di come i cambiamenti climatici abbiano influenzato la storia dell’umanità. Nello specifico, il clima ha avuto un ruolo importante nell’ascesa e nella caduta della civiltà romana.

I costruttori dell’Impero beneficiarono di una tempistica impeccabile: il caratteristico clima caldo, umido e stabile fu favorevole alla produttività economica in quella che era una società agricola. I benefici della crescita economica sostennero gli affari politici e sociali con cui l’impero romano controllava il suo vasto territorio. Possiamo quindi dire che il clima favorevole, in un modo sottile e profondo, faceva parte della struttura dell’Impero.

Curiosamente, un aumento dell’instabilità climatica coincise con la fine dell’Impero Romano d’Occidente e con le turbolenze dell’epoca delle migrazioni. Si pensi alla siccità durante il III sec. d.C., che si accompagnò in parallelo, alla crisi dell’Impero d’occidente, segnato dalle invasioni barbariche, dai tumulti politici e dalle ripercussioni economiche in diverse province della Gallia.

L’attuale sensibilità nei confronti dei cambiamenti climatici, che nulla ha a che vedere con i talebani gretini dell’ecologismo estremo, ha prodotto studi seri sulla possibile influenza che essi abbiano potuto esercitare su antiche civiltà ora scomparse, creando degli interessanti paralleli tra il nostro mondo e quello perduto nelle pieghe della Storia, analizzando i complessi meccanismi responsabili del declino di sistemi sociali all’apparenza solidi ed inossidabili e cercando di sovrapporli alla nostra civiltà, allo scopo di capire se il declino che sta avvenendo sotto i nostri occhi è in qualche modo arginabile o irreversibile. È ciò che anche noi cercheremo di indagare, in questo nuovo articolo per “La Stele di Rosetta”, in esclusiva per IQ.

TABELLA DEI CONTENUTI

CAMBIAMENTI CLIMATICI, EVENTI NORMALI

LE VARIAZIONI DEL CLIMA NEL PASSATO

L’IMPERO ROMANO E L’OPTIMUM CLIMATICO

LA FINE DELL’OPTIMUM CLIMATICO

LE EPIDEMIE

UNA RIPRESA EFFIMERA

IL COLPO FINALE: LA PESTE DI GIUSTINIANO

LE VARIAZIONI DEL CLIMA E LE INVASIONI BARBARICHE

NON SOLO L’IMPERO ROMANO…

LA FINE DELL’IMPERO ROMANO: CONCLUSIONI

CAMBIAMENTI CLIMATICI, EVENTI NORMALI

Va subito detto che i cambiamenti climatici di per sé non sono una novità. Lo diventano solo nel momento in cui la narrazione dominante, contando sul fatto che le persone siano disinformate (e purtroppo lo sono), fa passare il concetto per cui il pianeta sta cambiando esclusivamente a causa delle attività industriali dell’uomo, tacendo volutamente le cause naturali che si ripetono ciclicamente da migliaia di anni e ignorando le testimonianze antiche, oltre agli studi moderni che lo attestano, al fine di generare un’isteria di massa (per alcuni si chiama ecoansia) per giustificare interventi legislativi al limite del ridicolo (se non criminale), che limitano la libertà (città dei 15 minuti), la crescita economica (chiusura di aziende che non rispettano i deliranti requisiti “green”) e l’agricoltura (espropriazione di terreni agricoli per installare pannelli fotovoltaici).

Fa strano come in nome dell’ecologia si deturpi il paesaggio con mostruose pale eoliche il cui smaltimento futuro dei materiali (non riciclabili) che le compongono appare assai dubbio e problematico (ma qualche staterello africano disposto a sotterrarli si trova sempre, no?).

Per non parlare del fatto che, con la scusa che l’agricoltura inquina, si tende a ridurre la produzione con l’obiettivo ultimo di concentrare l’industria alimentare nelle mani di poche multinazionali che possono poi decidere sia il prezzo degli alimenti sia la frequenza con cui essi vengono distribuiti, avendo quindi nelle mani il potere di decidere se e quando creare penuria di cibo allo scopo di generare tumulti e disordini sociali, per sedare i quali vengono poi giustificati interventi straordinari di repressione e limitazione delle libertà individuali.

E che dire dei disastri naturali, quali le frane e le alluvioni, che sono, purtroppo, cronaca recente? Vengono attribuiti al cambiamento climatico, quando è solo colpa dell’incuria di una classe politica che non sa o non vuole spendere denaro per mettere in sicurezza i fiumi e i fianchi delle montagne, preferendo di destinarlo in altro modo che qui non stiamo a raccontare sennò il discorso si amplierebbe in maniera esponenziale.

I disastri naturali sono storicamente noti per creare uno “stato di eccezione” in cui diventa impossibile svolgere le solite attività e le norme politiche e culturali vengono sospese, fornendo così il pretesto per attuare rapidi cambiamenti sociali e politici È già successo in passato, anche nell’antica Roma, ma il mondo moderno, distratto dai vari “Grandi Fratelli” e dalla ricerca del “like” a tutti i costi, sembra soffrire di molta amnesia. Amnesia favorita anche da un sistema scolastico in cui lo studio, soprattutto quello della Storia, appare relegato sempre più in secondo piano: ideologia al posto della cultura e del ragionamento, elementi che determinano l’essere umano come individuo pensante e quindi non manipolabile dal sistema oggi imperante, che lo vorrebbe invece come effimera entità biologica.

Detto questo, il cambiamento climatico non è iniziato con le emissioni di CO2 dell’industrializzazione, ma è una caratteristica permanente della storia umana. La meccanica orbitale (piccole variazioni nell’inclinazione, rotazione ed eccentricità dell’orbita terrestre) e i cicli solari alterano la quantità e la distribuzione dell’energia ricevuta dal Sole. E le eruzioni vulcaniche riversano nell’atmosfera solfati riflettenti, a volte con effetti di lunga durata. Messi alle strette da studi ed evidenze storiche, i cosiddetti fact-checkers e gli autoproclamati debunkers, tanto funzionali al mainstream quanto autoreferenziali, sono corsi ai ripari sostenendo che i moderni cambiamenti climatici, definiti dalla narrazione dominante di origine antropica sono considerati pericolosi perché si dice avvengano rapidamente e insieme a tanti altri cambiamenti irreversibili nella biosfera terrestre.

Ci chiediamo se i guru attuali abbiano mai aperto un atlante o visto un mappamondo: si renderebbero conto della proporzione esistente tra noi e il pianeta, talmente vasto da non accorgersi nemmeno della nostra irrilevante presenza. Ma i guru catastrofisti sono gli utili idioti del sistema che intende realizzare il Great Reset, un abominio che solamente dei criminali sociopatici potevano concepire, criminali che invece di stare in ospedali psichiatrici o rinchiusi in oscure segrete, si trovano alla guida di governi che ci impongono come dobbiamo pensare, come dobbiamo parlare, come dobbiamo mangiare.

LE VARIAZIONI DEL CLIMA NEL PASSATO

Chiarito come il presente articolo non sia un endorsement alla narrazione corrente, andiamo ad analizzare i fatti. Per circa 4 miliardi di anni il clima e la vita sul nostro pianeta si sono evoluti in un mutuo intreccio di eventi geologici, climatici e biologici culminanti nell’ambiente in cui oggi viviamo. Variazioni del clima a larga scala nella storia della Terra sono state accompagnate da rapidi avvicendamenti evolutivi. Estinzioni, speciazione, comparsa di nuovi organismi sono gli eventi verificatisi per adattarsi alle mutate condizioni ambientali.

L’esplosione evolutiva del Cambriano avvenne, per esempio, circa 541 milioni di anni fa. Vide il proliferare di forme di vita complesse negli oceani, probabilmente a causa di un aumento della quantità di ossigeno presente nell’acqua marina.

L’estinzione del Permiano, 252 milioni di anni fa, fu invece scatenata da un’intensa attività vulcanica durata migliaia di anni nella regione dell’attuale Siberia. Quest’ultimo evento portò ad un aumento dell’emissione di anidride carbonica (CO2) in atmosfera che spazzò via circa il 90% delle specie marine e il 70% di quelle terrestri.

Le ricostruzioni del clima degli ultimi millenni suggeriscono un’interazione continua tra variazioni del clima e modificazioni delle società umane. In particolare alcune ricerche condotte nel bacino del Mediterraneo e in Europa centrale, hanno individuato stretti legami tra variazioni del clima ed evoluzione di civiltà e imperi.
In particolare un insieme di indicatori paleoclimatici marini e continentali testimonia che le condizioni climatiche durante l’esistenza dell’Impero Romano mutarono in modo significativo.

Un gruppo di studiosi, analizzando il guscio di microrganismi marini (foraminiferi planctonici) è stato in grado di effettuare stime di temperatura superficiale del mare Mediterraneo degli ultimi 5000 anni. I campioni analizzati provengono da successioni sedimentarie campionate nel Mar Egeo, Canale di Sicilia, mare di Alboran e bacino di Minorca. Grazie a tali osservazioni il periodo più caldo negli ultimi 2.000 anni risulta essere quello che comprende i primi 500 anni dell’Era Comune. In questo periodo le temperature superficiali del mare risultano più alte di circa 2°C rispetto alla media calcolata sull’intero periodo.


Questa fase climatica, nota anche come Roman Climatic Optimum, coincise grosso modo proprio con la nascita e il fiorire dell’Impero Romano, probabilmente favorendone l’espansione.

L’IMPERO ROMANO E L’OPTIMUM CLIMATICO

Sulla scia delle recenti acquisizioni scientifiche e tecnologiche, risulta evidente che i sistemi fisici e biologici della Terra rappresentano uno scenario incessantemente mutevole. Sotto tale aspetto, possiamo dire che i Romani ebbero una «fortuna sfacciata» poiché portarono a compimento le grandi conquiste territoriali in una fase del tardo-Olocene denominata Optimum climatico romano (200 a.C. – 150 d.C.): una fase di breve durata, quasi perfetta, con un clima caldo, umido e stabile che consentiva un ciclo economico virtuoso. I raccolti erano abbondanti e sempre più terreni vennero messi a coltura, ciò che favorì la nascita di una supremazia agricola, che – unita al commercio e alla tecnologia – determinò la prosperità dell’Impero. La popolazione poteva crescere e sfamarsi. L’aumento delle temperature determinò, in generale, lo spostamento verso nord della linea delle coltivazioni mediterranee, come l’ulivo.

Plinio scrive che il faggio, che prima arrivava solo all’altezza di Roma, spinse il suo habitat fino al nord d’Italia. Il periodo caldo favorì poi la diffusione della viticoltura da parte dei Romani in buona parte d’Europa, anche nei territori che non avevano mai visto prima la vite. La portarono fino in Inghilterra, oltre che a notevoli altitudini. Da molte di queste zone estreme sparirà con la successiva Piccola Era Glaciale.

La diffusione della vita. Fonte: quattrocalici.it

Testimonianze come quella dell’agronomo Columella indicano che nel I secolo d.C. in Italia centrale e meridionale le piogge estive erano più frequenti rispetto a oggi. Si è potuto inoltre capire che nell’Africa settentrionale il deserto ha attualmente invaso ampie zone che in epoca romana erano invece coltivabili.

La raccolta del grano rappresentata nella Tomba di Sennedjem XIII secolo a.C.

In questo stesso periodo anche l’Egitto visse un periodo di prosperità. Si guadagnò, insieme alla Sicilia, il titolo di granaio dell’impero, producendo grandi quantità di cereali. Negli anni precedenti a questo, ben sette delle nove piene del Nilo del primo secolo a.C. non furono infatti adeguate a fertilizzare un’area sufficientemente vasta. I successivi 329 anni invece furono caratterizzati da un aumento della frequenza di piene favorevoli, assicurando un continuo rifornimento di frumento, orzo e farro verso Roma e verso altre regioni dell’Impero.

Il passaggio climatico verso temperature più alte corrisponde con l’espansione di Roma nel Mediterraneo. In antichità, infatti, si navigava solo nelle stagioni favorevoli ed il clima migliore permise periodi di navigazione più lunghi. L’estensione e la pacificazione delle rotte di navigazione e del sistema viario consentì un incremento del commercio che fece aumentare i redditi reali, tenendo in scacco la trappola malthusiana, ossia il meccanismo che traduceva i benefici reddituali di breve periodo, derivanti da sporadici progressi tecnologici, in crescita della popolazione, non essendovi ancora alcun incremento del PIL pro-capite di lungo periodo.

A metà del secondo secolo d. C., i Romani controllavano una parte enorme e geograficamente varia del globo, dalla Gran Bretagna settentrionale ai confini del Sahara, dall’Atlantico alla Mesopotamia. La popolazione, generalmente piuttosto prospera, aveva raggiunto i 75 milioni di abitanti. Alla fine, tutti gli abitanti liberi dell’impero arrivarono a godere dei diritti di cittadinanza romana. Non c’è da stupirsi se lo storico inglese Edward Gibbon, nel XVIII secolo, giudicò quest’epoca come la più felice nella storia della nostra specie.

Roma nacque col freddo
A puro titolo di curiosità ed a riprova di quanto il clima sia sempre stato mutevole, ricordiamo che Roma nacque col freddo. Forse non tutti sanno che la fondazione di Roma (753 a.C.) cadde in un periodo di Piccola Era Glaciale (nel grafico, il primo picco discendente colorato in blu), durato circa dal 900 al 300 a.C. Questo significa che, nei primi secoli dell’epoca Romana, l’Italia aveva un clima decisamente più freddo di quello a cui siamo abituati oggi.

Nel grafico qui sotto si vedono le temperature medie annuali dall’Era Glaciale ad oggi. La linea verticale in fondo rappresenta il nostro periodo.

Ricostruzioni di sintesi della temperatura durante l’Olocene (iniziato convenzionalmente circa anni fa). Fonte: quattrocalici.it

Numerosi autori romani testimoniano i terribili inverni di quei periodi. Columella e Giovenale raccontano che all’inizio del IV secolo a.C. gli inverni erano così rigidi che il Tevere era incrostato di ghiaccio. I boschi del Lazio e dell’Etruria erano costantemente ricoperti di neve. L’inverno del 399-400 a.C. rimase nella storia di Roma per via di un’incredibile nevicata. Caddero più di 2 metri di neve (7 piedi) ed i crolli di alberi e tetti in tutta la città causarono numerosi morti e feriti. Varrone racconta di inverni lunghissimi nelle montagne italiane. Sant’Agostino riporta che, ancora nell’inverno del 275 a.C., il Tevere gelò e Roma rimase sotto la neve per 40 giorni.

LA FINE DELL’OPTIMUM CLIMATICO

Di certo, Edward Gibbon che tanta parte della sua vita dedicò alla stesura del monumentale libro “Storia del declino e della caduta dell’Impero Romano” (1772-1789) non avrebbe mai immaginato che, dopo più di due secoli, altri studiosi potessero aggiungere all’elenco di cause da lui analizzate, un’altra fondamentale: i cambiamenti climatici.

Nella seconda metà del II secolo d.C. le condizioni propizie terminarono. Il fenomeno fu causato da diversi fattori i cui principali furono:

  • variazioni dell’attività solare;
  • oscillazioni degli indici climatici che regolano le precipitazioni sui continenti, come El Niño dell’Oceano Pacifico Centro-Meridionale e la NAO dell’Oceano Atlantico Settentrionale, ossia l’Oscillazione Nord Atlantica caratterizzata da un pattern (andamento) di circolazione atmosferica (anche detto modo di variabilità a bassa frequenza dell’atmosfera) localizzato nell’Oceano Atlantico settentrionale e caratterizzato dalla fluttuazione ciclica (oscillazione) della differenza di pressione al livello del mare tra l’Islanda e le Azzorre.
  • ripresa di attività vulcanica in diverse aree del pianeta.

Lievi variazioni nell’orbita, nell’asse d’inclinazione o nel movimento di rotazione della terra alterarono l’afflusso e la distribuzione dell’energia solare che penetrava nell’atmosfera e, di conseguenza, il clima. Questo cominciò a cambiare portando all’abbassamento delle temperature e, al contempo, all’aumento della siccità nel Mediterraneo. E di sicuro tutto ciò contribuì alla crisi della produttività agricola attestata nell’impero durante il III secolo.

Alcune testimonianze, come quella di san Cipriano, vescovo di Cartagine, ne danno fede:

“Devi sapere che il mondo è invecchiato e che non ha più quel vigore e quella forza sui quali prima poggiava […] Non ci sono più così tante piogge in inverno per nutrire le sementi, non c’è più il solito calore in estate per fare maturare i frutti, né la primavera sorride più del suo bel clima, né l’autunno è così fecondo dei prodotti degli alberi”

L’instabilità del clima mise alle strette le riserve energetiche, interferendo in maniera drammatica con il corso degli eventi. Infatti, questo periodo prolungato di tempo instabile durato dal 250 al 600 d. C. provocò, con il collasso delle produzioni agricolo-alimentari, il declino dell’Impero a cui l’impatto delle cosiddette “invasioni barbariche”, l’esodo in massa di popolazioni spinte dalla necessità di trovare altrove aree di sussistenza, avrebbe dato il colpo decisivo che ne determinò il crollo. Sul declinare del V secolo d.C., una frenetica riorganizzazione climatica culminerà nella Piccola glaciazione della Tarda Antichità (450 d.C. – 700 d.C.) mentre l’attività vulcanica degli anni Trenta e Quaranta del VI secolo d.C. innescherà il periodo più freddo di tutto il Tardo Olocene.

Inizialmente, tra il 350 e il 450, piovve molto, circa il doppio della media. Successivamente tra il 450 e il 600, il freddo si fece più intenso e arrivò la siccità. Le temperature estive in Europa scesero di circa tre gradi. Di questo oggi si ha certezza grazie ai mini carotaggi effettuati su alberi risalenti a quell’epoca e all’esame dei relativi anelli annuali presenti nei tronchi.

LE EPIDEMIE

Le conseguenze furono devastanti in termini di carestie e povertà di raccolti, ma si concretizzarono anche in violentissime epidemie. Le perturbazioni nell’ambiente biologico furono ancora più influenti sul destino di Roma. Per via di tutti i progressi dell’impero, l’aspettativa di vita era tra i venti e i trent’anni e le malattie infettive erano la principale causa di morte. Ma l’insieme delle malattie che hanno colpito i Romani non era statico: l’Impero Romano, altamente urbanizzato e interconnesso, fu un vantaggio per i suoi abitanti microbici. Umili malattie gastro-enteriche come la shigellosi e le febbri paratifoidi si diffondono attraverso la contaminazione del cibo e dell’acqua e fioriscono in città densamente popolate.

Il Plasmodium Falciparum.

Dove le paludi sono state prosciugate e vengono costruite le strade, il potenziale della malaria si sviluppa nella sua forma peggiore – Plasmodium falciparum – un protozoo letale trasportato dalle zanzare. I Romani collegarono anche le società via terra e via mare come mai prima d’ora, con la conseguenza indesiderata che anche i germi si muovevano come mai prima d’ora. Gli assassini lenti come la tubercolosi e la lebbra godevano di un periodo di massimo splendore nella rete di città promosse dallo sviluppo romano.
Tuttavia, il fattore decisivo nella storia biologica di Roma fu l’arrivo di nuovi germi in grado di provocare eventi pandemici. L’impero fu scosso da tre di queste malattie intercontinentali.

Un Impero interconnesso
Come abbiamo già detto, La proliferazione delle epidemie durante il III secolo d.C. fu, in un certo qual modo, il risultato dell’espansione romana. Difatti durante l’optimum climatico romano il mondo aveva sperimentato una notevole crescita economica e demografica, e si era sviluppata una rete di città densamente popolate e strettamente connesse tra di loro. La conseguenza negativa fu che così venne propiziata la diffusione di malattie contagiose. I densi habitat urbani, la trasformazione dei paesaggi e le fitte reti di collegamento dentro e fuori l’impero contribuirono a creare un’ecologia microbica unica. Alcune di queste malattie, come la tubercolosi, la lebbra o la malaria, si estendevano su scala limitata. Altre, invece, si convertirono in epidemie devastanti. Se in passato avevano avuto un’incidenza regionale e stagionale, dalla seconda metà del II secolo d.C. si originarono contagi che colpirono vaste regioni dell’impero con una veemenza fino ad allora sconosciuta.

Marco Aurelio.

La peste antonina
Va tenuto conto del fatto che i termini latini pestis e pestilentia erano usati nell’antichità per indicare qualsiasi tipo di malattia epidemica. In virtù di ciò, sappiamo che la prima grande epidemia che afflisse l’intero territorio dell’impero romano fu la peste antonina che scoppiò nel 165 terminando nel 180 circa. Sviluppatasi in Oriente, tale pestilenza flagellò il territorio dell’Urbe in diverse ondate, favorite dal ritorno dei legionari che combattevano in Persia al seguito dell’imperatore Lucio Vero. I picchi epidemici sono ben noti grazie alle descrizioni dei sintomi fornite dal celebre medico Galeno Claudio, che fu costretto a recarsi a Roma dalla sua residenza vicino alla costa egea per assistere l’imperatore Marco Aurelio e la sua famiglia. Fu causata probabilmente dal vaiolo (comunque da un virus), e uccise almeno 7 milioni di persone (il 10 per cento della popolazione dell’Impero!) dando inizio al degrado dell’Impero. Ne seguì un grave inflazione e un turnover degli imperatori più frequente.

San Cipriano.

La peste di Cipriano
Nella seconda metà del terzo secolo, durante un picco di riscaldamento, esplodeva la Peste di Cipriano, così chiamata per via dello scrittore cartaginese cristiano il quale ne lasciò una testimonianza dettagliata nell’opera De mortalitate (Sulla mortalità). Forse originatasi in Etiopia, si abbatté tra il 249 e il 269 d.C. in territori come l’Egitto, l’Oriente mediterraneo, l’Asia minore, la Grecia e l’Italia. Uno storico del V secolo, Paolo Orosio, dichiarava in modo catastrofico: “Non c’è stata quasi provincia romana, né città o casa che non sia stata colpita e spogliata da questa pestilenza globale”.

Con le caratteristiche di una febbre emorragica, poteva essere dovuta a un virus del tipo Ebola che causava un’elevatissima mortalità.

UNA RIPRESA EFFIMERA

Ricostruzione della statua colossale di Costantino all’interno della Basilica di Massenzio.

La crisi del III secolo d.C., però, non comportò la fine dell’impero romano, che riuscì a riprendersi nel corso del secolo successivo. La “rinascita” è in genere associata alla figura di energici regnanti quali Costantino e Teodosio, ma bisognerebbe anche tenere in considerazione la tregua climatica che visse l’impero in tale periodo.

La causa di questa relativa calma andrebbe individuata nel fenomeno di cui abbiamo già parlato, detto Oscillazione Nord Atlantica, una fluttuazione tra zone di alta e bassa pressione atmosferica che provocò nel continente un sensibile incremento delle precipitazioni. Le condizioni meteorologiche divennero ancora più variabili, il che spiegherebbe l’alta frequenza di siccità e carestie registrate nell’area mediterranea. Ne è un esempio la carestia che patì la provincia della Cappadocia (nell’attuale Turchia) negli anni 368 e 369 d.C., nota grazie alla testimonianza di Basilio Magno, vescovo di Cesarea dal 370, che nei suoi sermoni invitava a soccorrere i poveri, costretti a vendere i figli al mercato nero pur di procurarsi del cibo.

IL COLPO FINALE: LA PESTE DI GIUSTINIANO

Mappa delle diverse ondate della peste di Giustiniano.

Ma il colpo assestato dal clima in quei decenni avrà un’appendice, anch’essa destinata a cambiare il possibile corso della storia. Ne abbiamo già parlato in un precedente articolo (qui il link per chi volesse approfondire), ma vale la pena di riproporre le parti più salienti. Infatti con la salita al potere ad Oriente nel 527 d.C. di Giustiniano I, verrà messo in atto un ultimo tentativo di ricostituire l’impero romano portando indietro le lancette della storia. Le truppe bizantine, guidate da Belisario, sconfissero i Vandali e riconquistarono il Nord Africa, storicamente il granaio di Roma, puntando successivamente con grande slancio all’Italia. Ma proprio sul più bello successe qualcosa di mai visto prima che ci racconta nel 536 d.C. direttamente lo storico bizantino Procopio di Cesarea:

“Nel corso di quest’anno si è verificato un fenomeno terrificante. Il sole diffondeva la sua luce senza forza. Si sarebbe detto che era in corso un’eclissi, poiché i raggi che il sole emetteva non erano limpidi”.

Yersinia pestis al microscopio.

Il raffreddamento climatico che ne conseguì influenzò i movimenti e i comportamenti del ratto nero, ospite finale del parassita, lo Yersinia pestis, e forse aumentò la vicinanza del roditore (quindi della pulce vettrice) con l’uomo, per cui il batterio, che non usa l’uomo come ospite e per questo lo può eliminare rapidamente, si trovò nelle condizioni di flagellare con otto ondate le popolazioni in Oriente fino a metà dell’ottavo secolo. Il genoma di quel batterio è stato trovato nei resti umani e sequenziato, per cui possiamo fare ipotesi credibili sulle dinamiche epidemiologiche di quell’epidemia.

Il colpo finale lo diede l’arrivo a Costantinopoli, capitale dell’Impero Romano d’Oriente, nel 541, della vera peste, nota come peste di Giustiniano, preludio della Morte Nera medievale.

La peste di Giustiniano è un caso del rapporto straordinariamente complesso tra sistemi umani e naturali. Lo Yersinia pestis, non è una nemesi particolarmente antica; evolutosi solo 4.000 anni fa, quasi certamente in Asia centrale, era un neonato evolutivo quando ha causato la prima pandemia di peste. La malattia è presente in modo permanente in colonie di roditori sociali e da tana come le marmotte o i gerbilli. Tuttavia, le storiche pandemie di peste sono stati disastri colossali, contaminazioni che hanno coinvolto almeno cinque specie diverse: il batterio, il roditore serbatoio, l’ospite di amplificazione (il ratto nero, che vive vicino all’uomo), le pulci che diffondono il germe, e le persone colpite dal fuoco incrociato. Le prove genetiche suggeriscono che il ceppo di Yersinia pestis che ha generato la peste di Giustiniano ha avuto origine da qualche parte vicino alla Cina occidentale. È comparso per la prima volta sulla sponda meridionale del Mediterraneo e, con ogni probabilità, è stato contrabbandato lungo le reti commerciali marittime meridionali che trasportavano seta e spezie ai consumatori romani. È stato un caso di globalizzazione precoce. Una volta che il germe ha raggiunto le colonie di roditori che vivevano nei giganteschi magazzini di grano dell’impero, la mortalità era inarrestabile.

La pandemia di peste è stato un evento di sorprendente complessità ecologica. Richiedeva congiunzioni puramente casuali, soprattutto se la diffusione dei roditori serbatoio in Asia centrale è stata innescato dalle massicce eruzioni vulcaniche negli anni precedenti. Ciò vale anche per le conseguenze indesiderate dell’ambiente costruito dall’uomo – come le reti commerciali globali che hanno fatto passare il germe sulle coste romane, o la proliferazione di ratti all’interno dell’impero.

La peste giunse ovunque e uccise circa il 60% della popolazione. Intanto la regione mediterranea pativa inondazioni, inverni rigidi ed estati fredde e improduttive. È difficile immaginare istituzioni civiche in grado di resistere a quel livello di mortalità e degrado ecologico.

In ogni caso una conseguenza indiretta sarà il rallentamento e poi la fine del disegno militare di riconquista della penisola elaborato a Costantinopoli, con conseguenze storiche inimmaginabili. L’occupazione bizantina ne sarà indebolita, rivelandosi effimera e prestando ben presto il fianco al successivo arrivo dei longobardi. L’impero romano d’Occidente era finito per sempre.

LE VARIAZIONI DEL CLIMA E LE INVASIONI BARBARICHE

Storici e archeologi hanno sempre discusso se le condizioni climatiche abbiano avuto a che fare anche con le invasioni barbariche. Oltre le frontiere romane orientali, in Asia centrale, vivevano diverse popolazioni nomadi. La loro espansione aveva interferito e interferiva con la vita degli imperi stanziali dell’Eurasia. La pastorizia, importante parte della loro economia, li rendeva particolarmente sensibili alle fluttuazioni delle precipitazioni e del clima. Un evento determinante per la discesa di queste popolazioni verso i confini dell’Impero fu la grave siccità del quarto secolo che durò quasi 40 anni. Fu una delle peggiori degli ultimi 2000 anni, cominciata nel 338 d.C. e terminata nel 377.

Tale contesto di grande sofferenza e penuria di cibo mise in moto un effetto domino che finì per portare i barbari alle porte di Roma. Gli Unni lasciarono le pianure dell’Asia centrale alla ricerca di nuovi pascoli e luoghi da depredare. Le fonti storiche indicano che questi raggiunsero le rive del Don nel 370 d.C. e lo attraversarono cinque anni più tardi, comparendo sul Mar Nero, dove assoggettarono gli Ostrogoti (Goti orientali). A loro volta i Visigoti (Goti occidentali), non accettando il dominio degli Unni, varcarono il Danubio stabilendosi in territorio romano.

Battaglia di Adrianopoli, 378 d.C. L’imperatore romano Valente tenta di sfuggire al disastro, ma viene poi ucciso dai Goti quando viene circondato. Dipinto di Giuseppe Rava.

Questo innescò una inevitabile conflittualità che si sarebbe trascinata nel tempo culminando nella battaglia di Adrianopoli del 378 d.C., con la sconfitta dell’imperatore d’Oriente Valente. Adrianopoli rappresentò la più cocente disfatta romana dai tempi di Annibale, quasi 600 anni prima, con perdite devastanti in termini di uomini.

Ciò spingerà altre popolazioni a forzare il limes portando l’attacco al cuore dell’impero ed alla Città Eterna, che finirà per essere saccheggiata dagli stessi Visigoti, questa volta guidati da Alarico nel 410 d.C. Poi giunsero gli Unni che travolsero i soldati romani, e forse furono fermati più che dal crocifisso di papa Leone Magno, proprio da una infezione, cioè dalla paura della malaria che imperversava intorno a Roma. In pochi secoli l’Urbe passerà da un milione di abitanti a poco più che ventimila. Allo stesso modo le terre che affacciano sul Mediterraneo passeranno da una popolazione di 75 milioni di individui a poco più della metà.

NON SOLO L’IMPERO ROMANO…

I Parti. Illustrazione di Angus McBride.

In quel periodo tre importanti civiltà andarono a gambe all’aria: la dinastia degli Han, che scomparve nel 220 d.C., l’impero dei Parti (224) e quella dei Kushana (India nord occidentale, 230 d.C.). Solo la civiltà romana riuscì a rimanere a galla, ma iniziò la terribile crisi del III secolo che assemblò gli ingredienti della decadenza romana, inizialmente dorata, poi rovinosa.

Ci fu anche un’ondata di caldo che colpì tutta la terra fra la metà del IX secolo e il 1100 d.C.: gli effetti furono drammatici sulla dinastia dei Tang in Cina, che cadde rovinosamente dopo tre secoli di successi e stabilità (907 d.C.).

Contemporaneamente, numerose città Maya furono duramente penalizzate da una terribile siccità: non servirono a nulla le loro preghiere agli dèi per invocare la pioggia e i numerosi sacrifici umani documentati da importanti scoperte di ossa di bambini e di donne nei cenote, i pozzi naturali d’acqua nella penisola dello Yucatan.

Ma anche il mondo dei califfati che regnava nelle regioni comprese fra il Maghreb e la Mesopotamia fu fortemente provato dalla siccità. Queste civiltà, che avevano beneficiato di uno sviluppo politico e culturale molto brillante, furono minacciate nella loro esistenza proprio dalla ridotta disponibilità di acqua che compromise in modo drammatico raccolti, bestiame, attività minerarie, con un duro impatto sulla vita quotidiana degli uomini. Disponiamo di prove evidenti: le carovane che attraversavano il nord dell’Africa dovettero modificare i loro percorsi e spostarli verso il sud per trovare oasi che permettessero il proseguimento del viaggio.

Vichinghi a bordo di un Drakkar.

Solo i Vichinghi beneficiarono largamente di questo periodo: le loro terre coperte dalla neve divennero terre verdi (Groenlandia) e gli uomini si lanciarono in una serie di grandi conquiste, invadendo una parte della Gran Bretagna, della Francia (i Normanni), dell’Olanda, del bacino del Volga fino alle terre nere dell’Ucraina da cui i Vichinghi partivano verso il grande sud per procurarsi le spezie che compravano a Baghdad. Senza dimenticare l’invasione della Sicilia dei Normanni…

LA FINE DELL’IMPERO ROMANO: CONCLUSIONI

Tra gli sgoccioli del IV e gli inizi del V secolo, le pressioni delle steppe euroasiatiche spezzarono definitivamente la coesione del rinato impero, fino alla resa della metà occidentale. A Oriente, una rinnovata prosperità dovette confrontarsi col doppio colpo inferto dalla peste bubbonica e della Piccola glaciazione. Ciò che restava dell’Impero Romano si ridusse allo Stato bizantino (o Impero Romano d’Oriente), i cui sopravvissuti si ritrovarono in un mondo scarsamente abitato (shock demografico), impoverito e stretto tra religioni apocalittiche in perenne contrasto, inclusi il Cristianesimo e l’Islam. E mentre i Romani, disorganizzati e malati, soccombevano all’Islam, i contenuti e valori della cultura classica migravano con gli intellettuali verso oriente.

L’Impero bizantino nel 717 circa. Le aree a striscia sono quelle soggette ai saccheggi degli Arabi.

Gli esseri umani plasmano la natura – soprattutto le condizioni ecologiche all’interno delle quali si sviluppa l’evoluzione. Ma la natura rimane cieca alle nostre intenzioni, e altri organismi ed ecosistemi non obbediscono alle nostre regole. Il cambiamento climatico e l’evoluzione delle malattie hanno sempre scombinato le carte in tavola della storia umana. Oggi, tutto viene riproposto in chiave moderna, usando la scienza come nuova religione assoluta: cambiamenti climatici e pandemie, vere o presunte, usate per togliere diritti e dignità al 99 per cento della popolazione planetaria e arricchire sempre di più quel famoso 1 per cento dell’élite globalista e apolide.

La civiltà può morire, perché essa è già morta una volta

Ulrich von Wilamowitz-Moellendorff 1848-1931

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