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Fenomenologia del body shaming. La prospettiva (e i corpi) della storia dell’arte.

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“Se i nostri occhi vedessero le anime invece dei corpi,
quanto sarebbe diversa la nostra idea di bellezza”

(Frida Kahlo)

“Non è bello ciò che è bello, ma è bello ciò che piace” dice un proverbio tra i più noti, pronunciati e utilizzati, soprattutto quando si vuole rivendicare il diritto di far valere il proprio gusto personale. Una sorta di enunciato estetico dalla genuinità tipica di tutto ciò che rientra nell’ambito popolare, con matrice e finalità anche democratica: sembrerebbe che dinanzi all’espressione e alla ricerca della bellezza, nessuno possa essere criticabile e/o censurabile. In teoria. 
In pratica pare che le cose non vadano così: l’espressione del proprio gusto – e quindi della propria opinione – lascia spesso posto a un inquietante e insano diritto a quello che si crede essere una sorta di facoltà di giudizio, che invece altro non è che critica feroce, denigrazione, calunnia, volontà di annientare dignità e valore della cosa o della persona che si sta “giudicando”. Una tendenza, questa, che accomuna gli esseri umani di qualsiasi epoca, luogo e cultura, e che si estrinseca in particolar modo nei confronti di altri esseri umani. Se, come dice il proverbio, “è bello ciò che piace” – tesi che, nella sua semplicità, trova un’aulica origine nella definizione che si trova nella Summa Theologiae di Tommaso d’Aquino, secondo cui il bello è “ciò che, quando viene percepito, piace” – perché ci si sente in diritto di decretare come “non bello” – e quindi indegno – ciò che non piace? 

Il giudizio del corpo 

Il concetto di bello e il suo contrario – la cui denominazione, restando in ambito popolare, sarebbe quella di “brutto” – entrano così a gamba tesissima quando a essere sotto giudizio è il corpo (naturalmente quello degli altri): il nostro involucro, ciò che ci contraddistingue, ci rende riconoscibili, lo strumento attraverso cui entriamo in relazione con il mondo e le persone, ci esprimiamo e creiamo, prendiamo posizione politica, ci concediamo e opponiamo, riceviamo e diamo piacere, facciamo rivoluzioni. Allora perché i corpi – ovvero le persone – diventano bersaglio di critiche che spesso sfociano in atti di violenza psicologica e fisica? 

Venere di Willendorf.

La definizione di “body shaming” 

Il body shaming, ovvero la pratica di offendere qualcuna o qualcuno per il proprio aspetto fisico, è un fenomeno che negli ultimi anni sta assistendo a una preoccupante impennata, anche e soprattutto a causa dei social media: questi, infatti, sono le piattaforme in cui il body shaming trova i suoi principali strumenti di diffusione, colpendo persone di ogni genere ed età. Come sottolineato da Save the Children in un articolo pubblicato il 6 ottobre 2023 dal titolo Body shaming, significato e l’impatto dei social media, il body shaming è “una forma di violenza che sfrutta l’insicurezza corporea (la sensazione di disagio o insoddisfazione riguardo al proprio aspetto fisico) e assume spesso le forme del bullismo/cyberbullismo o dell’hate speech legati all’aspetto fisico. Il body shaming può diventare anche una manifestazione della violenza di genere, circostanza che rende bambine e ragazze ampliamente esposte a offese e aggressioni basate su commenti negativi relativi al loro corpo: il body shaming è parte di una cultura che promuove la disuguaglianza di genere e contribuisce a una mentalità sessista”.

Il body shaming e i canoni estetici 

Alla base di questo fenomeno sarebbe dunque la convinzione diffusa che un corpo non può essere considerato “bello” o “conforme” se non risponde a determinati canoni, ovvero a sistemi di regole che riguardano elementi e caratteristiche propri di qualcuno o di qualcosa considerato bello. Canoni e definizioni del concetto di bello sono tra i temi maggiormente trattati da filosofi e pensatori di tutti i tempi, contribuendo alla creazione di numerosissime e articolate pagine di storia di teoria dell’estetica. A partire da Platone, che nel Simposio sottolineava come Bello e Bene (ovvero l’etica) fossero la stessa cosa, anche se poi in ambito artistico i Greci seguissero pedissequamente il Κανών, ovvero il trattato scritto dallo scultore Policleto sulle proporzioni dell’anatomia umana, che devono basarsi sulla simmetria. Teorie, queste, enfatizzate nel Rinascimento da Leon Battista Alberti, che nel trattato De re aedificatoria (1452) definisce il bello come “certo consenso e concordantia delle parti”, sebbene facesse riferimento all’ambito architettonico: il canone della simmetria, anche in questo caso, continua a guidare la visione estetica più diffusa. Tale visione “pratica” è innalzata a una sfera “ideale” da Leonardo da Vinci, che con il suo Uomo Vitruviano (1490) rappresenta le proporzioni ideali del corpo umano, le cui armonia e perfezione sono dettate anche da una componente spirituale che lo avvicina molto alla filosofia platonica.  

Leonardo da Vinci, Le proporzioni del corpo umano secondo Vitruvio (Uomo vitruviano) (1490 circa) – Venezia, Gallerie dell’Accademia, Gabinetto dei Disegni e Stampe.

La storia dell’arte come veicolo di body shaming 

Insistendo ancora in ambito figurativo, vale la pena forzare una riflessione: se le opere d’arte possono essere considerate i mass e social media di una volta (e forse tuttora lo sono, in diversa maniera), attraverso di esse allora sono stati veicolati modelli di bellezza che hanno determinato anche le correnti del gusto e le conseguenti occasioni di paragone. Ancora oggi, quando si vogliono enfatizzare la grazia e l’avvenenza di un corpo femminile, e la virilità e il vigore di un corpo maschile, le esclamazioni più frequenti sono: “sembra la Venere di Botticelli!”“somiglia a un Bronzo di Riace!”. Anche l’arte ha dunque contribuito alla diffusione di modelli di bellezza ideale, forse realistica, ma non reale. Gli stessi modelli irreali che oggi circolano sui social media, e i cui canoni sono determinati dall’utilizzo di filtri, effetti di vario tipo, tool di imbellettatura e Intelligenza Artificiale. Un quadro, questo, che oggi porta molti giovani a subire “pressioni sociali derivanti dalla diffusione di un’idea irreale di corpo perfetto a cui conformarsi (soprattutto nel caso di ragazze e bambine)”, continuiamo a leggere sul sito di Save the Children. “Diffusione a cui tutti i media, non solo i social, contribuiscono, in maniera quasi inscalfibile, nonostante campagne di sensibilizzazione e una diffusione di una cultura più sensibile e volta al contrasto degli stereotipi”

L’arte e la rappresentazione del corpo non conforme 

Eppure, andando a ricercare nello sterminato repertorio della storia dell’arte, ci rendiamo conto che sono tantissime le rappresentazioni di corpi che oggi sono considerati dai più “non belli” e “non conformi”, relativamente ai canoni e ai modelli che abbiamo come riferimento e che hanno determinato la nostra struttura di pensiero e di giudizio. Nell’epoca in cui quelle raffigurazioni sono sorte, però, esse rappresentavano ideali, canoni e gusti del loro tempo, facendosi portavoce anche di simbologie e messaggi dal più ampio e complesso significato. Ha un aspetto decisamente diverso rispetto alla celeberrima Venere di Botticelli la Venere di Willendorf, piccola statua in pietra calcarea risalente al 30.000-25.000 a.C. (e conservata al Naturhistorisches Museum di Vienna) che rappresenta una donna con vulva, seno e fianchi molto pronunciati, caratteristiche che la ricondurrebbero ai culti della Madre Terra, come simbolo di fertilità e abbondanza. Nel Paleolitico era dunque questo l’ideale di bellezza femminile; oggi una donna con queste peculiarità sarebbe bersaglio di body shaming online e offline. 
Forzando ancora questi concetti e facendo un volo pindarico formale e temporale, l’ideale di magrezza tanto osannato in età contemporanea viene messo sotto accusa nel 2007 durante la Milano Fashion Week: il fotografo Oliviero Toscani firma per il marchio Nolita una campagna pubblicitaria in cui a essere protagonista è Isabelle Caro, modella affetta da anoressia (morta nel 2010). Un corpo scheletrico, di soli 31 chili, nudo, che non nasconde i segni della malattia, anzi li evidenzia: anche Caro è una Venere, molto lontana da quelle di Willendorf e di Botticelli, ma come queste è un’icona del suo tempo. “Mi sono nascosta e coperta per troppo tempo: adesso voglio mostrarmi senza paura, anche se so che il mio corpo ripugna”, dichiarava Caro. “Le sofferenze fisiche e psicologiche che ho subito hanno un senso solo se possono essere d’aiuto a chi è caduto nella trappola da cui io sto cercando di uscire”. Un’immagine cruda, che ribalta iconografie e canoni di ogni tempo ed epoca, spingendoci a metterle in discussione: la pressione psicologica che porta tantissime persone ad avere dubbi sul proprio aspetto fisico per via di stereotipi imposti da cultura, società, moda, mass e social media è una piaga da affrontare e combattere, dal punto di vista culturale e anche politico

Il ruolo dei mass e social media nella diffusione del body shaming 

Gli strumenti di comunicazione di oggi, soprattutto i social network, rappresentano il terreno fertile per la diffusione del fenomeno del body shaming. Odio gratuito che colpisce tutti, dai bambini e ragazzi bullizzati nelle scuole e sui propri profili social fino ai personaggi noti e anche meno noti che però lo diventano proprio perché colpiti dagli haters. Ricordiamo la vicenda di Armine Harutyunyan, modella di origini armene lanciata da Gucci che nel 2020 è stata al centro di un acceso dibattito per via dei tratti del suo volto non convenzionali rispetto ai canoni attuali (o classici?): naso adunco, viso molto affilato, sopracciglia folte. “La modella brutta di Gucci” viene definita, ma in un’intervista rilasciata ai tempi degli attacchi ricevuti, Harutyunyan ha risposto: “Credo che le persone siano spaventate da tutto quello che è diverso. A parole è facile essere aperti al nuovo, ma poi quando ci si trovano davanti non lo capiscono, non sanno come reagire, e allora attaccano. Per questo non vale la pena di preoccuparsi troppo di loro”
Impossibile da dimenticare poi il polverone mediatico che ha colpito Imane Khelif, pugile algerina che ha vinto la medaglia d’oro pesi welter femminili alle ultime Olimpiadi di Parigi. La causa che ha scaturito episodi di body shaming e odio nei confronti della sportiva sarebbe il livello “alto” del suo testosterone, comunque considerato dal Comitato Olimpico Internazionale idoneo per la competizione. Ma non dall’opinione pubblica: Khelif è stata definita “uomo”, “trans” (anche da un ministro della Repubblica Italiana), ed è stata oggetto di frasi e allusioni volgari di ogni sorta. Una degenerazione che ha portato la Procura di Parigi ad avviare un’indagine per “molestie informatiche a causa del genere, insulto pubblico a causa del genere, provocazione pubblica alla discriminazione e insulto pubblico a causa dell’origine”

Cosa è la bellezza? 

Dal percorso intrapreso finora, emerge quindi come ogni epoca abbia avuto i propri ideali di bellezza. Ma chi li ha stabiliti? Chi decide cosa è bello e cosa non lo è? A queste domande possiamo provare a rispondere consultando le teorie di Pierre Bordieu, sociologo francese tra i più influenti della seconda metà del Novecento. Nel 1979 scrive La Distinction. Critique sociale du jugement (La Distinzione. Critica sociale del gusto), saggio nato da una ricerca condotta negli Anni Sessanta sui gusti e le preferenze di consumo dei francesi, coinvolgendo diversi target sociali. Un’analisi complessa, dai risvolti antropologici rivelatori da cui possiamo trarre concetti interessati ai fini della nostra trattazione. La teoria del consumo elaborata da Bordieu è implicitamente anche una teoria dell’estetica, basata su diversi concetti di “capitale”, tra cui quello “economico” (beni materiali) e “culturale” (istruzione). Da entrambi dipenderebbero gusti estetici, preferenze di consumo e stili di vita di persone appartenenti alle diverse classi sociali, provocando inevitabili discrepanze: chi dispone di un capitale inferiore è portato ad accettare il gusto e la visione di chi è dotato di capitale superiore; questi ultimi, quindi, in quanto “dominanti”, eserciterebbero una forma di “violenza simbolica” – ovvero un’imposizione della propria visione del mondo, e quindi del gusto – nei confronti dei “dominati”. Una forma di violenza “dolce”, la definisce Bordieu, che porterebbe di conseguenza anche alla determinazione di ciò che è bello e di ciò che non lo è. 
È tutta una questione di status symbol allora, di stereotipi cui ispirarsi e conformarsi, e se non si può o non si è interessati a spingersi nel marasma dell’omologazione, il rischio che si corre è lo shaming, di qualsiasi natura esso sia. La strada da percorrere è invece quella che prevede nuovi valori, di natura ideale, sociale ed estetica, e i corpi sono – o devono essere – immagine e strumento di cambiamento. Anche perché, a voler inseguire a tutti i costi un’idea di bellezza più effimera che reale, il rischio cui si può incorrere è quello prospettato dallo scrittore e commediografo britannico William Somerset Maugham nel suo romanzo Cakes and Ale (1930; in italiano noto con il titolo Lo scheletro nell’armadio): “Il bello è un vicolo cieco. È la cima di una montagna che, una volta raggiunta, non conduce in nessun luogo”

Desirée Maida 

Fonte: artribune.com

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