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giovedì, Gennaio 9, 2025
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SITI ARCHEOLOGICI DISTRUTTI: QUANDO LA GUERRA CANCELLA LA MEMORIA.

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giovedì, Gennaio 9, 2025

Abbiamo a che fare con dei barbari (…) con cui è impossibile ogni mediazione politica (…). Vogliono la cancellazione della memoria, vogliono incutere terrore, con l’obiettivo di azzerare la cultura (…). Dove mancano cultura e conoscenza, dove manca la memoria, non c’è possibilità di coscienza e di sviluppo. E questo è ciò che loro vogliono.

Giovanni Puglisi, Presidente emerito della Commissione italiana dell’UNESCO.

Si potrebbe obiettare che la perdita di vite umane non sia paragonabile a quella dei monumenti. In realtà, sono due esiti dello stesso odio e disprezzo del vivere civile, gestiti con la medesima determinazione e ferocia. Per i beni archeologici, le immagini satellitari – che certo non si prestano alla spettacolarizzazione mediatica – evidenziano un bilancio pesante di devastazioni e un numero impressionante di scavi clandestini che sono, di fatto, altrettanto distruttivi. Lo smercio sul mercato del collezionismo privato di quanto proveniva da questi saccheggi ha costituito per l’Isis una fonte di finanziamento enorme.

Dei Buddha di Bamiyan e dei magnifici templi di Palmira non rimangono che macerie sbriciolate dalla dinamite e dall’ignoranza fanatica che di religioso ha ben poco. Dei musei iracheni ci rimangono impresse le immagini delle sale devastate dai terroristi che, in piedi su informi blocchi che una volta erano capolavori dell’antichità, inneggiano orgogliosi ad Allah, ispiratore, secondo loro, dello scempio. Scempio che non ha risparmiato neppure i siti islamici perché considerati eretici.

In questo primo articolo del 2025 per la Rubrica “La Stele di Rosetta”, in esclusiva per IQ, andremo a vedere quali gioielli dell’antichità sono andati perduti per sempre, e quali invece solo danneggiati. Una sezione a parte l’abbiamo voluta doverosamente dedicare alla figura del Dottor Khaled al-Asaad, l’archeologo che, nonostante le torture, si rifiutò di rivelare ai terroristi dove aveva nascosto i tesori di Palmira e fu per questo barbaramente assassinato. Parleremo anche delle devastazioni subite dai beni culturali di Gaza, in seguito ai massicci bombardamenti israeliani, con una puntata al sito di Baalbek, in Libano, anch’esso sfiorato dai raid degli aerei con la Stella di Davide. Non potevamo terminare, infine, senza fare un parallelo tra le distruzioni causate dal fanatismo religioso e quelle causate dalla cultura woke, dalla cosiddetta “cancel culture” che, in quanto a cieca ideologia, somiglia molto a quella talebana.

Un articolo sofferto (certe immagini fanno male), ma doveroso al fine di documentare e non dimenticare mai che la luce della conoscenza è sempre insidiata dalle tenebre dell’ignoranza.

INDICE DEI CONTENUTI

I BUDDHA DI BAMIYAN

PALMIRA

LE DISTRUZIONI NEL MUSEO DI MOSUL

LA DISTRUZIONE DI NIMRUD

HATRA

UN ELENCO INTERMINABILE

CANCELLARE IL PASSATO PREISLAMICO

L’IPOCRISIA DEL FANATISMO RELIGIOSO

FURIA ICONOCLASTA, TERRORISMO E DIFFUSIONE MEDIATICA

NULLA DI NUOVO: ANCHE NEL PASSATO…

LE GUERRE: GAZA, LA MEMORIA PERDUTA

LE GUERRE: BAALBEK E TIRO

CONCLUSIONE: IL “DIRITTO” DI DISTRUGGERE

I BUDDHA DI BAMIYAN

Paesaggio culturale e resti archeologici della Valle di Bamiyan (Afghanistan).

Il 12 marzo del 2001 la distruzione da parte dei talebani delle due statue colossali di Buddha scolpite nella roccia tra il III e il V secolo nella valle di Bamiyan in Afghanistan – una testimonianza eccezionale dell’incontro fra tradizione artistica ellenistica e buddhista lungo l’antica Via della seta – ha dato inizio a una nuova fase di attacchi distruttivi al patrimonio culturale.

Chi sono i Talebani
Il termine “talebani” è lo stesso usato per indicare gli studenti delle scuole coraniche in area iranica, incaricati della prima alfabetizzazione, basata su testi sacri islamici. I Talebani sono un’organizzazione politica e militare afghana, a ideologia fondamentalista islamica, presente in Afghanistan e nel confinante Pakistan.

Talebani in Afghanistan.

Sviluppatisi come movimento politico e militare per la difesa dell’Afghanistan nella guerriglia successiva al collasso del governo filo-sovietico, i Talebani sono noti per essersi fatti portatori dell’ideale politico-religioso che vorrebbe recuperare tutto il portato culturale, sociale, giuridico ed economico dell’Islam governando su gran parte dell’Afghanistan (escluse le regioni più a occidente e a settentrione) dal 1996 al 2001. Dal 15 agosto 2021 sono tornati al potere in Afghanistan. Con la loro salita al potere in Afghanistan, i Talebani hanno generato una nuova forma di radicalismo islamico che si è diffusa rapidamente anche oltreconfine, soprattutto in Pakistan. Una volta al potere, i Talebani istituirono la shari’a (legge islamica), proibendo il lavoro femminile ed escludendo le ragazze da ogni forma di istruzione mista. I talebani bandirono inoltre tutte le forme di spettacolo televisivo, immagini, musica e danza, fosse anche in occasione delle tradizionali cerimonie nuziali. Era illegale portare la barba troppo corta o radersi del tutto mentre era severamente punito il tagliare i capelli alla moda “occidentale”. Il gioco d’azzardo fu bollato come stregoneria.

La distruzione dei Buddha
In tale poco rassicurante contesto, i Buddha di Bamiyan furono le prime vittime di una pratica che si sarebbe diffusa a macchia d’olio in Medio Oriente: quella della distruzione dei beni culturali, di siti archeologici sopravvissuti alle tempeste della storia, ma che sono dovuti soccombere al cieco, ignorante, criminale fanatismo religioso.

Buddha di Bamiyan più piccolo dalla base, Afghanistan, 1977.

Le due celebri statue misuravano rispettivamente 38 e 53 metri ed erano state realizzate tra il V e il III secolo a.C. scavando la roccia in due nicchie naturali della montagna. Nel 1934 lo scrittore Robert Byron fece una lunga descrizione nel suo “La via per l’Oxiana” dei Buddha e degli affreschi visibili facendo inoltre delle considerazioni personali sul loro stile Sebbene nel corso dei secoli alcuni regnanti fondamentalisti avessero tentato di abbattere le enormi statue, nessun governo tra i tanti di fede islamica che si succedettero tra il IX e il XX secolo avvertì la necessità di distruggere una testimonianza storico-artistica così unica nel suo genere.
La situazione cambiò radicalmente nei primissimi anni del XXI secolo, quando i fondamentalisti islamici talebani al potere criticarono l’idolatria delle statue e ne decretarono la distruzione. Tale atto era volto al puro annichilimento e svilimento di una cultura e di una religione che non corrispondevano a quella professata dai talebani ed in quanto tali dovevano essere eliminate spiritualmente e cancellate materialmente e visivamente con ogni mezzo a disposizione.

Grande Buddha di Bamiyan.

Ciò che colpì particolarmente fu anche la modalità di distruzione delle sculture: questa fu infatti pianificata scrupolosamente, accuratamente annunciata ai media di tutto il mondo e cinicamente documentata in tutte le sue fasi, dalla preparazione alla detonazione, agli ultimi momenti della triste demolizione, assumendo quindi anche un altissimo valore propagandistico.
Nonostante le numerose pressioni del Direttore Generale dell’UNESCO, Kōichirō Matsuura, e del Segretario Generale dell’ONU, Kofi Annan, i quali avevano più volte supplicato i Talebani di riconsiderare la loro terribile decisione, i primi giorni del tragico marzo 2001 giunse il decreto definitivo del Mullah Mohammed Omar. Il decreto fu seguito dalla sistematica e completa demolizione, accompagnata dall’orgoglio (?) e dagli applausi di milioni di fondamentalisti. I due Buddha, che erano sopravvissuti per 1.500 anni, vennero demoliti a colpi di dinamite e cannone dopo quasi un mese di intensi bombardamenti.

Il grande Buddha e la nicchia vuota dopo la sua distruzione.

L’azione fu giustificata con l’intenzione di distruggere idoli, nonostante la plurisecolare e stratificata tradizione islamica di non eliminare tracce di passate culture religiose, specialmente se valide sotto un generale profilo culturale (è il caso dell’Egitto faraonico, greco-romano e tolemaico, della Siria aramaica e nabatea, dell’Iraq, dell’Iran e di molti altri paesi in cui i monumenti religiosi del passato godono di vigile protezione da parte dei governi e dalla stragrande maggioranza delle popolazioni).
Il 19 aprile 2004, durante un’intervista ad un giornale pakistano, il Mullah Mohammed Omar dichiarò: “Io non volevo distruggere i Buddha di Bamiyan. Alcuni stranieri vennero da me e dissero che avrebbero voluto restaurare le statue che erano state lievemente danneggiate a causa delle piogge. Questo mi scandalizzò. Pensai “questa gente insensibile non ha riguardo delle migliaia di esseri umani che muoiono di fame, ma sono così preoccupati per oggetti inanimati come i Buddha”. Questo era estremamente deplorevole, e questa è la ragione per cui ne ho ordinato la distruzione. Fossero venuti per ragioni umanitarie, non ne avrei mai ordinato la distruzione”. Sembra vero, eh?

Una delle nicchie vuote. al suo interno sono ancora visibili i contorni della statua.

In realtà la distruzione delle statue del Buddha a Bamiyan sembra ricollegabile alle forti polemiche col mondo occidentale (particolarmente attento ai valori dell’arte, sacra o profana) e alle tensioni derivanti dalla politica dell’ONU che cercava di sradicare la produzione del papavero e dell’oppio che ne derivava in Afghanistan, danneggiando vistosamente le finanze dei talebani che dal traffico dell’oppio traevano cospicui guadagni.

Questo crimine fu uno dei primi atti perpetrati dal terrorismo nei confronti dei beni culturali suscitando scalpore e profonda indignazione tra gli Stati e all’interno dell’opinione pubblica e facendo catalizzare una volta per tutte l’attenzione della Comunità internazionale sul sempre più attuale problema della distruzione intenzionale del patrimonio culturale.

PALMIRA

Il sito di Palmira.

Da quando il Califfato dell’ISIS, autoproclamatosi ufficialmente nel giugno 2014, ha fatto il suo esordio negli scenari mediorientali, ma non solo, gli episodi di distruzione intenzionale del patrimonio culturale da questo effettuati non hanno fatto che crescere e diventare sempre più studiati ed orchestrati con metodo. Tali azioni risultavano motivate dall’intenzione, precedentemente dichiarata dallo Stato Islamico, di eliminare gli oggetti religiosi riconducibili al paganesimo o al politeismo in quanto blasfemi. È evidente come il sedicente Stato Islamico si sia reso conto di quanto forte sia l’identificazione di un popolo nel proprio patrimonio culturale, artistico e religioso e di quanto esso rappresenti un ferreo fattore di coesione della comunità a cui appartiene; ed è proprio per questo motivo che sempre più spesso si tende a colpire l’identità dell’avversario, distruggendo i simboli in cui esso si riconosce ed aggiungendo così alla sua distruzione materiale, anche e soprattutto quella morale che risulta poi essere di più difficile restaurazione.

L’anfiteatro romano di Palmira usato come luogo delle esecuzioni da parte dell’ISIS (immagine via English Al Arabiya)

Uno dei primissimi atti di violenza portati avanti dallo Stato Islamico ai danni del patrimonio culturale ebbe come teatro la Siria e si trattò della distruzione dell’antica città di Palmira nell’agosto del 2015. Vennero fatti saltare in aria con svariati chili di esplosivo i templi di Baalshamin e di Bel risparmiando il Teatro, che nel luglio era stato anzi usato come scenario del macabro spettacolo della condanna a morte di un gruppo di soldati fedeli al regime di Assad.

La città, nota anche come “sposa del deserto“, fu un centro carovaniero che collegava Oriente e Occidente e visse il suo periodo di massimo splendore tra il I e il III secolo d.C., ma ne troviamo tracce già in documenti assiri del II millennio a.C. Sappiamo che intorno al IV secolo a.C. cadde sotto il dominio dei seleucidi, e vi rimase fino al I secolo a.C.

Veduta aerea di Palmira.

Secondo lo storico Flavio Giuseppe, la città conservò la sua indipendenza anche quando la Siria divenne provincia romana, nel 64 a.C. e fu annessa all’impero solo nel 19 d.C. Vi rimase fino al 268, quando la regina Zenobia (alla quale abbiamo dedicato un articolo: clicca sul link per approfondimenti), dopo l’assassinio del marito Odenato, si autoproclamò “augusta”. Il suo regno duro poco: nel 272 la città era di nuovo in mano ai Romani, che nel 273 l’abbandonarono quasi totalmente. Sotto Diocleziano venne usata come un grande accampamento, ma a partire dal IV secolo le notizie si diradano. Sappiamo che venne conquistata dagli arabi nel 634 e che in seguito cadde definitivamente in rovina.

Il Tempio di Bel

Il Tempio di Bel. Oggi questo splendido edificio non esiste più.

L’edificio era dedicato alla divinità mesopotamica Bel (adorata a Palmira insieme al dio della luna Aglibol e al dio del sole Yarhibol). Il tempio, che costituiva il centro della vita religiosa palmirena, venne consacrato nel 32 d.C. Le sue rovine erano considerate tra le meglio conservate del sito di Palmira, dal 1980 patrimonio dell’umanità dell’UNESCO.

Il tempio di Bel era collocato all’estremità orientale del Grande colonnato di Palmira, che costituiva l’asse monumentale della città.
L’edificio esemplificava una sintesi dello stile architettonico dell’antico vicino oriente da un lato e greco-romano dall’altro. Esso, di forma rettangolare e orientato in direzione nord-sud, era collocato al centro di un grande cortile lastricato
L’articolazione della pianta del tempio era tipica della cultura vicino-orientale per il fatto che l’asse di avvicinamento al tavolo delle offerte era spezzato: in altre parole dopo l’ingresso nella struttura, che avveniva dal lato lungo anziché da quello corto, era necessario girarsi di 90° per trovarsi di fronte al punto focale del culto.

Come doveva apparire il Tempio di Bel.

Il 30 agosto 2015, la Associated Press diffuse la notizia che i terroristi dell’ISIS avevano parzialmente distrutto il tempio con l’esplosivo, citando testimoni oculari. Dal racconto di un residente di Palmira risultava che mattoni e colonne erano sparsi al suolo e che un solo muro era rimasto in piedi. I danni furono confermati anche dall’Osservatorio siriano per i diritti umani. Il responsabile della sovrintendenza generale siriana delle antichità e dei musei, Maamoun Abdulkarim, affermò che nonostante un’esplosione fosse avvenuta all’interno del perimetro del tempio la struttura principale era ancora intatta. Questo rapporto si rivelò tuttavia scorretto quando l’ONU, con un comunicato dell’Istituto delle Nazioni Unite per la formazione e la ricerca, confermò la distruzione del tempio grazie all’impiego di immagini satellitari.

Due foto satellitari dalle quali si nota la totale distruzione del Tempio di Bel.

L’abbattimento del tempio di Bel con trenta tonnellate di esplosivo avveniva una settimana dopo la demolizione da parte dello Stato Islamico del tempio di Baalshamin, sempre a Palmira, la quale era stata svolta con modalità analoghe. In base a quanto era stato precedentemente riferito, l’ISIS aveva sostenuto di non avere intenzione di demolire i monumenti di Palmira, ma che avrebbe distrutto qualunque elemento considerato politeistico.

Il Tempio di Baalshamin

Il Tempio di Baalshamin prima della sua completa distruzione.

Era dedicato alla divinità cananea Baalshamin. Le fasi più antiche della sua storia risalgono al II secolo a.C., ma esso venne ricostruito nel II secolo d.C.: l’altare di fronte alla struttura risale al 115 e il tempio venne consacrato nel 130-131.

L’interno del Tempio.

Un’iscrizione in greco e in palmireno sul supporto di un busto del benefattore del tempio, Male Agrippa, attestava che l’edificio era stato costruito nel 131 d.C. L’iscrizione ricordava anche la visita dell’imperatore romano Adriano a Palmira intorno al 129 Con l’avvento del cristianesimo, nel V secolo, il tempio venne trasformato in una chiesa. Riscoperto da archeologi svizzeri nel 1954-56, il tempio era una delle strutture antiche più complete conservatesi a Palmira.

Parti del tempio vennero danneggiate in qualche misura da alcuni bombardamenti nel 2013, durante la guerra civile siriana. Inoltre, l’angolo sudorientale del muro del tempio venne danneggiato dagli sciacalli, che aprirono due fori in cerca di reperti da rubare.

La distruzione del Tempio di Baalshamin.

Il 23 agosto 2015, i terroristi dello Stato Islamico piazzarono una grande quantità di esplosivo all’interno della struttura, facendolo poi detonare e distruggendo così il tempio. La distruzione del tempio venne annunciata dal responsabile della sovrintendenza generale siriana delle antichità e dei musei Maamoun Abdulkarim. Fotografie della preparazione degli esplosivi, dell’esplosione e dei resti del tempio comparirono sui social media. La distruzione del tempio fu confermata in modo indipendente dal satellite francese Pléiades, che fotografò le macerie alcuni giorni dopo l’esplosione.

L’Arco monumentale di Settimio Severo

L’Arco di Settimio Severo prima della distruzione.

L’Arco monumentale era collocato tra il tratto centrale e il tratto orientale del Grande colonnato di Palmira, in prossimità del tempio di Nebo, nella zona centrale dell’antica città. L’arco venne eretto durante il periodo di massimo splendore della città di Palmira, durante il regno di Settimio Severo (193-211) o, secondo altre fonti, nel 220.
L’Arco monumentale venne distrutto dai terroristi dello Stato Islamico il 5 ottobre 2015.

I resti dell’Arco di Settimio Severo (Credit Maher Al Mounes – AFP – Getty Images).

Quantunque l’Arco monumentale fosse un edificio essenzialmente civile, privo di una destinazione religiosa di per sé, fonti locali dell’Osservatorio siriano per i diritti umani dichiararono che la sua distruzione fu dovuta alla natura considerata “idolatra” delle decorazioni dell’arco.

La notizia della distruzione dell’arco con l’esplosivo fu comunicata inizialmente da Maamoun Abdulkarim, responsabile della sovrintendenza generale siriana delle antichità e dei musei, che citava informatori in Palmira. Da un video diffuso l’8 ottobre 2015 risultava visibile l’entità del danno: delle tre fornici di cui la struttura si componeva solo una delle due laterali, quella più settentrionale, rimaneva in piedi.

Khaled al-Asaad, l’eroico martire di Palmira

Khaled al-Asaad.

La vita e la morte dell’archeologo e traduttore siriano Khaled al-Asaad possono riassumersi in una parola: Palmira. Nato a Tadmor (che in arabo significa “palma” e che in greco divenne Palmira), la città adiacente all’antico sito siriano, il primo gennaio 1932, lavorò per tutta la vita tra le sue rovine. Studiò presso l’università di Damasco, dove si laureò in storia, e nel 1963 fu scelto come direttore del Museo e del sito archeologico di Palmira. Avrebbe ricoperto quella carica per i successivi quarant’anni, nell’arco dei quali lavorò instancabilmente per il riconoscimento del sito archeologico dell’antica città, per la sua tutela e la sua ricostruzione.

Non lesinò sforzi per sviluppare l’istituzione archeologica di Palmira scientificamente, amministrativamente e anche finanziariamente, con il sostegno del governo e delle missioni straniere e congiunte. Fu influenzato dalla citazione di Cicerone che dice: “Ignorare il passato significa rimanere bambini”. A poco a poco emerse il suo interesse nel proteggere e preservare i siti archeologici per le future generazioni come tesori inestimabili.
Nell’arco di quattro decenni collaborò con missioni archeologiche internazionali e portò avanti diversi scavi. In pochi anni, e grazie al suo instancabile contributo, Palmira divenne l’epicentro del panorama culturale siriano, mentre il mondo prendeva coscienza di quel gioiello celato tra le sabbie del deserto siriano.

Khaled al-Asaad aveva ormai 83 anni. Nonostante non dirigesse più il sito archeologico dal 2003 – la carica venne ereditata da suo figlio – al-Asaad continuava instancabilmente a lavorare per la tutela di Palmira e dei suoi tesori. Non abbandonò la città nemmeno quando fu chiaro che questa era entrata nel mirino dello Stato islamico d’Iraq e Siria (ISIS), anzi, nascose in un luogo ancora sconosciuto decine di reperti tra i più preziosi della città. Nel maggio del 2015, quando Tadmor e l’adiacente sito di Palmira caddero sotto il controllo dell’Isis, l’archeologo si trovava ancora lì: nonostante i consigli di amici e colleghi che cercavano di convincerlo ad andare via, egli scelse di rimanere a presidiare la sua città pur consapevole del grave pericolo che ciò comportava.

Khaled al-Asaad prigioniero dei terroristi.

A metà luglio del 2015 fu rapito dai militanti dello Stato Islamico e ripetutamente torturato per quattro settimane allo scopo di farsi rivelare dove avesse nascosto i tesori di Palmira. Il 18 agosto 2015 al-Asaad fu ucciso sulla piazza di fronte al museo della città nuova di Palmira, e in seguito il suo corpo decapitato fu esposto al pubblico, appeso a una colonna oscenamente esibito nella piazza centrale della città con un cartello in cui venivano elencati i suoi presunti “crimini”: essere un ” apostata “, rappresentare la Siria alle ” conferenze degli infedeli “, servire come “direttore dell’idolatria ” a Palmira, visitare “l’eretico Iran” e comunicare con “un fratello nei servizi di sicurezza siriani”. Pur avendo sempre fatto parte della classe dirigente siriana per il ruolo e la posizione ricoperte, nel solco della tradizione famigliare, il suo brutale assassinio ha suscitato il dispiacere e la condanna di ogni componente della società, sia dei lealisti pro-regime, sia degli oppositori.

Le spoglie di Khaled al-Asaad sarebbero state rinvenute solo nel 2021, nella zona di Kahloul, dieci chilometri a est di Palmira.

Il cippo dedicato a Khaled al-Asaad presso il Giardino dei Giusti di tutto il mondo, a Milano.

Il 18 novembre del 2015, alla presenza del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella venne dedicato un albero e un cippo al grande archeologo, “trucidato dall’ISIS per aver difeso a Palmira il patrimonio archeologico, memoria civile dell’Umanità, mentre il mondo rimaneva inerte”, presso il Giardino dei Giusti di tutto il mondo del Monte Stella, a Milano. Un gesto doveroso verso chi, resistendo alle torture, non ha parlato, portando il segreto nella tomba: l’ultimo atto d’amore di Khaled al-Asaad verso la “sua” Palmira.

LE DISTRUZIONI NEL MUSEO DI MOSUL

L’ISIS ha sempre dato grande risalto alla documentazione e alla circolazione sui mass media delle demolizioni compiute, trasformando così la distruzione stessa delle antichità in uno spettacolo e in un’arma di propaganda.

Nel febbraio del 2015 fu quindi pubblicato un video che mostrava le sale del Museo di Mosul devastate a colpi di mazza dai terroristi islamisti. Furono distrutti alcuni rilievi assiri e le più tarde statue dei sovrani di Hatra, una città-stato governata da principi arabi che sorgeva ai confini tra l’Impero romano e quello partico-sasanide. Furono anche trafugati preziosi reperti assiri di dimensioni contenute e facilmente esportabili all’estero per essere poi venduti sul mercato clandestino dell’arte. Nel video pubblicato e ambientato nel Museo di Mosul, la voce narrante dichiarava: “Queste rovine che sono dietro di me sono idoli e statue che i popoli del passato venerarono al posto di Allah. Il profeta Maometto abbatté gli idoli a mani nude quando giunse alla Mecca. Egli ci ha ordinato di abbattere e distruggere gli idoli e i suoi compagni fecero lo stesso quanto conquistarono queste regioni”.

Uno zelante terrorista mentre sfregia con cura un lamassu, straordinario gioiello del passato.

Nel famigerato filmato si riconoscono anche due colossali tori alati con testa d’uomo, raffigurazioni del lamassu, il genio che vegliava sui portali delle regge assire. Uno era conservato presso il museo, l’altro era ancora collocato in una delle porte dell’antica Ninive. Entrambi sono stati sfregiati a colpi di trapano, più che altro perché, non essendo trasportabili, non avevano valore commerciale.

I proclami dei terroristi a giustificazione dello scempio fatto a Mosul hanno fatto il giro del mondo.

La proibizione delle immagini e la condanna dell’idolatria erano quindi la giustificazione teologica che l’ISIS forniva per la sua campagna iconoclastica. L’obiettivo era però più ampio e ambizioso: distruggendo gli idoli i terroristi avrebbero ripetuto le gesta che l’ISIS stesso attribuiva a Maometto e ai primi califfi. Il fatto che al tempo di costoro i culti degli antichi dèi fossero ancora ben vivi, almeno nella penisola arabica, e che oggi invece si facciano a pezzi reperti e siti musealizzati, privi di fedeli da millenni, non toglieva evidentemente efficacia agli occhi dei destinatari dei video; le immagini delle demolizioni consentivano infatti di proclamare quel ritorno (fittizio) dei tempi dell’Egira che è essenziale per chi asseriva di aver rifondato il califfato.

LA DISTRUZIONE DI NIMRUD

L’opera di pulizia culturale si è realizzata attraverso una serie di micidiali distruzioni compiute dal terrorismo jihadista contro le capitali assire.

Ricostruzione della sala del trono del palazzo di Assurnasirpal II a Nimrud. Incisione a colori del 1853, basata sui disegni di sir Austen Henry Layard Foto: Dagli orti / Art Archive.

Nimrud è il nome, attribuito nell’ottavo secolo dagli Arabi, a un’antica città assira situata a sud di Ninive, sul fiume Tigri. Il nome originale della città era Kalhu o Kalkhu. La città viene nominata anche nella Bibbia con il nome di Calah (Kalakh). La città fu fondata nel XIII secolo a.C. da Salmanassar I e divenne capitale dell’impero assiro verso l’880 a.C. sotto Assurnasirpal II, che vi edificò il proprio palazzo reale, inaugurato secondo le descrizioni nell’860 a.C. Rimase capitale per circa un secolo, fino a quando Sargon II decise di edificare una nuova capitale, Dur-Sharrukin.
Nella propria massima estensione misurava 360 ettari, ma con la caduta dell’impero neo-assiro, attorno al 610 a.C., venne abbandonata.

Nel marzo 2015 il ministero iracheno del Turismo e delle Antichità ha denunciato la pressoché completa distruzione del sito archeologico per mano dei terroristi dello Stato Islamico. Nell’aprile proprio lo Stato Islamico ha diffuso il video della sua distruzione Con picconi e frese, i terroristi hanno devastato statue e bassorilievi, mentre un bulldozer ha ridotto in polvere una porzione dell’area archeologica.

Distruzione pressoché totale di Nimrud.

La città fu stata liberata dalle truppe irachene nel novembre 2016. Ad una prima ricognizione sembra che ne sia stato distrutto il 95%, in particolare sarebbero stati distrutti o asportati i leoni alati, simili a quelli del British Museum, posti a fianco di una delle porte rimasta in piedi.

Nell’aprile 2015 venne fatto esplodere il palazzo di Assurnasirpal: con questo palazzo, forse l’edificio meglio conservato dell’antica Assiria, sono scomparse anche numerose lastre di gesso scolpite a rilievo che decoravano le pareti della grandiosa fabbrica palatina.

HATRA

Uno scorcio delle rovine di Hatra, in Iraq: il grande tempio della città, dedicato al dio del Sole, Shamash
Foto: Vittoriano Rastelli / Corbis / Cordon Press.

Hatra è un’antica città in rovina del Governatorato di Ninawa, nella regione della Jazira, in Iraq, a 80 km a Sud di Mosul. È oggi chiamata al-Ḥaḍr, e si trova nell’antica provincia persiana di Khvarvaran. La città si trova 290 km a nord-ovest di Baghdad.

Venne fondata dalla dinastia seleucide durante il III secolo a.C. Fiorì durante il II e I secolo a.C. come centro commerciale e religioso dell’Impero dei Parti. In seguito la città divenne capitale del primo regno Arabo nella catena di città che andavano da Hatra, a nord-est, attraverso Palmira, Baalbek e Petra, a sud-ovest. La regione controllata da Hatra fu il regno di Araba, un regno semi-autonomo ai confini occidentali dell’Impero partico, governato da principi arabi.

Veduta aerea di Hatra.

Hatra divenne un’importante città fortificata di frontiera che resistette a ripetuti attacchi portati dall’Impero Romano, giocando un importante ruolo durante la seconda guerra partica. Respinse l’assedio di Traiano (116/117) e quello di Settimio Severo (197/198). Hatra riuscì a resistere ad un attacco sasanide, del re Ardashir I, nel corso delle sue prime campagne in Mesopotamia contro l’Impero romano del 229, ma cadde definitivamente sotto un secondo assalto sasanide nel 240 e fu rasa al suolo. Di qui passò infine lo sconfitto esercito di Gioviano dopo la firma della disastrosa pace coi Sassanidi nel 363.

Il piano di azione proposto dallo Stato Islamico, il quale occupò l’area verso la metà del 2010, fu motivo di rischio per la città di Hatra. All’inizio del 2015 i terroristi annunciarono la loro intenzione di distruggere molti reperti della città in quanto erano un’offesa per la loro fede. Il 7 marzo 2015 vennero diffuse notizie che l’esercito islamico aveva iniziato la distruzione della città. Il 4 aprile furono distrutte diverse statue appartenenti alla città. La reale entità dei danni non è stata resa nota fino a quando Hatra venne stata riconquistata dalla forza paramilitare di mobilitazione popolare nel 2017 ed emersero le foto.

Le sculture dell’antica Hatra distrutte dai terroristi dell’ISIS.

Un giornalista dell’agenzia di stampa spagnola Efe, visitando il sito nell’immediato, riferì di aver trovato molte statue distrutte, edifici che erano stati incendiati, i corpi carbonizzati di diversi militanti e mortai immagazzinati nei cortili. C’erano anche prove di saccheggi.

Ma Layla Salih, responsabile delle antichità per la provincia di Ninive, ha affermato che la distruzione “non è paragonabile a quella avvenuta in altri siti archeologici” in Iraq.
Anche un comandante della Mobilitazione Popolare ha descritto i danni come relativamente lievi.
Il muro esterno è stato danneggiato, i colpi sparati dai terroristi hanno lasciato dei buchi in alcuni edifici, due grandi sale dell’antico palazzo sono state colpite da incendi e le schegge dei proiettili hanno colpito la parte occidentale.

UN ELENCO INTERMINABILE

Se la cancellazione di edifici e sculture assire e di età partica ha dominato l’attenzione internazionale, minor copertura mediatica è stata riservata alla distruzione di monumenti medievali unici, la cui scomparsa è altrettanto grave poiché si tratta di edifici spesso poco studiati e documentati. Le demolizioni del mausoleo dell’imam Yahya Ibn alQasim e della tomba dell’imam Ibn Hassan Aoun alDin a Mosul (entrambi del 13° sec.) e del mausoleo dell’imam Dur a Samarra (11° sec.) hanno cancellato alcuni degli esempi più antichi e celebri dell’architettura islamica irachena.

Anche i monumenti cristiani medievali della regione non sono sfuggiti alla furia iconoclasta dell’ISIS, che nel marzo del 2015 ha fatto esplodere il monastero siriaco cattolico di Mar Behnam e Mart Sarah a nordest di Nimrud.

Il 21 agosto 2015 i terroristi dello Stato Islamico hanno distrutto il Monastero di Mar Elian risalente al quinto secolo d.C. e importantissima testimonianza della religione cristiana in Siria. Era dedicato a San Ellian, ucciso dai Romani nel 285, la cui tomba si trovava all’interno del monastero prima di essere profanata dai miliziani fondamentalisti che ne hanno rimosso il corpo (ritrovato l’anno dopo) per poi distruggere il complesso a colpi di bulldozer.

Aleppo

Anche la città di Aleppo, dichiarata dall’UNESCO patrimonio mondiale dell’umanità nel 1986, ha subito ingenti danni al suo patrimonio storico e artistico. Nel 2012 la città è stata teatro degli scontri tra il governo di Assad e i ribelli.

La cittadella di Aleppo fotografata nel 1993. Negli ultimi anni il sito ha subito danni incalcolabili. Fotografia: Frederic Soltan/Sygma/Corbis

Mentre la parte occidentale della città è sempre rimasta sotto il controllo del presidente, la parte orientale era stata occupata dai ribelli. Pertanto si è rivelata essere quella che più ha sofferto i bombardamenti dell’esercito governativo, il maggior numero di morti e di edifici architettonici e civili distrutti.

Tra i monumenti della città seriamente danneggiati si ricordano in particolare la Grande Moschea degli Omayyadi, costruita nel 715 d.C. e oggi completamente distrutta. Nel 2012 sono state coinvolte dalla guerra sia l’antica città di Aleppo che la cittadella, la fortezza militare che domina il centro storico: la prima è stata controllata dai ribelli e non riporta particolari danni, mentre la seconda, controllata dalle forze di Assad ha riportato i danni maggiori. Altra testimonianza del passato di Aleppo andata distrutta è la Chiesa di Shibani, risalente al dodicesimo secolo.

Damasco

La Grande Moschea Omayyade di Damasco.

Quanto alla Grande Moschea Omayyade di Damasco questa non ha subito la sorte toccata all’omonima moschea di Aleppo, ovvero la completa distruzione, ma ne è stato danneggiato il grande mosaico che orna la facciata principale a causa dei colpi di mortaio inferti dalle truppe ribelli. La Grande Moschea di Damasco è un edificio molto importante sia per la religione cattolica che per la religione musulmana: sono infatti presenti nella moschea sia un minareto dedicato a Gesù, sia una cappella interna che secondo la leggenda conterebbe la testa di San Giovanni Battista (riconosciuto dalla religione islamica come il Profeta Yahya).

CANCELLARE IL PASSATO PREISLAMICO

Cartina con indicati tutti i siti archeologici danneggiati.

Ibrahim al Kindi, un religioso del Kuwait, tra i più affermati predicatori mediorientali, lanciò una fatwa sul patrimonio culturale dell’Egitto, piramidi e Sfinge per primi. Secondo la versione di al Kindi, infatti, non sarebbe corretto per l’Islam lasciare intatti i monumenti rappresentanti le antiche divinità egiziane basandosi sul fatto che — come in molti affermano in loro difesa — i discepoli di Maometto entrati in passato in Egitto, non le hanno distrutte. Piramidi e Sfinge, sarebbero state sepolte, all’epoca, sotto terra, e sarebbero riemerse solo negli ultimi secoli per via dei venti che le avrebbero riportate alla luce. Secondo i proclami di al Kindi, insomma, le piramidi e la Sfinge, monumenti che rappresentano un patrimonio inestimabile della cultura umana, oltre che mete turistiche di primaria importanza per le casse dello Stato egiziano, andrebbero distrutte, poiché simbolo di apostasia; così come in passato è stato fatto in Egitto con altri templi e statue che rappresentavano gli dei dell’antico popolo.

La demolizione di vestigia e reperti assiri, romani e partici ha lo scopo di cancellare completamente il passato preislamico e la memoria stessa della presenza di altri credi religiosi nella regione e infatti procede in parallelo con le persecuzioni dei fedeli di altre confessioni, come i cristiani assiri, gli sciiti o gli yazidi. Si colpiscono inoltre i siti archeologici riscoperti negli ultimi due secoli da archeologi in maggioranza occidentali, considerati colpevoli di aver fatto riemergere gli idoli sepolti da millenni. Questi siti sono anche quelli più visitati dai turisti, anch’essi perlopiù occidentali e fonte di introiti in valuta pregiata, importanti per la sopravvivenza dei regimi contro cui l’ISIS combatte. Insomma, la proclamata lotta all’idolatria nasconde un’ampia gamma di ragioni ideologiche e politiche contingenti.

L’IPOCRISIA DEL FANATISMO RELIGIOSO

Se da una parte, nella sua fanatica visione salafita dell’islam il Califfato distruggeva pubblicamente i siti archeologici, i monumenti degli eretici e degli apostati per annientare, assieme alle comunità etniche locali, anche la loro storia e identità culturale, presentandosi come custode fedele dell’ortodossia islamica, dall’altra concedeva di nascosto “permessi” di scavo ai “tombaroli” per finanziarsi, vendendo sul mercato internazionale dell’arte i reperti contrabbandati all’estero dai trafficanti clandestini.

Una rete di tombaroli, intermediari, antiquari e consulenti faceva (e sicuramente fa ancora) arrivare tesori rubati in Siria e Iraq, attraverso la Turchia e il Libano, nei paesi in cui il mercato dell’arte è più fiorente, come la Svizzera, la Gran Bretagna, la Germania, gli Stati Uniti, il Giappone e i porti franchi degli Emirati Arabi e di Hong Kong, le cui legislazioni sono tradizionalmente poco attenti alle “provenienze” degli oggetti d’arte. Qui mercanti senza scrupoli sono in grado di ‘ripulire’ i reperti antichi, dotandoli di documenti che ne certifichino l’appartenenza a collezioni private formatesi prima che entrassero in vigore le leggi contro il traffico clandestino di reperti archeologici, e di rifornire ogni tipo di acquirente, dal ricco collezionista ai musei fino al collezionista comune, che può acquistare monete e ceramiche provenienti dall’antica Mesopotamia anche su eBay, il sito online dove si acquista e si vende di tutto.

Siria. Foto satellitari del Tempio di Baalshamin a Palmira, prima e dopo la distruzione, maggio-agosto 2015 (Protect Syrian Archaeology).

Fotografie satellitari hanno dimostrato che prima delle demolizioni pubbliche intere aree di Palmira erano state devastate da scavatori clandestini che hanno causato danni ingenti al patrimonio culturale locale, non solo depauperandolo, ma anche perché, per facilitare trasporto e vendita, le statue vengono di solito mutilate per portare via solo le teste, meno pesanti e con molto più mercato.

FURIA ICONOCLASTA, TERRORISMO E DIFFUSIONE MEDIATICA

Un terrorista distrugge le opere del museo di Mosul. ©AFP.

La furia iconoclasta e distruttrice delle manifestazioni artistiche, culturali e religiose di una civiltà non è un prodotto della nostra moderna società industriale e globalizzata, tali eventi si sono infatti verificati da sempre, ovunque ed in contesti sempre diversi, seppur con scopi di volta in volta differenti; è però evidente come i nuovi avanzamenti tecnici facilitino e rendano più dannosi atti del genere.

Negli ultimi vent’anni il terrorismo ha avuto un ruolo di primo piano in quest’ambito, facendosi fautore di alcuni dei più efferati casi di distruzione intenzionale del patrimonio culturale, casi che, vista anche la loro portata mediatica e propagandistica, hanno sconvolto l’intera comunità internazionale. Nonostante i tentativi di restauro dei vari beni distrutti o gravemente danneggiati, tali atti infliggono alla popolazione e al territorio ferite profonde e difficilmente rimarginabili, colpendo le manifestazioni tangibili della loro più pura tradizione culturale e spirituale che sarà difficilmente ricostituibile.

Distruzione di una scultura in un edificio storico di Hatra (Iraq).

Vale quindi la pena chiedersi per quale motivo i beni culturali del “nemico” siano sempre più spesso oggetto di distruzione e saccheggio in caso di guerra e terrorismo.
L’identificazione di un popolo con il proprio patrimonio culturale è molto forte, e si rivela un importante fattore di coesione della comunità. Ma proprio per questo il patrimonio culturale può anche dividere, e trasformarsi in un obiettivo pagante per chi, di quella comunità, si considera nemico: colpisce l’identità dell’avversario distruggendo i simboli in cui si riconosce, aggiungendo alla sua distruzione materiale anche quella morale.
Distruzione che ha mostrato un forte incremento negli ultimi anni, perché gli atti terroristici sono a volte l’alternativa più efficace per combattere eserciti più ricchi e potenti.

La bandiera dei terroristi dell’ISIS sventola profanante sulle rovine di Palmira.

L’attacco a un bene culturale, inoltre, presenta molti vantaggi: è un forte strumento di guerra psicologica; comporta, a determinati livelli, una certa facilità di esecuzione e costi relativamente ridotti a fronte dei risultati che si possono ottenere; dà la certezza di colpire la memoria storica dell’avversario; può coinvolgere anche visitatori e turisti e, soprattutto, ha un forte riscontro mediatico. Colpire senza pietà per affossare l’industria del turismo, vitale per le casse di diversi Paesi arabi e musulmani. Colpire per “decontaminare” l’Islam dalla presenza occidentale: è l’”opa” sanguinaria lanciata dal “Califfato” sul mondo libero.

In generale, il terrorismo si definisce come uno strumento o una tattica di alcuni gruppi per raggiungere determinati scopi attraverso la violenza. Le finalità sono varie: un atto terroristico può infatti servire a propagandare e imporre una causa politica o religiosa, a esercitare una pressione politica, a estorcere denaro o benefici. Uno dei mezzi per ottenere questi scopi, come sottolinea la stessa parola, è quello di diffondere il terrore.
Questo implica che l’obiettivo diretto dell’attacco non necessariamente è il vero obiettivo. Spesso il vero obiettivo è indiretto: si colpisce qualcuno o qualcosa per attirare l’attenzione e per spaventare gli “spettatori”. L’atto violento non è sempre, o non tanto, contro le persone o gli oggetti che sono colpiti, quanto contro le persone che assistono.

La comunicazione è quindi fondamentale per il terrorismo, e i mass media, inevitabilmente, danno un grande apporto alla causa del terrorismo. Attraverso la comunicazione, un gruppo terrorista mostra i propri successi, afferma la sua influenza sul territorio e ottiene la visibilità necessaria per rivolgersi alle masse e aumentare la propria capacità di reclutamento di nuovi adepti. Il web, ovviamente, amplifica tutte queste possibilità.
La distruzione del patrimonio culturale si presta molto bene a questo scopo: in poco tempo questo genere di notizie fa il giro del mondo, tutti ne parlano. Il patrimonio culturale può quindi funzionare come obiettivo diretto, per eliminare le tracce culturali del nemico; e come obiettivo indiretto, per richiamare l’attenzione, ottenere visibilità e spazio sui mass media.

NULLA DI NUOVO: ANCHE NEL PASSATO…

…distruzioni di opere d’arte sono state giustificate pubblicamente da motivazioni religiose: basti pensare all’iconoclastia, che divise il mondo bizantino tra VIII e IX secolo, oppure al periodo della Riforma nel XVI secolo, quando furono prese di mira diverse immagini cattoliche. Ma il confronto più interessante con quanto accade oggi si osserva nella demolizione di edifici di culto e statue pagane che interessò soprattutto la parte orientale dell’Impero romano tra IV e V secolo.

Il leone di Allat. Attualmente distrutto.

La coincidenza topografica è talora impressionante: a Palmira furono probabilmente i cristiani a distruggere il tempio di Allat, una divinità locale identificata con Atena, ma la statua di leone che rappresentava il consorte di Allat, riscoperta in pezzi nel tempio nel corso degli scavi moderni, è stata di nuovo smembrata dai militanti dell’ISIS nel 2015.

Queste distruzioni furono denunciate dall’oratore pagano Libanio, il quale scrisse all’imperatore Teodosio nel 386 in difesa dei templi siriani, oggetto di attacchi orchestrati da monaci e vescovi. In realtà gli imperatori romano-cristiani emanarono diversi provvedimenti contro la distruzione dei templi e delle statue pagane, purché i primi fossero chiusi e le seconde non fossero più oggetto di culto.

San Nicola distrugge i templi pagani, affresco nel Monastero di Esphigmenou (Grecia).

L’élite romano-cristiana, abituata a celebrare i grandi artisti greci, non poteva accettare facilmente la distruzione delle loro opere e aveva trovato una “soluzione” trasferendole dai templi, dove erano venerate, ai luoghi pubblici, e nella loro conseguente trasformazione da simulacri in ornamenti delle città, ammirati solo per il loro valore artistico. Lo stesso Costantino e i suoi successori trasferirono a Costantinopoli molti dei capolavori della scultura antica, come lo Zeus Olimpio e l’Atena Parthenos di Fidia o l’Afrodite Cnidia di Prassitele: rotto il legame che avevano con i sacrifici cruenti, queste statue potevano servire per abbellire la capitale cristiana, che si trasformò così in una sorta di museo dell’arte greca. Molte di esse sopravvissero fino al 1204, quando furono i crociati latini a distruggerle per recuperarne i materiali.

L’esempio del Serapeo di Alessandria

I resti dell’antico sito del complesso del Tempio di Serapide ad Alessandria. Iris Fernandez (2009) copyright: 2009 Iris Fernandez

Tuttavia, nelle grandi città orientali alla fine del IV secolo gli attacchi agli antichi dèi prevalsero e, allora come oggi, furono i distruttori stessi a dare un’enorme pubblicità agli effetti delle demolizioni.

Illustrazione della Cronaca universale alessandrina: il vescovo Teofilo di Alessandria in piedi sul Serapeo distrutto dai suoi fanatici seguaci

Lasciamo la parola a Rufino (345-411) che nella sua Storia ecclesiastica (2.23) descrive così la distruzione della statua di culto di Serapide, un’opera di Briasside, avvenuta ad Alessandria nel 391 per volere del vescovo Teofilo: “Così, con colpi ripetuti, ha abbattuto la divinità fatta di fumo e di legno marcio tarlato, che dopo essere stata buttata giù, bruciò così facilmente come legna secca. Dopo che la testa fu strappata dal collo, il modius (il copricapo del dio) fu tirato giù e trascinato via; poi i piedi e le altre membra furono tagliate via a colpi di ascia e squartate e trascinate con l’ausilio di funi e pezzo per pezzo, ciascuno in un luogo diverso della città; così il vecchio rimbambito (Serapide) è stato bruciato fino a farne cenere davanti agli occhi di quell’Alessandria che lo aveva adorato. Ultimo di tutti fu lasciato il busto che fu bruciato nell’anfiteatro”. Non sembra il tono fanatico e trionfante di un terrorista dell’ISIS?

Allestendo questo smembramento pubblico, Teofilo non voleva solo dimostrare che il dio non era in grado di difendere più nemmeno il proprio simulacro, ma aveva anche un obiettivo politico specifico. I vescovi orientali del tempo avevano infatti interesse a mobilitare masse di monaci e fedeli fanatici contro i templi per dimostrare che i funzionari imperiali inviati dalla capitale non riuscivano più a mantenere il controllo dell’ordine pubblico ed eroderne così il potere a proprio vantaggio. Nel 391 Teofilo aveva fatto sapere a Costantinopoli di essere il vero padrone di Alessandria. Anche in questo caso la proclamata lotta all’idolatria ne nascondeva una per il potere di natura strettamente politica. Anche la distruzione dell’arte può essere instrumentum regni.

LE GUERRE: GAZA, LA MEMORIA PERDUTA

Un’immagine ripresa dall’account X (ex Twitter) di un portavoce dell’esercito israeliano mostra la demolizione di alcuni edifici intorno a piazza Palestina, nella città di Gaza. Palestina, 21 dicembre 2023 (IDF, Anadolu/Getty)

Gaza, oggi al centro del terribile conflitto innescato dall’attacco sferrato da Hamas a Israele il 7 ottobre scorso, ha una storia millenaria che ha lasciato sul suo territorio i segni del passaggio delle civiltà che l’hanno dominata: i Cananei, gli Egizi, i Filistei, gli Assiri, i Greci, gli Asmonei, i Romani, i Bizantini, gli Arabi, i Fatimidi, i Crociati, gli Ayubbidi, i Mamelucchi, i Crociati, gli Ottomani, fino agli inglesi (1920-48). Dopo la fondazione dello Stato di Israele, nel 1948, Gaza passò all’Egitto, per essere occupata da Israele nel 1967, e infine attribuita all’Autorità Nazionale Palestinese e ad Hamas a partire dal 2006.

Vista di Gaza dal porto.

Gaza, il cui nome deriva, secondo alcuni, dalla radice semitica “azaz” (forte), e secondo altri invece dalla parola persiana “ganj” (tesoro), è stata per secoli il principale porto di scambio di una delle merci più pregiate del mondo antico: l’incenso, una resina prodotta dall’olibano (Boswellia sacra), una pianta nativa delle regioni meridionali dell’Arabia, portata dalle carovane da lì provenienti. La città serviva anche da snodo dei traffici commerciali tra l’Egitto e il Levante e ha sempre svolto un ruolo importante nelle vicende politiche e militari della regione. Venne anche conquistata da Napoleone durante la Campagna d’Egitto, nel 1799.

L’invasione israeliana nella Striscia ha portato alla distruzione e al danneggiamento di centinaia di edifici e siti archeologici, biblioteche, musei e altri luoghi di rilevanza culturale o storica. Tra i luoghi colpiti si contano archivi, moschee, chiese, cimiteri e musei, veri e propri depositi di conoscenza e identità culturale. Una devastazione condotta in modo sistematico.

Archeologi palestinesi al lavoro su rovine romane e greche a Rafah.

Al 17 settembre 2024, l’UNESCO ha documentato danni a 69 siti di rilevanza culturale, tra cui: 10 siti religiosi, 43 edifici di interesse storico e artistico, due depositi di beni culturali mobili, sei monumenti, un museo e sette siti archeologici. Altri rapporti parlano di circa un centinaio di siti colpiti, mentre funzionari palestinesi riferiscono di oltre 200 luoghi danneggiati o distrutti.

Alcuni dei siti distrutti

Gran parte della Città Vecchia di Gaza, con una storia che supera i 2000 anni, è stata ridotta in macerie dagli attacchi aerei israeliani. Tra i siti distrutti figura la Grande Moschea Omari, edificata nel V secolo.

La Grande Moschea Omari a Gaza danneggiata dai bombardamenti © Reuters.

Un altro edificio distrutto è la Moschea Ibn Uthman, costruita tra il 1400 e il 1430. Anche il Palazzo Pasha, un tempo adibito a museo e costruito a partire dal XII secolo, è stato raso al suolo. Lo stesso destino è toccato al Palazzo As-Saqqa, risalente al 1661, e all’Hamam al-Sammara, un Hamman vecchio di mille anni, restaurato nel 1320, che era l’ultimo stabilimento balneare pubblico funzionante a Gaza su cinque originari.

Il Museo culturale di Al Qarara, nel sud di Gaza, ha subito gravi danni, perdendo gran parte della sua collezione di ceramiche del periodo bizantino. Mohammad Abulehia; Museo Culturale Al Qarara.

Il Museo Culturale di Al Qarara, che ospitava oltre 3500 oggetti archeologici, storici e numismatici, con reperti databili dal 4000 a.C. ai giorni nostri, è stato distrutto. Tra i siti archeologici annientati figura anche il porto di Anthedon, risalente a oltre 2000 anni fa, appartenente all’antica città ellenistica nota anche come Al-Balakhiyya.

Sfollati davanti alla chiesa greco-ortodossa di San Porfirio: sullo sfondo le macerie della sala colpita – Ansa.

La Chiesa di San Porfirio, intitolata a un vescovo di Gaza del V secolo e ubicata nella zona nord della città, venne costruita nel 425 d.C., poi convertita in moschea nel VII secolo e nuovamente trasformata in chiesa all’epoca delle Crociate, aveva già subito gravi danni durante il conflitto con Israele nel 2014. Un bombardamento avvenuto all’inizio del conflitto ha gravemente danneggiato la chiesa e ha fatto vittime tra coloro che vi si erano rifugiati. Anche la Chiesa bizantina di Jabaliya è stata bombardata e ha subito una quasi completa distruzione.

Il Monastero cristiano di Tell Umm Amer, il luogo di nascita del santo eremita siro-palestinese Ilarione (291-371 d.c.), è uno dei più grandi monasteri della regione, ed è stato inserito nella lista dei possibili candidati all’iscrizione nel Patrimonio mondiale dell’Unesco. Si trova nel villaggio di Al Nusairat nella parte Sud di Gaza, e ha finora subìto danni parziali.

Una pavimentazione del Monastero di Sant’Ilarione, a Gaza (foto UNESCO).

Il Forte di Qalaat Barquq, ubicato a Khan Younis nel Sud di Gaza, venne costruito nel 1387 durante il Regno di Barquq, sultano mamelucco di origine circassa. Il forte aveva una funzione importante come luogo di sosta dei mercanti che viaggiavano tra Damasco e Il Cairo. Del potente sistema di fortificazioni, realizzate per difendersi dalla minaccia del conquistatore turco mongolo Tamerlano (1336-1405), resta solo la facciata principale. Il monumento si trova nell’area oggi interessata dalla seconda fase della guerra.

Il Forte di Qalaat Barquq nel 2020.

Questi sono solo alcuni dei luoghi di immenso valore storico e culturale devastati dagli attacchi israeliani, nel contesto di un’operazione che ha causato la distruzione sistematica del patrimonio culturale palestinese.

Secondo il diritto internazionale Cisgiordania e Gaza sono considerati terra occupata. In quanto potenza occupante Israele dovrebbe rispettare le disposizioni che stabiliscono il suo obbligo di proteggere il patrimonio culturale e naturale, e in particolare l’applicazione della Convenzione del 1948 per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio, la Quarta Convenzione di Ginevra del 1949 e i suoi allegati e la Convenzione dell’Aia del 1954 per la protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato.

La ragione di questo accanimento?
Haneen Al-Amassi, archeologo e ricercatore, direttore della Fondazione Eyes on Heritage non ha dubbi: “I siti archeologici sono prove fisiche e tangibili che attestano il diritto dei palestinesi alla terra di Palestina e la loro esistenza storica su di essa, dall’età della pietra ai giorni nostri. La distruzione di questi siti nella Striscia di Gaza in modo così brutale e sistematico è un tentativo disperato da parte dell’esercito di occupazione di cancellare le prove del diritto del popolo palestinese alla propria terra”.

L’Euro-Med Human Rights Monitor, con sede a Ginevra, ha accusato Israele di “prendere di mira chiaramente e intenzionalmente tutte le strutture storiche della Striscia di Gaza”. Il ministero del Turismo e delle Antichità di Gaza ha denunciato in un comunicato stampa di fine dicembre il “deliberato attacco contro i siti storici e archeologici nella città vecchia di Gaza”.

Non entriamo nel merito politico della questione, sulla quale si sono già spesi fiumi di parole ed oceani di inchiostro, questione che, come sappiamo è altamente divisiva e anche causa di bizzarri cortocircuiti ideologici da parte di ambienti cosiddetti progressisti. Per quel che ci riguarda, possiamo solo dire che sarà difficile, se non impossibile, restaurare il patrimonio distrutto, che è continuamente sottoposto ad azioni militari. Tutta la storia di Gaza è sull’orlo del collasso.

LE GUERRE: BAALBEK E TIRO

Il sito di Baalbek, in Libano

Le vite umane prima di tutto, ovviamente. Ma sui vari teatri di guerra in Medio Oriente un inestimabile patrimonio culturale rischia di scomparire davanti ai nostri occhi. Le immagini trasmesse da una tv libanese qualche mese fa avevano mostrato le macerie di altri edifici di Baalbek, nella valle della Beqaa, appena centrati da missili israeliani. A circa trecento metri, dietro la densa nube di fumo, si intravedeva il tempio di Giove, il monumento più iconico del Libano.

Il Paese ritornato scenario di guerra, fra Israele e Hezbollah, è protagonista di una storia lunghissima e tormentata. Affacciato sul Mediterraneo il Libano è stato sempre meta di conquiste da parte di popoli stranieri, sin dalla sua configurazione nel I millennio a.C. come Paese dei fenici. Assiri, babilonesi, persiani, macedoni di Alessandro Magno, egizi, romani (e poi bizantini, arabi, ottomani) desiderarono dominarlo per l’importanza della rete commerciale espansa nelle sue colonie, la produzione della porpora, i famosi cedri, con il cui legname fu costruito il tempio di Salomone a Gerusalemme. Determinante è stata comunque la strategica posizione territoriale, in quel Medio Oriente che tanto ha dato allo sviluppo della nostra civiltà̀ ma che non riesce a vivere in pace.

Gli ultimi bombardamenti israeliani, oltre a provocare vittime umane, hanno messo a rischio simboli del Patrimonio Unesco, alla base di un turismo internazionale, come Baalbek.

Bombardamenti su Baalbek – Ansa.

Baalbek, al quale abbiamo dedicato un recente articolo, è abitata dall’uomo almeno dal Neolitico, e per parecchi secoli dell’antichità fu una città ricca e popolosa per via del terreno fertile dell’area circostante e della sua posizione sulla via commerciale che portava a Tiro, la più potente fra le città dei Fenici. Nel 334 a.C. fu conquistata da Alessandro Magno che la rinominò Heliopolis, “città del sole”. Negli anni successivi diventò una delle più fiorenti città della provincia romana di Fenicia: proprio a questo periodo risale gran parte delle rovine visibili ancora oggi.

I danni provocati da un bombardamento israeliano al sito archeologico di Baalbek, in Libano, 7 novembre 2024 (Ed Ram/Getty Images).

Il 28 ottobre del 2024, un raid delle Israeli Air Forces ha danneggiato la Porta Romana occidentale e le antiche mura di Baalbek. Come tutti gli edifici di età romana anche quelli di Baalbek sono delicatissimi, ed eventuali ricadute anche solo marginali dei bombardamenti israeliani potrebbero causare danni e crolli.

La presenza di un sito archeologico così ben conservato, peraltro estesamente restaurato fra gli anni Sessanta e Ottanta, e che nel 1984 è stato dichiarato Patrimonio dell’umanità dall’UNESCO, aveva creato un discreto flusso turistico in città, che prima della guerra aveva circa 250mila abitanti. A Baalbek c’è anche una forte presenza di Hezbollah per via della relativa vicinanza alla valle della Beqaa, una delle zone dove in assoluto il gruppo è più radicato. Questo il motivo che ha indotto Israele ad effettuare l’attacco aereo.

Già in passato erano state bombardate zone vicine al sito romano di Baalbek. Nel 2006 poco dopo la fine di un’altra guerra combattuta fra Israele e Hezbollah un team dell’UNESCO visitò Baalbek e concluse che alcune crepe nei templi si erano allargate verosimilmente per via delle vibrazioni causate dai bombardamenti.

Baalbek non è l’unico sito romano in Libano che rischia di subire danni: distruzioni provocate da raid israeliani, tra razzi e droni di ambo le parti belligeranti, hanno riguardato pure Tiro e Sidone. Le perle della costa, che conservano vie colonnate, archi, edifici monumentali di età̀ romana, si ricollegano a vicende e miti narrati da storici e poeti.

Arco di Adriano presso la necropoli al-Bass Tiro. Patrimonio mondiale dell’UNESCO in Libano.

È stata la prima volta dallo scoppio del conflitto con Hezbollah, l’8 ottobre 2023, che i bombardamenti israeliani si sono avvicinati così tanto alla cittadella dell’antica Heliopolis.
Raso al suolo, invece, il mercato di Nabatieh, risalente all’epoca mamelucca. Secondo il Washington Post, si contano nove siti religiosi distrutti, tra cui la chiesa di San Giorgio a Yaroun. “Sembra che le forze israeliane – scrive il quotidiano – abbiano fatto pochi sforzi per risparmiare i siti religiosi e che in alcuni casi si siano rallegrate della loro distruzione”.

La chiesa di San Giorgio a Yaroun, nel sud del Libano, colpita dai bombardamenti israeliani (Ansa).

CONCLUSIONE: IL “DIRITTO” DI DISTRUGGERE

Right to destroy”, il diritto a distruggere, rivendicato a più riprese dai sostenitori progressisti di “Black Lives Matter”, che non sono, in questo modo, migliori dei Talebani. Essi invocano la liberazione della società da ogni retaggio della ormai rinnegata “American white supremacy” Così, in nome della necessità di sradicare ogni testimonianza di tali trascorsi, vengono abbattuti nelle strade di numerose città americane, europee e del mondo monumenti raffiguranti i soldati Confederati, così come figure quali Churchill, Roosevelt e Cristoforo Colombo – ritenuti simbolo di un passato da dimenticare.

Questo, però, come ricordava il Gruppo di Esperti dell’International Coalition of Sites of Conscience nominato dall’UNESCO nel rapporto sulle forme di conservazione dei “Luoghi della Memoria”, a scapito del diritto delle generazioni future ad avere accesso al patrimonio storico e artistico di riferimento, inteso come elemento di identità e memoria collettiva.

La rimozione della statua del generale confederato Robert E. Lee a Richmond, Virginia (Ansa).

Abbiamo voluto citare anche tali episodi perché vanno ad integrare il quadro dei danni provocati dalle ideologie: da una parte quelli provocati dagli integralisti della tradizione, dall’altra (curiosamente) quelli provocati dai progressisti, dai “talebani” del wokeismo, della cancel culture. I due estremi che si toccano, quindi, entrambi con effetti catastrofici perché caratterizzati da una spaventosa ignoranza culturale e da una memoria storica pressoché inesistente. Per molti aspetti la cancel culture ricorda i roghi dei libri del nazismo.

Persone salgono in cima alla statua della regina Vittoria mentre prendono parte a una manifestazione di protesta del movimento Black Lives Matter nei Piccadilly Gardens di Manchester, in memoria di George Floyd, ucciso mentre era sotto custodia della polizia nella città statunitense di Minneapolis.

La Cancel Culture, o cultura dell’annullamento, è una nuova forma di censura. Un folle fenomeno sociale che vede l’ostracismo di individui o entità (come marchi o prodotti) a seguito di comportamenti o dichiarazioni considerati offensivi o inaccettabili. Anche questo fenomeno ha avuto un impatto significativo sulla cultura, la comunicazione e il marketing, limitando la libertà di espressione e creando un clima di paura e autocensura che ha origine nell’ideologia dominante, quella che le élite di sinistra diffondono nelle università, nei media, nella cultura di massa e nello spettacolo. Una élite che ci impone di demolire ogni autostima, colpevolizzarci, flagellarci. Secondo questa dittatura ideologica non abbiamo più valori da proporre al mondo e alle nuove generazioni, abbiamo solo crimini da espiare. Questo è il suicidio occidentale.

Immagine allegorica della Cancel Culture, generata con l’IA.

Riscrivere il passato valutandolo con gli occhi di oggi, decontestualizzando le società passate e rendendole avulse dai valori del loro tempo. Questa è la Cancel Culture, ideata come rivincita culturale dalla sinistra illiberale, che aveva cominciato a costruire la sua egemonia nei campus delle università d’élite, perfino quando l’America era governata dalla destra.

Nasce così il vandalismo culturale, con esagitati che danneggiano o distruggono opere d’arte o monumenti dell’antichità per ragioni ideologiche, in quanto percepiti come non in linea con i loro valori. Questi soggetti possono essere definiti come iconoclasti o distruttori culturali, che agiscono sulla base di motivazioni politiche, religiose o sociali, ritenendo che tali opere rappresentino idee o valori che non condividono o che considerano offensivi.

Statua di Cristoforo Colombo abbattuta al Campidoglio dello Stato del Minnesota il 10 giugno 2020.

È importante sottolineare che gli atti di vandalismo o distruzione del patrimonio culturale sono illegali e dannosi per la conservazione della storia e della cultura. Molti considerano tali atti come una forma estrema di censura o come un tentativo di cancellare o riscrivere la storia. Invece di distruggere le opere o i monumenti del passato, esistono alternative più costruttive come l’educazione, la sensibilizzazione e il dialogo aperto per affrontare e comprendere le diverse interpretazioni storiche e culturali.

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