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L’ENIGMA MASADA: IL SUO MITO REGGE ANCORA?

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mercoledì, Gennaio 22, 2025
Passato e presente: due F-16B Netz delle Forze di Difesa Israeliane sorvolano l’antica fortezza di Masada.

È uno degli assedi più famosi della storia. Le vicende della fortezza di Masada, tramandate da Flavio Giuseppe nel suo più ampio “Bellum Iudaicum” (La guerra giudaica), fanno parte dell’immaginario collettivo: un gruppo di eroici ebrei si oppone fieramente all’imperialismo di Roma, asserragliandosi per due anni tra le mura di una formidabile fortezza che sorge su un imprendibile sperone roccioso nel deserto di Giuda, resistendo strenuamente ai vani assalti delle legioni. Ma l’eroismo di questi valorosi nulla può contro l’efficiente e letale macchina da guerra romana. Alla vigilia dell’assalto finale, vedendosi perduti, i ribelli discutono tra loro, ed Eleazar Ben Yair, il comandante zelota, decide che è meglio morire piuttosto che essere passati a fil di spada dai nemici, e che anche le mogli e i figli dei ribelli è bene che muoiano per mano dei loro mariti e padri per non subire l’onta della schiavitù. Vengono quindi estratti a sorte i nomi di dieci combattenti che dovranno uccidere tutti gli altri. Alla fine, viene estratto il nome di colui che dovrà uccidere i nove, prima di suicidarsi. Muoiono così 967 persone. All’alba i Romani sferrano l’attacco e, una volta giunti all’interno della fortezza, sono circondati da un surreale silenzio: edifici in fiamme e nessuna traccia dei ribelli. Due donne e cinque bambini, sopravvissuti perché nascosti, raccontano ai soldati di Flavio Silva l’accaduto.

Gli assalitori, meravigliati dinanzi a tanta forza d’animo, cercarono di domare l’incendio e, una volta entrati nella reggia, quando videro quella immane distesa di cadaveri, non provarono esultanza per aver annientato il nemico, ma ammirazione per un nobile gesto

Flavio Giuseppe, Bellum Iudaicum

Questa la storia come la conosciamo. Masada è diventata un’icona della resistenza ebraica contro i Romani – ma, più ampiamente, contro ogni nemico di Israele – e fa parte dei miti fondativi del moderno Stato ebraico: ogni studente israeliano conosce le vicende degli eroi della fortezza e i soldati dello Tsahal, le forze armate israeliane, dopo aver scalato la rocca alta 400 metri vi compiono il loro giuramento al termine del periodo addestrativo, promettendo a gran voce “mai più cadrà Masada”. Ma sarà veramente andata così? Questa visione oleografica, coi ribelli-buoni e gli imperialisti-cattivi sta però iniziando a dare segni di cedimento: gli studi dell’archeologo israeliano Nachman Ben-Yehuda ridisegnano ampiamente la vicenda, e tratteggiano una versione più realistica degli eventi. Ed è a tali studi (a cui abbiamo accennato nell’articolo di chiusura del 2024), oltre che ad una panoramica della straordinaria tecnica d’assedio romana impiegata a Masada che dedicheremo questo nuovo articolo della Rubrica “La Stele di Rosetta”, in esclusiva per IQ.

Il Masada Museum intitolato a Yiga’el Yadin.

INDICE DEI CONTENUTI

IL CONTESTO STORICO

UNA FORTEZZA FORMIDABILE

ZELOTI E SICARI

LA VITA NELLA FORTEZZA

LE AQUILE SI MUOVONO: L’ASSEDIO

IL DISCORSO DI ELEAZAR BEN YAIR

IL SUICIDIO COLLETTIVO

L’ASSALTO FINALE

QUANTO È AFFIDABILE FLAVIO GIUSEPPE?

GLI SCAVI DI YIGA’EL YADIN

SORGONO I PRIMI DUBBI

LA SCARSITA’ DI PROVE

UN IMPEGNO PATRIOTTICO, MA POCO ARCHEOLOGICO

UNA VISIONE REALISTICA

LA RAMPA D’ASSALTO FU MAI PORTATA A TERMINE?

LA VERA DURATA DELL’ASSEDIO

LA QUESTIONE DELLE PROVVISTE

MASADA OGGI

CONCLUSIONI

IL CONTESTO STORICO

Ne avevamo già parlato nell’articolo di esordio di questa Rubrica (per chi volesse approfondire, questo il link), ma riassumeremo qui brevemente le vicende che hanno portato all’assedio di Masada.

Busto di Gaio Cesare Germanico, detto Caligola (Ny Carlsberg Glyptotek, Copenaghen).

I rapporti tra Romani ed Ebrei iniziarono a incrinarsi nel 40: in quell’anno, secondo Filone di Alessandria, l’imperatore Caligola avrebbe tentato di far collocare una statua con le sue fattezze nel tempio di Gerusalemme, sostenendo di essere un dio e pretendendo di essere venerato; chi si fosse opposto sarebbe stato mandato a morte. All’ordine imperiale si sarebbero opposti i Giudei, comunicando al legato di Siria che Caligola avrebbe dovuto annientare l’intero popolo in quanto la legge e i costumi vietavano di porre nel Tempio immagini di divinità.

Seguì la morte di Caligola nel 41; successive opere, come il Quarto libro dei Maccabei, parlavano di resistenza civile e non armata all’oppressione. Dopo il 44, secondo Flavio Giuseppe, furono altre le cause: il malgoverno dei prefetti romani, come Lucceio Albino e Gessio Floro, e la crescente avversione all’aristocrazia laica e sacerdotale sempre più corrotte. Tali condizioni avrebbero accresciuto la certezza di essere nel periodo di tribolazione premessianica con il manifestarsi di numerosi profeti ritenuti mendaci.

Il casus belli: la rivolta (66) Nel 66, il procurator Augusti della Giudea romana, Gessio Floro, pretese che fossero prelevati diciassette talenti dal Tempio e, trovando una forte opposizione da parte degli ebrei, mandò avanti i propri soldati, che provocarono la morte di 3.600 persone. In seguito Floro, con il pretesto di avere una dimostrazione di fedeltà da parte dei Giudei, ordinò che accogliessero due coorti dell’esercito romano che si stavano dirigendo a Gerusalemme da Cesarea. Le coorti avevano l’ordine di attaccare la folla qualora questa avesse insultato Floro, cosa che avvenne, provocando un altro intervento contro la popolazione; le coorti, facendo uso della forza per raggiungere la fortezza Antonia, il forte di Gerusalemme a ridosso del Tempio, vennero assalite dalla popolazione, perciò Floro, sedata l’agitazione, disse che sarebbe partito da Gerusalemme per andare a Cesarea, lasciando un presidio all’Antonia.

Floro, alla presenza del governatore di Siria Gaio Cestio Gallo, dichiarò che erano stati i Giudei ad iniziare i disordini. Dopo la visita a Gerusalemme degli ispettori di Cestio, che diede ragione ai Giudei, la situazione sembrò distendersi, ma le frange ebraiche più radicali diedero inizio alla guerra occupando Masada, sterminandone la guarnigione romana, mentre Eleazar ben Simon, sacerdote del Tempio, proibì di eseguire i consueti sacrifici in favore dei Romani e occupò il Tempio. Floro inviò duemila cavalieri a domare la rivolta, che si era estesa per tutta la città alta.

I rivoltosi, guidati da un certo Menahem, incendiarono gli edifici romani, mentre il sommo sacerdote del Tempio, Anania, venne assassinato fuori città. Menahem venne ucciso a sua volta quando fu raggiunto dagli uomini di Eleazaro, e i pochi seguaci scampati fuggirono a Masada.

La città di Cesarea.

A Cesarea Floro fece uccidere tutti i Giudei della città, circa diecimila, fatto che fece estendere la ribellione a tutta la Giudea settentrionale, dove Giudei e Siri si massacrarono a vicenda senza pietà. Ad Alessandria scoppiarono altri tumulti, ma Tiberio Alessandro, governatore della città, li sedò violentemente. Infine Cestio intervenne di persona con la XII legione; partendo da Tolemaide saccheggiò diverse zone della Giudea e, quando giunse a Seffori, affrontò un gruppo di rivoltosi, sconfiggendolo. Di qui si diresse verso Gerusalemme, dove si stava svolgendo la festa delle capanne; i rivoltosi vinsero il primo scontro, ma vennero sconfitti nel secondo, così Cestio poté conquistare alcuni quartieri di Gerusalemme. A causa dell’indugio di Cestio, molti Giudei giunsero dalle regioni circostanti in soccorso dei rivoltosi e lo obbligarono a ritirarsi frettolosamente; pochi giorni dopo l’esercito di Cestio fu quasi completamente distrutto tra Bethoron e Antipatride, e Cestio si salvò con difficoltà.

La disfatta di Bethoron.

Gli ebrei, galvanizzati dalla vittoria, pensarono di poter riguadagnare la propria libertà, cacciando dalla Terra Promessa tutti i gentili. Nei fatti, però, si accesero subito in tutto il paese, e nello specifico nella capitale, una serie di sanguinose guerre intestine tra le varie fazioni moderate (farisei e sadducei) e intransigenti (zeloti, sicarii, edomiti) che indebolirono grandemente il fronte della resistenza antiromana.

Dall’altra, invece, l’Urbe prese sul serio quanto stava avvenendo nella regione, e affidò ad un abile e determinato generale la faccenda, dotandolo di tutte le forze e le risorse necessarie alla bisogna.
Infatti, quando Nerone venne informato della sconfitta subita in Giudea dal suo legatus Augusti pro praetore di Siria, Gaio Cestio Gallo, colto da grande angoscia e timore, trovò che il solo Vespasiano sarebbe stato all’altezza del compito, e quindi capace di condurre una guerra tanto importante in modo vittorioso.

Aureus con l’effigie di Vespasiano Data: 78-79.

E così Vespasiano fu incaricato della conduzione della guerra in Giudea, che minacciava di espandersi a tutto l’Oriente. Vespasiano, che si trovava in Grecia, al seguito di Nerone, inviò il figlio Tito ad Alessandria d’Egitto, per rilevare la legio XV Apollinaris, mentre egli stesso attraversava l’Ellesponto, raggiungendo la Siria via terra, dove concentrò le forze romane e numerosi contingenti ausiliari di re clienti (tra cui quelli di Erode Agrippa II). Ad Antiochia di Siria, Vespasiano, concentrava e rafforzava l’esercito siriaco (legio X Fretensis), aggiungendo due legioni (la legio V Macedonica e la legio XV Apollinaris, giunta dall’Egitto), otto ali di cavalleria e dieci coorti ausiliarie, mentre attendeva l’arrivo del figlio Tito, nominato suo vice (legatus).

La strategia del generale era prudente e inesorabile. Utilizzò tutto il 66 e il 67 per annichilire ogni resistenza avanzando lentamente da nord e da sud, sempre muovendo con ondate di cavalieri ed esploratori per evitare imboscate, prendendo ogni fortezza sulla sua strada e abbattendo ogni centro ribelle che non si sottometteva in maniera più che chiara.
Entro la fine del 67 la Galilea e la costa erano tornate stabilmente in mani romane, piegate dalla brutale violenza della macchina da guerra capitolina, con tutti i suoi centri strategici di Iotapata, Joppa (l’antica Giaffa), Tiberiade, Tarichaea e Gamala.

Flavio Giuseppe. Incisione su acciaio, XIX secolo.

Presso Iotapata venne catturato il più grande narratore di questo conflitto, quel Yosef ben Matityahu (allora comandante militare della Galilea) che passerà alla storia con il nome di Titus Flavius Iosephus, o Flavio Giuseppe, autore del Bellum Iudaicum o ancora, visto che venne scritta in greco ellenistico, Historía Ioudaikou polémou pròs Rhοmaíous.
Messo in ceppi in quanto capo ribelle – perciò passabile di condanna a morte – egli seppe guadagnarsi la stima prima del figlio del generale, Titus, e poi dello stesso Vespasiano, predicendogli l’ascesa al trono imperiale. Da quel momento divenne un partigiano della causa di Roma, cercando al contempo di spiegare e difendere, per quanto possibile, anche le ragioni del suo popolo di origine, cosa che ha reso la sua figura in maniera molto controversa tra gli ebrei nei secoli seguenti.

Ad ogni modo, Vespasiano dimostrò ancor di più la sua abilità quando decise di procedere con calma nella campagna del 68, in quanto era venuto a sapere che le lotte di fazione stavano dilaniando i ribelli.

Ignorando perciò Gerusalemme, questi si impadronì senza difficoltà di tutti i centri minori intorno all’epicentro della rivolta, e lo stesso fece nel 69, fino a che, stabilite solide linee di rifornimento e guarnigioni verso la Siria e il mare, puntò infine a quest’ultima, ormai isolata.
Sembrava la fine, ma fatti ben più grandi a livello politico rispetto quanto stava avvenendo in quella sperduta provincia di confine concessero un po’ di respiro ai ribelli. Vespasiano, infatti, decise di tentare la fortuna nei convulsi mesi seguiti alla morte di Nerone, che aveva spezzato per sempre la prima dinastia imperiale della gens Iulia-Claudia. Come è noto, il 69 è conosciuto come l’anno dei quattro imperatori: a Nerone successe Galba, poi Otone e Vitellio, in una serie di guerre civili all’interno dell’Impero.

La fine della rivolta (70)
Agli inizi di gennaio del 70, Vespasiano, che era giunto ad Alessandria d’Egitto, fu raggiunto dalla notizia che Vitellio era morto e che, grazie al sostegno delle legioni d’Oriente e del Danubio, il Senato ed il popolo di Roma lo aveva proclamato imperatore. Giunsero, quindi, numerose ambascerie a congratularsi con lui da ogni parte del mondo, ora diventato suo. Vespasiano, ansioso di salpare per la capitale non appena fosse terminato l’inverno, sistemò le cose in Egitto e spedì il figlio Tito con ingenti forze a conquistare Gerusalemme e porre fine alla guerra in Giudea.

Ereditata la perfetta situazione strategica predisposta dal padre, questi marciò direttamente sulla capitale, che pose sotto assedio nel marzo dello stesso anno. La strategia di Tito fu quella di ridurre le riserve di cibo ed acqua degli assediati, permettendo ai pellegrini di entrare in città per la consueta visita al tempio in occasione di Pesach, ma impedendo loro di uscire.
Tito procedette con opere di ingegneria, fortificazione e grandi macchine da guerra. Gerusalemme aveva tre grandi capisaldi nella Fortezza Antonia, nel Grande Tempio e nel Palazzo di Erode il Grande, oltre che tre cinte di mura. I romani dovettero espugnarle una per una, e ogni volta si ritrovarono anche a combattere casa per casa nei quartieri conquistati, che vennero così rasi al suolo.
Il generale, per evitare rischi, fece abbattere tutte le mura e gli edifici conquistati, e al contempo fece realizzare una circonvallazione tutto intorno alla città per stringere un cappio intorno ai difensori, che non poterono più sperare in soccorsi esterni. La fame dilagò a Gerusalemme, con centinaia di morti.
Per luglio venne lanciato un altro assalto che portò alla caduta e alla distruzione della Fortezza Antonia, mentre il Grande Tempio venne preso entro la prima metà del mese successivo, e nel caos della battaglia venne dato alle fiamme fino alle fondamenta.
Questo fatto spezzò la forza dei difensori, che entro i primi giorni di settembre vennero sopraffatti. Gerusalemme venne saccheggiata brutalmente per giorni, e Flavio Giuseppe parla di un milione di morti e 97.000 prigionieri. Tito diede ordine di radere al suolo l’intera città.

La distruzione del tempio e della città di Gerusalemme nel 70 da parte di Tito. Incisione anonima della metà del XIX secolo.

Dopo aver massacrato gli abitanti e dopo aver saccheggiato e distrutto il Tempio di Salomone, Tito e i suoi luogotenenti credevano di aver soffocato definitivamente la ribellione giudaica contro il dominio di Roma, che era iniziata quattro anni prima. Restavano soltanto alcune ridotte ribelli, in particolare tre fortezze sulle rive del Mar Morto. Due di queste, Macheronte e Herodion, non tardarono a cadere. La terza, invece, oppose un’accanita resistenza e costrinse l’esercito a organizzare una delle più grandi e più ardue operazioni di assedio della storia di Roma. Questa fortezza era Masada.

UNA FORTEZZA FORMIDABILE

Masada.

L’altopiano su cui sorge Masada, immerso nella depressione del Mar Morto, offre uno scenario naturale raro. Molti dei turisti che si recano al sito iniziano alle prime luci dell’alba la salita per il sentiero del Serpente (nel buio della notte rischiarato unicamente dalla luna e dalle stelle), per riuscire ad assistere, da dentro i resti dell’antica fortezza, al sorgere del sole che riversa la sua luce su tutto l’avvallamento circostante.

Geomorfologia
Masada si trova su una scogliera isolata all’estremità orientale del deserto della Giudea , tra Sodoma e Ein Gedi. Tzuk Masada è un horst (ossia un pilastro tettonico) che si sollevò e si staccò canali creati dai sedimenti dell’antico lago. I pendii ripidi della scogliera raggiungono un’altezza di oltre 450 metri sopra la superficie del Mar Morto sul lato orientale, e sul lato occidentale, collegata da una sella alle montagne antistanti, la sua testa si alza sopra la sella di oltre 100 metri. La combinazione di scogliere e dirupi in un’area desertica conferiva al luogo un sistema di difesa naturale; le vie naturali di accesso alla sommità della falesia sono difficili e complesse.

 la Linea A è una faglia, che divide Masada a destra dagli strati di roccia che probabilmente le collegavano ma che crollarono milioni di anni fa lungo la faglia. B1 e B2 sono due sezioni della stessa formazione rocciosa (Bina), che dividono la faglia. C1, C2 e C3 sono i resti della formazione Menhua, che si trova al di sopra della formazione Bina e ad ovest della faglia e che si trovava sopra la sezione Bina che ha formato Masada; poiché la Formazione Menhua (e la Formazione Mishash che giace al di sotto) sono costituite da roccia soffice, l´erosione, in un periodo di tempo molto lungo, le ha rimosse dalla cima di Masada. La stessa cosa è avvenuta ad ovest. D ha dato origine alla rampa Romana.

La sommità della scogliera è un altopiano piatto e trapezoidale che misura circa 600 x 300 metri. In cima alla montagna si estende una superficie quasi orizzontale, a forma di rombo. La lunghezza del suo asse lungo, dalla cittadella a sud delle mura al balcone del piano superiore del Palazzo di Erode a nord, è di 645 metri. La sua larghezza massima, da ovest a est, si estende in linea attraverso l’edificio 11 e raggiunge i 315 metri. Il punto più alto si trova a sud dei magazzini, ad un’altezza di 63 metri sopra il livello del Mar Mediterraneo (cioè circa 460 metri sopra il livello del Mar Morto).
La montagna è costruita interamente con rocce sedimentarie di origine marina del Gruppo Yehuda. In cima alla montagna si trovano dolomie e rocce calcaree dure della formazione Netzer, che costituiscono anche la scogliera superiore sui fianchi della montagna e i gradini su cui fu costruito il palazzo di Erode. Sotto questo strato si trovano rocce dolomitiche e calcaree della formazione Sheveta, con singoli orizzonti marnosi; in uno di essi vengono tagliati i pozzi del sistema idrico di Nahal Masada (fila in alto). Le cisterne del sistema idrico Nahal Harmon (riga inferiore) sono tagliate nello strato sottostante, la Formazione Sparrow, che è costituita da dolomite Hawari. Sotto di essa si trova la scogliera principale di Masada, costruita con massiccia dolomia della formazione Hatzava.

Vista del Canyon e delle gole di Masada.

Masada si trova al confine tra due aree geografiche: il deserto della Giudea e la valle del Mar Morto. È tagliato fuori dall’ambiente circostante da burroni profondi e abissali che lo circondano su tutti i lati. La forma della montagna, il suo isolamento, la ripidezza delle sue pareti e la struttura delle sue rocce sono il risultato dei fattori geologici che hanno modellato le zone limitrofe. Molte delle caratteristiche di Masada come fortezza unica nel suo genere sono state progettate come risultato della sua posizione speciale all’interno dell’ambiente circostante e della lontananza da strade comode per il passaggio di un esercito pesante e ingombrante. Le particolari condizioni del luogo sono legate anche alla natura dell’ambiente: l’assenza di grandi basi insediative nelle vicinanze, che fa sì che sia i difensori che gli attaccanti necessitino di lunghe vie di rifornimento; la mancanza d’acqua – un problema particolarmente serio per gli attaccanti – dopo che fu risolto per i difensori, aumentò indirettamente la forza della fortezza; e l’aria secca, che ha permesso di conservare per molti anni anche i reperti archeologici più fragili, come cibi e papiri.

La fortezza
Il primo che vi costruì una fortezza fu il sommo sacerdote Gionata, e la chiamò Masada. In seguito il re Erode il Grande ne rafforzò l’impianto iniziale (tra il 37 a.C. e il 31 a.C.). Egli costruì intorno al pianoro sommitale un muro di pietra bianca lungo 1.300 metri, alto 5,3 metri, spesso 3,5 metri, lungo il quale furono poste 37 torri, alte ciascuna 22 metri e da queste si poteva accedere ai locali adiacenti, costruiti a ridosso del muro di cinta.
Erode poi preferì lasciare libera, per la coltivazione, la spianata, poiché si trattava di un terreno più fertile e più soffice di qualsiasi altro campo in pianura. In questo modo egli aveva previsto, in caso di assedio, di poter procurare alla popolazione tutte le risorse alimentari necessarie. Costruì quindi una reggia ai margini delle pendici verso occidente, ad un livello più basso del muro di cinta. Le mura perimetrali della reggia erano molto imponenti, con quattro torri angolari alte sessanta cubiti ciascuna (26,7 metri). L’interno della reggia aveva sale, porticati, bagni, ciascuno di varia fattura. Ovunque erano state poste colonne monolitiche, mentre le pareti e i pavimenti erano fatti con pietre di varia natura.

La fortezza era arroccata su tre diversi livelli verso lo strapiombo sul lato nord della rupe, dotata di terme con caldaia centrale, magazzini sotterranei ed ampie cisterne per la raccolta dell’acqua. Una mulattiera sotterranea conduceva dalla reggia alla sommità. E se il “cammino del serpente” risulta per natura quasi impraticabile, quello che saliva da occidente, fu sbarrato da Erode nel punto più stretto con una grande torre, pressoché impossibile da espugnare. Queste erano in sintesi le difese naturali e artificiali che la fortezza poteva opporre agli assalti dei Romani.

Il Cammino del Serpente, con in fondo tre degli otto campi romani.

Vi è da aggiungere che eccellente era il modo di conservazione delle provviste che vi potevano essere immagazzinate. Era stata, infatti, ammassata una grande quantità di grano, oltre a vino e olio, datteri e ogni sorta di legumi. Quando Eleazar, insieme con la setta dei sicarii, occupò la fortezza, trovò un’abbondanza di viveri in perfetto stato di conservazione. Venne, inoltre, trovata un’ingente quantità di armi di vario tipo, lasciate dal re e che Giuseppe Flavio dice fossero sufficienti a diecimila armati, oltre a ferro non lavorato, bronzo e piombo.

Sembra che Erode avesse nascosto a Masada tali provviste per rifugiarsi nell’eventualità che il popolo dei Giudei fosse insorto per abbatterlo e restaurare la dinastia precedente oppure nel caso in cui la regina d’Egitto, Cleopatra (che Erode detestava), avesse ottenuto da Marco Antonio la sua testa. Dall’anno 6 d.C. vi era di stanza una guarnigione romana.

ZELOTI E SICARI

Un sicario.

Allo scoppio della rivolta giudaica nel 66 d.C., un gruppo di ribelli prese possesso della piazzaforte ed eliminò la guarnigione romana. Guidati da un certo Menahem e, dopo la sua morte, dal nipote Eleazar Ben Yair, appartenevano a un gruppo giudaico radicale, i sicarii, così chiamati per il pugnale o sica che erano soliti usare. I sicarii erano la frangia più estrema degli zeloti, un movimento messianista che propugnava l’uso della violenza per liberarsi dal giogo romano. Agli occhi dei Romani, invece, i sicarii erano soltanto dei criminali che avevano sfruttato la rivolta contro Roma come pretesto per i loro abusi, secondo quanto riportato nella sua Guerra giudaica da Giuseppe Flavio. In effetti, nonostante avessero conquistato Masada all’inizio della guerra, gli uomini di Eleazar ben Yair non combatterono contro i Romani, ma, utilizzando Masada come base, si dedicarono a devastare la regione del Mar Morto.

Terroristi integralisti
Leggendo attentamente “La Guerra Giudaica” si vede come Eleazar Ben Yair fosse un personaggio che oggi non esiteremo a definire un terrorista integralista. Zelota massimalista, sicario, fomentò il popolo contro i Romani, pretendendo dai sacerdoti che non accettassero più i sacrifici da parte loro. Un gesto considerato dallo stesso Giuseppe Flavio empio, poiché sempre al Tempio di Salomone ogni uomo aveva potuto offrire sacrifici a Dio quale che fosse la sua religione o razza. E i Romani avevano trovato un modus vivendi con questo “strano popolo che adorava un solo dio”, sacrificando nel Tempio non all’Imperatore o alla Dea Roma, ma per l’Imperatore e per Roma, salvando così il monoteismo giudaico e la necessità politica dei romani di assicurare sempre che i riti sacri fossero ben compiuti: una preghiera “pro rege et pro patria”, insomma. Eleazar sapeva bene che i Romani avrebbero percepito il rifiuto delle loro offerte come una insopportabile ed empia offesa, e sarebbe stata la guerra. Ed era ciò che egli voleva.

Eleazar Ben Yair, interpretato da Peter Strauss nella miniserie “Masada” del 1981.

Ma la guerra non prese la piega voluta dagli integralisti: in tutto il Medio Oriente le comunità ebraiche furono trucidate dalle popolazioni ellenizzate o romanizzate, e gli stessi Romani, dopo aver accusato iniziali rovesci, si riorganizzarono e schiacciarono la rivolta con una ferocia raccapricciante. Come se non bastasse, le fazioni giudaiche iniziarono a massacrarsi a vicenda: gli zeloti e in particolare i sicari praticavano un sistematico terrorismo contro ogni comunità ebraica “colpevole” di non sufficiente odio verso gli “invasori” romani. Eleazar stesso, rinchiuso a Masada con un migliaio di sicari, compì la sua miglior prodezza assaltando il vicino villaggio giudeo di Ein-Gadi sterminandone la popolazione, donne e bambini compresi, per un totale di 700 persone. Quindi: quali erano i buoni e quali i cattivi?

La sorgente che alimenta l’oasi di Ein-Gadi (Archivio ETS).

LA VITA NELLA FORTEZZA

Durante gli anni di guerra contro Roma, i sicarii di Masada modificarono le costruzioni della fortezza adattandole alle loro necessità e alle pratiche religiose. Costruirono botteghe e piccole abitazioni separate da tramezzi, all’interno delle quali gli archeologi hanno rinvenuto utensili di uso quotidiano come recipienti di pietra per il cibo, ideali per evitare qualsiasi impurità rituale descritta nella legge giudaica. Vennero costruiti anche bagni destinati alle abluzioni rituali (mikvaot in lingua ebraica) e un forno per cuocere il pane. Nello spogliatoio dell’edificio delle terme di Erode furono aggiunte delle panche e una vasca in un angolo.

I ribelli adattarono alle loro necessità anche la sinagoga, costruendo una panca continua, e ciò suggerisce la necessità di accogliere molte più persone rispetto al passato, quando gli edifici servivano solo per il re, la sua famiglia e alcuni cortigiani. Negli scavi della sinagoga furono scoperti frammenti di ceramica (ostraka) con l’iscrizione “decima dei sacerdoti”, il che significa che si preoccuparono di pagare il tributo dovuto al Tempio di Gerusalemme, e una ghenizah, una buca scavata nel terreno per custodire i testi sacri che, ormai deteriorati, non si potevano più usare per il culto. Tutto ciò indica che i sicarii osservavano scrupolosamente la Legge di Mosè, seppur in una versione radicale che, secondo loro, li autorizzava a togliere la vita sia a tutti i nemici di Israele sia ai compatrioti che non obbedivano alla Legge.

Masada, la Sinagoga.

Nel corso della guerra, Masada accolse un numero sempre crescente di giudei che fuggivano all’opera di devastazione del Paese. Gli scavi hanno portato alla luce dei reperti che dimostrano che, oltre ai sicarii, sulla rocca di Masada si rifugiarono anche i samaritani (una comunità di ascendenza giudaica ritenuta però impura dai giudei) e gli esseni, una setta ascetica giudaica che aveva una comunità a Qumran, non lontano da Masada, a cui abbiamo dedicato un articolo.

LE AQUILE SI MUOVONO: L’ASSEDIO

La Legio X Fretensis.

Nel corso del tempo si è imposta un’immagine romantica di Masada quale ultimo baluardo della resistenza ebraica nella lotta per la libertà, rifugio per gli esuli della guerra. In realtà non è così: sicarii e zeloti odiavano e attaccavano allo stesso tempo Romani ed ebrei. Malgrado il loro apparente patriottismo, non esitavano – come abbiamo visto – ad assaltare, sequestrare ed assassinare anche gli ebrei al solo scopo di accumulare bottino. Una situazione intollerabile per l’Impero: Masada doveva assolutamente essere conquistata con ogni mezzo. Al governatore romano Flavio Silva, inviato in Giudea come Legatus Augusti pro praetore, fu affidato l’incarico di espugnarla Egli, riunendo alla legio X Fretensis le forze ausiliarie che si trovavano distaccate nei fortini della zona, marciò con circa 17.000 uomini contro Masada.

Stendardo della Legio X Fretensis.

Le motivazioni economiche
Oltre alla volontà di impedire che la fiamma della ribellione riprendesse vigore dopo tre anni dalla caduta di Gerusalemme, la risoluzione di partire all’attacco di Masada fu determinata anche da opportunità economiche. I ribelli di Masada, infatti, mettevano in pericolo l’attività delle piantagioni di balsamo della vicina Ein-Gadi, estremamente redditizia – secondo quanto riportato da Plinio il Vecchio, il commercio dei profumi di Giudea produsse la notevole somma di 800.000 sesterzi durante i cinque anni di guerra-, e ai Romani non conveniva perdere questa importante fonte di reddito.

Difficoltà logistiche
Eleazar Ben Yair si preparò alla difesa ponendo molte speranze sull’abbondanza di cibo ed acqua di cui disponevano. Ma era un particolare che conosceva anche Flavio Silva: la fortezza doveva quindi esser presa d’assalto.

L’assedio di Masada presentava diverse difficoltà. I Romani dovevano far arrivare l’acqua da Ein-Gadi, situata a parecchi chilometri di distanza, e i viveri da Gerico o da Gerusalemme, poiché nella depressione del Mar Morto, 400 metri sotto il livello del mare, le temperature, torride in estate e gelide in inverno, impedivano la pratica dell’agricoltura. Sulla cima di Masada, invece, il clima era più mite e gli assediati potevano contare su riserve d’acqua e viveri, oltre che sulla disponibilità di armi. Animati da uno spirito indomito, i sicarii erano disposti a difendersi fino alla fine.

Visione aerea di Masada. Si può vedere l’incredibile posizione dello sperone roccioso.

Inizia l’assedio
Flavio Silva si assicurò prima il controllo dell’intera zona circostante, stabilendovi presidi nei luoghi più opportuni. Subito fece costruire una muraglia che circondava tutto il promontorio, con torri di vigilanza a intervalli regolari, e allestì in totale otto accampamenti che non dovevano servire solo ad alloggiare le truppe, ma anche a evitare fughe degli assediati e a difendersi da incursioni esterne e vi pose a guardia delle sentinelle. Si accampò quindi con la legio X Fretensis per condurre le operazioni d’assedio, dove le pareti a strapiombo della fortezza risultano più prossime alla vicina montagna, anche se risultava in posizione poco comoda per i rifornimenti. Disposto tutto ciò, il Legatus si dedicò all’assedio, che richiese grande abilità strategica e sforzi non indifferenti per la straordinaria solidità della fortezza.

Muro di assedio di Masada e sue sezioni – Journal of Roman Archaeology.

La rampa
Alle spalle della torre che dominava il sentiero che ad occidente s’inerpicava verso la reggia, si trovava una grossa prominenza rocciosa, sufficientemente larga, che andava sviluppandosi in altezza fino a 133 metri sotto il livello delle mura di Masada. Flavio Silva dispose di occuparla e ordinò di costruirvi sopra un terrapieno dell’altezza di 89 metri per colmare il dislivello di 133 m rispetto alla fortezza. Per questi lavori, che si narra durarono sette mesi, furono impiegati giudei fatti prigionieri durante la guerra. E poiché non fu giudicato sufficientemente stabile ed alto per piazzarvi le macchine d’assedio, venne costruita sopra un’ulteriore piattaforma di grossi blocchi uniti insieme, dell’altezza e larghezza di ulteriori 22 metri.

In sostanza si erano andati a colmare 111 m dei 133 m di dislivello. Ne mancavano ancora una ventina. Si provvide, pertanto, a costruire macchine simili a quelle realizzate da Vespasiano e Tito per i loro precedenti assedi oltre ad una gigantesca torre d’assedio, alta quasi 27 metri, tutta ricoperta di ferro, dall’alto della quale i Romani, poterono scagliare proiettili sugli assediati, grazie ad un gran numero di catapulte e baliste, in modo da ottenere che i difensori si allontanassero da quel tratto di mura.

Contemporaneamente Flavio Silva, costruì anche un grosso ariete e dispose di colpire continuamente il muro, fino a quando non lo fece crollare. I sicarii però, erano riusciti a costruire nel frattempo un altro muro, più interno, fatto con travi di legno formanti un’intercapedine riempita con terra, capace di smorzare la violenza dei colpi.
A questo punto Flavio Silva ritenne più opportuno che si procedesse con il fuoco, e ordinò ai suoi soldati di lanciare delle torce accese contro le travi di legno del muro. Il vento, che prese a spirare da sud, spinse le fiamme contro il muro della fortezza di Masada avvolgendolo. Il legno, bruciando, fece collassare il riempimento di terra, e l’ariete aprì quindi una breccia nelle mura sotto gli sguardi impotenti dei difensori.

La gigantesca torre d’assedio.

Una strana ritirata
Era ormai il tramonto e i Romani, contro ogni aspettativa e quando tutto volgeva a loro favore, tornarono alle loro basi prima che l’assalto avesse inizio, decisi ad attaccare il nemico alle prime luci dell’alba. Quella notte le sentinelle vegliarono più attentamente del solito: neppure uno dei ribelli doveva sfuggire alla vendetta di Roma!

In realtà la decisione di Silva ha senso solo se si considera plausibile che l’opera di Flavio Giuseppe abbia uno scopo storico e uno letterario. Non si tratta unicamente di un’invenzione e incorpora elementi fittizi per accrescere l’effetto drammatico. Flavio Giuseppe mirava a presentare al lettore i sicarii come degli estremisti che, ai suoi occhi, avevano provocato la guerra. E narrò quindi come Eleazar Ben Yair avesse avuto il tempo di rivolgersi agli assediati, visto che l’assalto avvenne il giorno seguente.

IL DISCORSO DI ELEAZAR BEN YAIR

Secondo Flavio Giuseppe, quella notte Eleazar Ben Yair pronunciò i due famosi discorsi in cui incoraggiava i compagni a darsi la morte invece di arrendersi:

“Da gran tempo noi avevamo deciso, o miei valorosi, di non riconoscere come nostri padroni né i romani né alcun altro all’infuori del Dio, perché egli solo è il vero e giusto signore degli uomini; ed ecco che ora è arrivato il momento di confermare con i fatti quei propositi. In tale momento badiamo a non coprirci di vergogna, noi che prima non ci siamo piegati nemmeno a una servitù che non comportava pericoli, e che ora assieme alla schiavitù ci attireremo i più terribili castighi se cadremo vivi nelle mani dei romani. Siamo stati i primi, infatti, a ribellarci a loro e gli ultimi a deporre le armi. Credo poi che sia una grazia concessaci dal Dio questa di poter morire con onore e in libertà, mentre ciò non fu possibile ad altri, che furono vinti inaspettatamente. Per noi invece è certo che domani cadremo in mano al nemico, e possiamo liberamente scegliere di fare una morte onorata insieme con le persone che più ci sono care. Né possono impedirlo i nemici, che pur vorrebbero a qualunque costo prenderci vivi, né possiamo noi ormai superarli in battaglia”

Flavio Giuseppe, Bellum Iudaicum

È difficile credere che tutti gli occupanti di Masada fossero spinti dalla stessa risolutezza, ed è piuttosto lecito pensare che alcuni dovessero essere contrari, o quantomeno intimoriti: il suicidio infrange infatti i comandamenti della Torah.
Forse per questo motivo Ben Yair ebbe bisogno di un secondo discorso per convincere gli indecisi. Secondo lui solo dandosi la morte avrebbero privato i Romani di una vittoria totale. Flavio Giuseppe narra che fu quest’argomentazione a mettere tutti d’accordo.

IL SUICIDIO COLLETTIVO

I Sicarii presenti, racconta Flavio Giuseppe, diedero ascolto al loro capo e iniziò il suicidio collettivo, descritto in modo dettagliato:

“Così, mentre carezzavano e stringevano al petto le mogli e sollevavano tra le braccia i figli baciandoli tra le lacrime per l’ultima volta, al tempo stesso, come servendosi di mani altrui, mandarono a effetto il loro disegno, consolandosi di doverli uccidere al pensiero dei tormenti che quelli avrebbero sofferto se fossero caduti in mano dei nemici. Alla fine nessuno di loro non si rivelò all’altezza di un’impresa così coraggiosa, ma tutti uccisero l’uno sull’altro i loro cari: vittime di un miserando destino, cui trucidare di propria mano la moglie e i figli apparve il minore dei mali. Poi, non riuscendo più a sopportare lo strazio per ciò che avevano fatto, e pensando di recar offesa a quei morti se ancora per poco fossero sopravvissuti, fecero in tutta fretta un sol mucchio dei loro averi e vi appiccarono il fuoco; quindi, estratti a sorte dieci fra loro col compito di uccidere tutti gli altri, si distesero ciascuno accanto ai corpi della moglie e dei figli e, abbracciandoli, porsero senza esitare la gola agli incaricati di quel triste ufficio.

Costoro, dopo che li ebbero uccisi tutti senza deflettere dalla consegna, stabilirono di ricorrere al sorteggio anche fra loro: chi veniva designato doveva uccidere gli altri nove e per ultimo sé stesso; tanta era presso tutti la scambievole fiducia che fra loro non vi sarebbe stata alcuna differenza nel dare e nel ricevere la morte. Alla fine i nove porsero la gola al compagno che, rimasto unico superstite, diede prima uno sguardo tutt’intorno a quella distesa di corpi, per vedere se fra tanta strage fosse ancora rimasto qualcuno bisognoso della sua mano; poi, quando fu certo che tutti erano morti, appiccò un grande incendio alla reggia e, raccogliendo le forze che gli restavano, si conficcò la spada nel corpo fino all’elsa stramazzando accanto ai suoi familiari. (…) Novecentosessanta furono le vittime, comprendendo nel numero anche le donne e i bambini, e la data dell’eccidio fu il quindici del mese di Xantico” (Aprile del 73).

L’ASSALTO FINALE

Quando all’alba i Romani iniziarono l’assalto finale, gettando passerelle per avanzare dal terrapieno, rimasero stupiti per la totale mancanza di resistenza. Una volta scavalcate le mura trovarono la fortezza desolata e gli edifici in fiamme, senza capire cosa fosse realmente accaduto. Per vedere se si facesse vivo qualcuno levarono un grido che i sopravvissuti udirono e usciti dal nascondiglio raccontarono ai Romani tutti i particolari dell’accaduto. Si trattava di due donne, un’anziana e una parente di Eleazar e cinque bambini che si erano salvati dal massacro nascondendosi nei cunicoli sotterranei che trasportavano l’acqua potabile. Gli assalitori, meravigliati dinanzi a tanta forza d’animo, cercarono di domare l’incendio e, una volta entrati nella reggia, quando videro quella immane distesa di cadaveri, non provarono esultanza per aver annientato il nemico, ma ammirazione per un nobile gesto.

Dopo la sua presa, Masada rimase in mano ai Romani fino a tutta l’epoca bizantina. In questo periodo venne a lungo abitata da monaci cristiani che vi costruirono anche una basilica. Dopo l’invasione araba il luogo venne abbandonato e piano piano si perse addirittura il ricordo della sua posizione; venne infine riscoperta oltre un secolo e mezzo fa per diventare simbolo della causa sionista.

QUANTO È AFFIDABILE FLAVIO GIUSEPPE?

E questa è la storia di Masada, almeno come l’abbiamo sempre conosciuta. Tuttavia, essa presenta punti poco chiari, sia dal punto di vista archeologico che narrativo, a partire quindi dal racconto di Flavio Giuseppe. In molti credono che il racconto particolareggiato della tragica notte si basi sulla testimonianza delle donne e dei bambini sopravvissuti, ma sembra improbabile che avrebbero potuto ricordare in ogni parola il discorso del loro capo: Flavio Giuseppe era famoso per le sue licenze retoriche e l’attribuzione di ferventi orazioni a eroi del passato era un espediente letterario che usava di frequente.

Nonostante Flavio Giuseppe fosse uno storico, non dobbiamo pensare che l’accuratezza dei tempi in cui scrisse sia la stessa che usano gli storici moderni: come molti altri storici della tradizione greca o romana ricostruisce interi eventi o discorsi di importanti personaggi un po’ alla cieca, dato che ancora non esisteva un criterio scientifico di selezione delle fonti. Tutto quello che viene raccontato nella Guerra giudaica va quindi preso con le molle.

Quanto ai Romani, la loro vittoria era omaggiata dalla strenua resistenza dei ribelli e dalla loro triste fine: non c’è gloria nella sconfitta di un nemico debole, e accettare la versione di Flavio Giuseppe per loro non costituiva un problema.
È invece possibile che le cose siano andate in modo diverso. Probabilmente Silva non si ritirò quella notte, e i suoi soldati valicarono le mura della fortezza affrontando i ribelli, caduti poi in combattimento. A quel punto i familiari dei guerrieri scelsero il suicidio come alternativa alla prigionia.

Eroismo o femminicidio?
Senza voler cadere nella trappola di misurare eventi così lontani col metro del pensiero attuale, ci chiediamo se davvero assassinare mogli e figli fu un atto di eroismo. Se davvero pensiamo che venne chiesto alle donne e ai bambini se desideravano morire anziché essere venduti schiavi. Le due donne e i cinque bambini dovettero nascondersi per salvarsi, terrorizzati. Di certo le donne e i figli, se avessero potuto scegliere la vita non avrebbero dovuto nascondersi.

L’eccidio, se veramente avvenne, fu sicuramente una vergogna infamante fomentato da un fanatico terrorista integralista. Infatti, come abbiamo detto il suicidio infrange i comandamenti della Torah e lo stesso vale per l’assassinio, cosa che non ha mai turbato i sicarii, che hanno commesso sanguinosi crimini senza il minimo rimorso.

GLI SCAVI DI YIGA’EL YADIN

Ritratto del Professor Yiga’el Yadin.

L’assedio di Masada è diventato uno dei miti fondativi di Israele: negli anni della formazione dello stato israeliano venne ripreso dagli intellettuali sionisti come simbolo della forza d’animo del popolo ebraico, e venne esplorato per la prima volta da spedizioni semi-clandestine dopo che era rimasto abbandonato per secoli.

Gli scavi archeologici a Masada iniziarono negli anni Sessanta sotto la guida di Yiga’el Yadin, archeologo, militare ed ex vice-primo ministro, il quale ritenne che le testimonianze archeologiche provassero il racconto di Flavio Giuseppe.
Tra il 1963 e il 1965 Yadin guidò diverse campagne di scavo, scoprendo i resti di tre individui: le ossa di un uomo, quelle di un bambino e i capelli di una donna. Trovò anche i resti di altre venticinque persone in una delle grotte più piccole della falesia a sud dello sperone. Tra le ossa sparse a terra comparvero inoltre frammenti di tessuti e pezzi di tela. Lo studio del Dottor Nico Hass stabilì che le ossa appartenevano a uomini tra i ventidue e i ventisei anni, ad un uomo di più di sessanta, a giovani donne tra i quindici e i venticinque e diversi bambini di dodici anni. Yadin non si soffermò sull’origine dei resti umani. Per lui erano i “difensori di Masada”.

1962: David Ben Gurion, con Yiga’el Yadin e Shimon Peres visitano il sito archeologico di Masada.

Le tracce dell’assedio poi divennero chiare quando si identificò la gigantesca rampa edificata dai legionari per aver ragione della montagna. Yadin trovò anche undici “ostraka”, dei cocci usati per le estrazioni a sorte, su cui erano incisi dei nomi, uno dei quali è “Ben Yair”. Secondo l’archeologo questi costituivano la prova che la storia raccontata da Giuseppe Flavio era vera.

Sepoltura militare
Nel 1969 i primi tre corpi vennero omaggiati con un funerale di Stato e furono sepolti con tutti gli onori sotto la rampa di Silva, mentre il resto fu inumato sul Monte degli Ulivi, a Gerusalemme.

I funerali di Stato per i corpi rinvenuti a Masada.

SORGONO I PRIMI DUBBI

L’ipotesi che i resti umani appartenessero ai difensori di Masada fu, tuttavia, indebolita da successive ricerche, che proverebbero, al contrario, che i corpi ritrovati appartenevano a occupanti molto più tardi, di epoca bizantina, oppure a romani della Legione Fretense o della guarnigione che fu presa con l’inganno e massacrata dagli uomini di Eleazar, un’ipotesi suffragata anche dal ritrovamento nel 1982 di ossa di maiale, animale che, com’è noto, è considerato impuro dagli ebrei.

Negli anni novanta del secolo scorso l’antropologo Joe Zias e l’esperto forense Azriel Gorski hanno esaminato di nuovo i ritrovamenti e sono giunti a conclusioni radicalmente diverse da quelle di Yadin. Secondo loro la chioma era stata tagliata a una donna viva, e ciò corrisponderebbe all’abitudine ebraica di rasare le donne straniere catturate in battaglia, come indicato nel capitolo 21 del Deuteronomio. Secondo Zias e Gorski, la donna era la moglie di un militare romano che difendeva Masada quando gli zeloti la conquistarono nel 66. Gli scheletri maschili corrisponderebbero a quelli di due romani morti durante la conquista, e i loro corpi furono gettati da una sala del palazzo nord che gli zeloti usarono come una sorta di discarica. Da quello stesso luogo furono lanciati anche i capelli della donna.

Gli ostraka ritrovati.

Stesso discorso per gli undici pezzi di ostraka – un termine greco che nel gergo dell’archeologia significa “frammento di ceramica” – usati per le estrazioni a sorte su cui sono iscritti dei nomi.

Un ostrakon con inscritto il nome di Ben Yair.

Uno di questi è “Ben Yair”. Secondo Yadin e altri studiosi questi ostraka servirono per sorteggiare i sicarii che avrebbero dovuto uccidere gli altri prima dell’arrivo dei Romani. Tuttavia, il racconto di Giuseppe dice che furono scelti dieci uomini, non undici. E l’esistenza stessa degli ostraka, dicono i critici, non spiega comunque il loro scopo: se come sostiene Yadin, servissero a decidere chi avrebbe ucciso per primo gli altri uomini, o se invece per qualcos’altro, magari per un passatempo in cui si prevedeva un’estrazione.

Altra questione che non torna: nonostante la stima di Flavio Giuseppe secondo cui a Masada morirono 967 persone, gli scavi hanno scoperto solamente 28 corpi e solo tre nel palazzo dove Giuseppe disse che si tenne il suicidio di massa. E gli altri 932 cadaveri dove sono?

LA SCARSITA’ DI PROVE

Nonostante gli israeliani considerino vera la storia raccontata da Flavio Giuseppe, gli studiosi non sono tutti d’accordo, anzi: “La verità“, scrive il quotidiano israeliano Haaretz “è che gli scavi di Yadin hanno fornito poco materiale archeologico per corroborare o negare il resoconto dell’assedio di Giuseppe. I reperti restano aperti all’interpretazione”.

Nachman Ben-Yehuda, professore all’Università Ebraica di Gerusalemme nel dipartimento di Sociologia ed Antropologia, sostiene poi che gli archeologi guidati da Yadin fossero delusi da quanto poco avessero trovato per confermare le affermazioni di Flavio Giuseppe e che Yadin abbia modificato le sue conclusioni proprio per sostenere la versione dello storico. Tra i reperti ritrovati da Yadin a Masada c’erano pergamene, ceramiche, un sandalo, armi e monete che risalgono all’anno dell’assedio, dei corpi: tutte cose che provano che a quel tempo ci fosse un insediamento umano, ma che non dimostrano ciò che avvenne a Masada nel 73 d.C.

UN IMPEGNO PATRIOTTICO, MA POCO ARCHEOLOGICO

Uno dei francobolli emessi da Israele nel 1965 per Masada.

Lo sforzo di Yadin fu più pedagogico e patriottico che non realmente scientifico: egli sapeva che la sua giovane nazione aveva bisogno di miti fondanti. Sapeva che Israele era accerchiato e che solo vent’anni prima la quasi totalità del suo popolo era stata condotta a morte senza combattere. C’era dunque la profonda necessità spirituale di dimostrare al mondo (e agli ebrei stessi) che un ebreo sapeva battersi e morire. Un feroce dibattito dilaniava in quegli anni la nazione ebraica: molti sopravvissuti all’olocausto provavano vergogna per non essersi opposti al nazismo e ai pogrom. I coloni sionisti che non avevano conosciuto direttamente la Shoah non riuscivano (e non volevano) capire perché gli ebrei europei non avessero fatto ovunque come a Varsavia nel 1943, rivoltandosi contro Hitler, invece di farsi assassinare senza combattere. Masada era una maniera per trovare sollievo da queste angosce.

UNA VISIONE REALISTICA

Il Professor Nachman Ben-Yehuda

Non usa mezzi termini il Professor Nachman Ben-Yehuda, ordinario dell’Università Ebraica di Gerusalemme nel dipartimento di Sociologia ed Antropologia. Masada, un mito su cui si è fondato molto dell’ethos del moderno Israele, deve essere largamente riscritto. “Quando esaminiamo a fondo […] la Grande Rivolta e Masada, semplicemente non abbiamo alcun ritratto di eroismo. Al contrario. I racconti narrano la storia di una fatale (e discutibile) rivolta, di un gigantesco fallimento e della distruzione del Secondo Tempio e di Gerusalemme, di massacri di ebrei su larga scala, di differenti fazioni di ebrei che combattevano e si ammazzavano a vicenda, di suicidi collettivi (un atto non visto con favore dalla fede ebraica) perpetrato da un gruppo di terroristi e assassini il cui “spirito combattivo” può essere stato incerto.”

LA RAMPA D’ASSALTO FU MAI PORTATA A TERMINE?

Haim Goldfus, professore presso l’università israeliana Ben Gurion del Negev, ha messo in dubbio il fatto dell’assedio, poiché non ci sarebbe alcuna prova di una battaglia né a sostegno della costruzione della rampa d’assedio utilizzata dai legionari di cui parla Flavio Giuseppe (o per lo meno di una rampa dell’altezza descritta da Flavio, cioè 125 metri). Goldfus ha affermato che dai ritrovamenti nella zona dove i romani avrebbero dovuto sfondare le mura “abbiamo capito che non è successo niente”.

LA VERA DURATA DELL’ASSEDIO

Gli studiosi precedenti hanno probabilmente esagerato la durata e la drammaticità dell’assedio. Gli archeologi tradizionali hanno visto l’enorme muro di cinta che circonda Masada e gli otto accampamenti che i Romani hanno allestito e hanno pensato che l’assedio dovesse durare mesi o addirittura anni.

Resti di uno dei numerosi campi legionari di Masada, appena fuori dal muro di circonvallazione visto dall’alto.

Ma uno studio degli accampamenti e del muro d’assedio che ancora oggi circondano Masada fornisce nuovi dati a sostegno dell’idea che i Romani giunsero, videro e conquistarono la montagna in un lasso di tempo piuttosto breve. In realtà, Giuseppe Flavio non dice mai quanto durò realmente l’assedio, ma solo che terminò alla vigilia della Pasqua (il che potrebbe essere in effetti un espediente letterario per far coincidere il suicidio di massa con l’inizio della festa ebraica della libertà).

Un gruppo di archeologi israeliani ha pubblicato sul Journal of Roman Archaeology uno studio, “Il sistema d’assedio romano di Masada: un’analisi computerizzata 3D di un paesaggio di conflitto“, che ha gettato nuova luce su quelle opere d’assedio, concentrandosi su come furono costruite, quanto tempo ci volle per costruirle e qual era il loro vero scopo.
Gli archeologi israeliani hanno utilizzato rilievi sul campo, immagini di droni e modelli digitali 3D per ricostruire le dimensioni e l’estensione originali delle strutture romane e stimare quanto tempo ci è voluto per costruirle.

Lo studio è stato condotto dal dott. Guy Stiebel della Tel Aviv University, che dirige la spedizione Neustadter che sta attualmente scavando a Masada, e dal dott. Hai Ashkenazi dell’Israel Antiquites Authority e della Goethe University Frankfurt, con i dottorandi Boaz Gross della Tel Aviv University e Omer Ze’evi-Berger della Bonn University. La nuova ricerca fornisce informazioni inedite sulle tattiche militari dell’impero dal “sistema di assedio romano meglio conservato al mondo“, afferma Stiebel. Le conclusioni del team supportano studi precedenti nel dimostrare che l’assedio romano di Masada fu un affare rapido, brutale ed efficiente, nota.
Detto questo, aggiunge, i risultati non mettono necessariamente in discussione gli altri elementi della narrazione di Masada né ne diminuiscono l’importanza.

Le opere di assedio
Composte da un muro di cinta, torri, forti e una rampa gigante di terra, le opere d’assedio romane attorno a Masada furono un’impresa edilizia impressionante, ancora visibile dopo quasi due millenni. Da qui la domanda fondamentale: quanto tempo ci volle per costruirle? Per dare una risposta a questa domanda, gli archeologi hanno condotto l’analisi più approfondita ad oggi delle opere d’assedio, attraverso indagini sul campo, scavi e ricostruzioni in tre dimensioni.

Torre 10 e il muro adiacente (vista verso est). (Fotografia di H. Ashkenazi.)

La spedizione a Masada si è prefissata di applicare le tecnologie digitali a disposizione degli archeologi odierni a queste strutture. In questo sono stati aiutati dall’isolamento del sito e dalla conservazione dei resti.
Anche laddove alcune delle mura e delle torri romane erano crollate in cumuli di macerie, era lecito supporre che la maggior parte delle pietre fosse rimasta al suo posto, poiché l’insediamento in questa zona arida era scarso e non c’era nessuno in giro a rimuoverle e riutilizzarle, afferma Stiebel. Ciò ha reso più facile per i modelli al computer stimare l’altezza, il volume e la lunghezza originali delle opere d’assedio.

Il progetto pluriennale si è concentrato prevalentemente sul muro di cinta poco studiato e sulle torri e fortezze associate. Composto da sette sezioni separate, il muro si estendeva per oltre quattro chilometri, con altri 2,5 chilometri costruiti con lo scopo di proteggere gli otto accampamenti e le 15 torri costruite lungo e vicino al muro. In media, i muri erano spessi due metri e alti circa due metri e mezzo, mentre le torri erano alte poco più di tre metri e mezzo. Sulla base di questi numeri, gli archeologi hanno stimato che i 5.000 soldati romani che assediavano Masada avrebbero impiegato circa due settimane per costruire le opere d’assedio e diverse altre settimane per la costruzione della rampa di accesso a Masada.

Il primo gruppo di campi. Il campo A è parzialmente restaurato, vicino alla funivia. Una torre di guardia e un cancello a Dike vicino al Campo B.

Una delle scoperte più significative riguarda i tempi di costruzione del sistema d’assedio. Lo studio sfida le stime precedenti, secondo le quali i Romani avrebbero potuto completare il muro di circonvallazione in soli 5 giorni. Queste stime si basavano su un discorso di Adriano ai soldati romani in Africa, in cui affermava che un soldato poteva costruire 1 m³ di muro di pietra al giorno. Tuttavia, gli autori dello studio ritengono che questa cifra sia esagerata. “I nostri calcoli del carico di lavoro mostrano che 5.000 uomini avrebbero potuto costruire il sistema d’assedio attorno a Masada in 11-16 giorni”, sostengono i ricercatori, spiegando che le loro stime si basano su una comparazione con l’assedio di Gerusalemme del 70 d.C., dove una forza romana cinque volte più numerosa costruì un sistema d’assedio più grande in tre giorni.

È interessante notare che il muro non aveva parapetto e la sua altezza significava che non era possibile per i legionari usarlo per combattere mentre si riparavano dietro di esso. Ciò significa che i soldati che sorvegliavano il muro avrebbero camminato sulla sua sommità e ci si aspettava che combattessero qualsiasi sortita da quella posizione, ipotizzano i ricercatori. Ciò è confermato anche dalle numerose scale che gli archeologi hanno trovato e che conducevano alla sommità del muro.

Campo F con il piccolo accampamento della guarnigione.

La funzione psicologica del muro
Sebbene uno degli scopi principali dei muri d’assedio fosse quello di proteggere l’esercito attaccante dai contrattacchi, i muri attorno a Masada erano troppo poco spessi per fornire una difesa sufficiente contro reali attacchi a cavallo dall’interno di Masada e non avevano parapetti per proteggere le truppe romane che eventualmente si ponevano sulla loro cresta. Inoltre, le torri erano troppo distanziate l’una dall’altra per consentire agli arcieri di coprire l’intero territorio. Ed è per questo che gli archeologi sono giunti alla conclusione che varie sezioni del muro svolgevano scopi diversi rispetto all’idea corrente che le vuole come opera di difesa dalle incursioni degli uomini di Masada.
Alcune mura infatti, quelle attorno agli uadi (letto di un torrente, in cui scorre (o scorreva) un corso d’acqua a carattere non perenne) e ai burroni della vicina rupe, ad esempio, ricevettero una protezione superiore rispetto ad altre nella parte opposta alla rocca e questo per scoraggiare eventuali ribelli esterni dal venire in aiuto di Masada. Esse infatti, vennero costruite con una maggiore resistenza, sebbene i tratti così costruiti non fossero così lunghi e imponenti da fermare un eventuale assalto in massa e questo sta ad indicare che i Romani, realisticamente, non si aspettavano una minaccia significativa. Altre sezioni del muro, tuttavia, sembrano essere state pensate e costruite per svolgere un impatto psicologico verso coloro che avrebbero pensato di realizzare un’incursione, presentando ai ribelli la mera apparenza di essere invalicabili.

Parte meridionale della circonvallazione. (Disegno di H. Ashkenazi, mappa di base secondo Netzer
Riferimento Netzer1991 , Piano A.)

Il sistema d’assedio romano non era solo un’opera ingegneristica impressionante, ma anche un’arma psicologica potente. Il muro di circonvallazione, in particolare, aveva lo scopo di isolare completamente gli assediati, impedendo rifornimenti e rinforzi e riducendo qualsiasi speranza di salvezza. La circonvallazione inviava un messaggio agli assediati che il consenso non era più un’opzione e che l’assalto era vicino. Questa tattica era volta a suscitare sentimenti di disperazione tra i difensori e a minare il loro morale, una strategia che spesso portava alla resa degli assediati, come accadde in altri celebri assedi romani.

Tuttavia, la costruzione di una circonvallazione non era priva di rischi. Richiedeva un grande impiego di manodopera e tempo, fattori che potevano ritardare l’assalto finale. Nonostante ciò, i Romani erano ben addestrati in queste operazioni e riuscivano a bilanciare efficacemente la necessità di sicurezza con l’urgenza dell’assalto. La costruzione rapida del sistema d’assedio attorno a Masada testimonia l’efficienza e la disciplina dell’esercito romano, capace di completare un’opera così complessa in tempi record.

I tempi di costruzione della rampa

Modello 3D della rampa/scala (vista verso sud-ovest). (Fotografia di H. Ashkenazi.)

Una volta eretti gli accampamenti e il muro, in circa due settimane i Romani avrebbero potuto concentrarsi sulla costruzione della rampa d’assedio. Basta vedere le dimensioni della rampa per comprendere il lavoro mostruoso occorso per realizzarlo: stuoie, pietre, tronchi, rami e carrelli. Dagli scavi archeologici sono emersi i tronchi utilizzati dai romani per compattare la costruzione della rampa, del resto il deserto conserva tutto.

Però, rifatti i conti, la rampa costruita dai romani non sarebbe stata alta 125 m come preteso da Giuseppe Flavio, ma molto meno, forse appena una dozzina di metri, poiché la Legio X comandata da Silva sfruttò uno sperone di roccia calcarea naturale. Sommando tutto insieme, con un po’ più di tempo per i combattimenti, arriviamo a una stima completa di due mesi per l’assedio.

Lo sperone di roccia, tradizionalmente identificato come i resti della rampa romana.

Dalla prospettiva romana non fu una storia così grande, non fu come l’assedio di Gerusalemme. I Romani arrivarono, fecero un attacco di precisione e se ne andarono dopo poche settimane. A sostegno di ciò c’è anche il fatto che, mentre alcuni legionari romani riportano l’assedio di Gerusalemme sulle loro lapidi, finora non ne è stata trovata nessuna che menzioni il conflitto di Masada.

LA QUESTIONE DELLE PROVVISTE

Vi è poi un’altra questione che non va sottovalutata: come avrebbero resistito i rivoltosi un paio d’anni come dice Giuseppe, o solo un anno, senza potersi rifornire di acqua e di viveri? Ammesso che avessero grandi scorte di cereali e di carne secca, occorreva l’acqua per ammorbidire e cuocere tutto ciò, oltre a quella per bere, a parte il lavarsi. Con quel calore i cereali potevano mantenersi bene ma l’acqua sarebbe diventata non più potabile, inoltre sarebbero morti di scorbuto e quant’altro, non potendo cibarsi di verdure e di frutta fresca per così tanto tempo. Ora è vero che Masada disponeva di enormi cisterne d’acqua e grandi magazzini di provviste, ma l’acqua e le provviste ogni tanto qualcuno ce le portava, due anni senza provviste sono davvero tanti per 1000 persone.

Masada, la cisterna.

Se una persona consuma solo (fra bere, cucinare, lavarsi e lavare una veste) 4 lt. al giorno (la strettissima sopravvivenza con quel caldo, cioè senza lavarsi), 1000 persone consumano 4000 lt al giorno, 120.000 al mese e 1.320.000 l’anno. Un mc corrisponde a 1000 l, il che significa che le cisterne di Masada dovevano contenere 1320 mc di acqua, ma quando mai le avrebbero accumulate con le scarsissime piogge del deserto?

MASADA OGGI

Oggi, Masada è un sito patrimonio dell’umanità UNESCO e una delle attrazioni più visitate in Israele, anche perchè il sistema di accoglienza del Parco Archeologico rappresenta un’eccellenza.

Il centro visitatori e l’ostello a Masada.

Per i turisti è uno dei siti archeologici più belli del mondo. Il Sentiero del serpente è il percorso che, tutt’oggi, permette l’accesso alla fortezza di Masada. Lungo oltre cinque chilometri, è piuttosto difficoltoso perché, oltre a essere in salita, lo si percorre sotto il sole cocente del deserto.

L’alternativa è più veloce e meno faticosa, ma non è adatta a chi soffre di vertigini: una funicolare sfreccia nel vuoto con un dislivello di 290 metri e conduce i visitatori fino in cima.

Molti dei turisti che frequentano il sito iniziano la scalata al Sentiero del serpente prima dello spuntare delle prime luci dell’aurora, nel buio della notte rischiarato unicamente dalla luna e dalle stelle, per riuscire a vedere l’alba dall’interno delle rovine dell’antica fortezza. Il sole sembra sorgere da una parete rocciosa per riversare la sua luce su tutto l’avvallamento circostante.

Una visione di luce sonora su Masada, ideata e progettata da Yehuda Ilan, 2007.

I soldati dello Tsahal, le forze armate israeliane, dopo aver scalato la rocca alta 400 metri vi compiono il loro giuramento al termine del periodo addestrativo, promettendo a gran voce “mai più Masada cadrà!” (in ebraico: “Metzadà shenìt lo tippòl“).

Battaglione della fanteria da combattimento “Caracal”, durante la cerimonia del lancio del basco a Masada.

CONCLUSIONI

Mentre l’assedio è famoso nella mente moderna, in realtà era molto meno importante all’epoca, poiché la fortezza nel deserto ospitava solo poche centinaia di ribelli e i Romani erano già riusciti a conquistare Gerusalemme. Forse non sapremo mai cosa avvenne veramente quella notte di aprile del 73.

Comunque siano andate le cose, Masada finì in mano romana, e il ricordo dei sicarii di Eleazar ben Yair finì per stemperarsi nelle pagine dei libri di storia. Per commemorare la vittoria, Roma coniò una moneta con la legenda Iudaea capta e l’immagine di un generale in atteggiamento di sfida, una palma (simbolo del Paese) e una donna seduta che piange.

La legenda di questa moneta di bronzo romana, ‘Iudaea capta’, allude alla sottomissione della Giudea al potere di Roma. I secolo d.C. Museo d’Israele
Foto: E. Lessing / Album.

Il sistema d’assedio romano di Masada: un’analisi computerizzata 3D di un paesaggio di conflitto” è uno studio pionieristico che arricchisce la nostra comprensione delle tecniche militari romane e delle dinamiche di uno degli assedi più iconici della storia. La ricerca dimostra non solo l’efficacia ingegneristica dell’esercito romano, ma anche la complessità delle strategie psicologiche e materiali impiegate per garantire il successo in situazioni di guerra d’assedio. Grazie a questo studio, Masada non è più vista solo come un simbolo di resistenza disperata, ma anche come un esempio di precisione e potenza militare romane.

Il fatto che l’assedio sia durato meno di quanto pensassimo non rende il sito meno interessante o meno importante.
Il ricordo di Masada si è perso per quasi millenovecento anni, fino a quando la sua “riscoperta” a metà del XX secolo non ne fece un simbolo della tenacia giudaica nella difesa dell’indipendenza e della libertà. Masada è molto più di un luogo turistico; è un monumento all’indomabile spirito umano. Quindi, per rispondere al quesito che ci siamo posti e con il quale abbiamo titolato questo articolo, possiamo affermare: si, il mito è più vivo che mai.

La bandiera israeliana sventola sopra le antichità di Masada.

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