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Alla vigilia delle Elezioni Politiche del 25 settembre 2022 non può non venirci in mente il confronto con quelle che si svolgevano duemila anni fa nei municipi dell’Impero Romano. Eh, già. Le elezioni non sono cosa moderna, anche se si svolgevano con modalità diverse da quelle che conosciamo. Una cosa, però, le accomunava: le risse verbali, che in alcuni casi degeneravano in scontri fisici tra opposte fazioni dove a volte ci scappava anche il morto. Ma anche senza arrivare a tanto, ci si “limitava” a denigrare l’avversario politico (vi ricorda qualcosa?).

Oltre a tali metodi, anche negli antichi municipi italici si usavano i manifesti elettorali, ed è l’aspetto sul quale oggi vogliamo soffermarci

I manifesti elettorali

Il luogo dove essi si sono conservati meglio è Pompei, e ci restituiscono un esempio rappresentativo di come si svolgevano le campagne elettorali in quel tempo. Il fiorente e ricco municipio campano, per quanto piccolo, non aveva nulla da invidiare a Roma per quanto riguardava l’estremo antagonismo fra i vari candidati.

I manifesti o, per dirla alla maniera degli antichi, “i programmi elettorali”, erano dipinti sui muri con una vernice di color nero o rosso, a lettere capitali di solito allungate e sfinate, in spazi appositamente scelti e preparati con una velatura di calce o intonaco. Il loro aspetto era generalmente alquanto modesto, giacché tutto si risolveva in un breve testo tratto quasi sempre da un formulario stereotipo, estremamente semplice o stringato, sostanzialmente limitato nel nominare il candidato, indicare la carica a cui ambiva a cui seguivano una raccomandazione e un’esortazione finale. Quindi niente slogan e ritratti in maniche di camicia con la giacca sulla spalla alla maniera di Obama…

La raccomandazione era espressa con la formula di rito oro vos faciatis, letteralmente: vi prego di fare (cioè di eleggere, di votare), abbreviata nelle lettere iniziali OVF. Quasi sempre abbreviate erano anche le parole che indicavano il nome della carica, addirittura con l’uso congiunto di lettere e numeri, come nel caso di IIvir o IIvir i d (che stanno per duovirum o duovirum iure dicundo) accanto al più semplice aed per aedilem. Talvolta, infine, erano abbreviati persino i nomi propri dei candidati (ad esempio Popid per Popidium). Ecco quindi come appariva il testo base di un manifesto: Popid Secund IIvir o v f (“Vi prego di eleggere duoviro Popidio Secondo”).

Le cariche amministrative

Le cariche a cui ambivano i candidati erano principalmente due: il duovirato e l’edilità. I duoviri erano essenzialmente i due “sindaci” che detenevano il potere giurisdizionale e gli edili erano una sorta di “assessori” preposti al funzionamento della città.

I requisiti per potersi candidare erano: possesso di cittadinanza, essere nati liberi, avere la residenza nel municipio o comunque nel territorio, essere moralmente ineccepibili, possedere un ricco patrimonio ed una buona rendita (questo perché gli edili provvedevano alla manutenzione delle infrastrutture di tasca propria). Non si poteva aspirare al duovirato se prima non si era stati edili per circa tre o cinque anni.

Ai duoviri spettava la responsabilità della politica comunale: la gestione finanziaria, la riscossione delle imposte, la costruzione delle opere pubbliche maggiori (strade, templi, teatri).

Agli edili spettava la gestione ordinaria: la manutenzione delle strade e degli edifici pubblici, la gestione dei mercati e della polizia urbana (i vigiles).

I duoviri designati con l’appellativo iure dicundo (giurisdicenti) erano i magistrati supremi ed eponimi (davano cioè il nome all’anno) e si occupavano degli interessi della città e dei suoi cittadini.

Propaganda e ironia velenosa

Inutile dire che per far breccia sull’elettorato, i candidati puntavano sulle loro presunte doti morali e quindi ognuno di essi era presentato come un campione d’onestà, saggezza e capacità, oltre ad essere esaltato come vir bonus et egregius (galantuomo), verecundissimus (assai modesto), dignissimus (molto virtuoso), benemerens (meritevole d’ogni bene), frugis (parco), integrus (integerrimo), innocens (incapace di fare del male).

Molti testi erano involontariamente divertenti: “Vi prego di eleggere Giulio Polibio edile perché fa del buon pane”; “Si invita a votare Bruttio Balbo che conserverà la cassa municipale”; “Votalo, perché durante il suo precedente mandato non è morto neppure un asino!”.

La gente della strada, tuttavia, si divertiva ad aggiungere commenti velenosi: “Per ambizione, quante bugie si scrivono!”; “Mi meraviglio, o parete, che tu non sia ancora crollata sotto il peso delle scempiaggini di tanti scribacchini!”.

Il clientelismo ha origini antiche

Ma in barba alle virtù decantate dal candidato, la pratica della raccomandazione, del clientelismo e della corruzione cominciano – ahimè – proprio nell’antica Roma. Il cliens era quel cittadino che, per la sua posizione di svantaggio nella società

dell’epoca, si trovava costretto a ricorrere alla protezione di un patronus, in cambio di svariati favori, fra i quali il voto nelle assemblee. La legge tentava di frenare la corruzione e i tentativi di persuasione dei cittadini, soprattutto di quelli più disagiati, vietando ogni iniziativa pubblica di munificenza e beneficenza. Era inoltre proibito fare regali ed elargizioni a chiunque, organizzare feste o pubblici banchetti, non essendo ancora esistente il concetto odierno di cena elettorale, dove molti ancora oggi vi partecipano per mangiare a sbafo salvo poi votare un altro… Poiché era praticamente proibito tutto, ecco che i manifesti elettorali rimanevano l’unico strumento a cui affidarsi.

Invadenza al limite della tolleranza

Essendo il manifesto elettorale l’unica via consentita e potendo essere eseguito con estrema facilità, si ebbe la conseguenza che nel periodo di campagna elettorale ogni muro della città divenisse facile preda dei suoi estensori. Questi si allineavano soprattutto lungo le vie più importanti e si addensavano nelle zone più frequentate e popolari nonché nelle posizioni più strategiche. Particolarmente presi di mira erano i muri delle case di cittadini influenti e quelli presso le sedi di qualsiasi tipo di associazione (dai collegi sacerdotali alle corporazioni artigiane). Ma la petulante invasione dei manifesti, che non rispettava nemmeno le immagini sacre (assai diffuse specialmente agli angoli delle strade e dei crocicchi), non si limitava al centro urbano più popolato ed animato: si spingeva fino ai luoghi appartati del suburbio e della campagna, dove sorgevano le grandi ville signorili e le fattorie agricole, giungendo persino a profanare i monumenti sepolcrali, le cui epigrafi – contenendo una specie di maledizione – testimoniano il grado di incredibile invadenza. È il caso di una di queste che recita: “Scrittore, passa oltre questo monumento: quel candidato di cui scriverai il nome faccia fiasco e non sia più eletto ad alcun ufficio”.

Chi scriveva i manifesti?

Gli incaricati della propaganda scritta sui muri ed esecutori materiali dei manifesti erano gli scriptores. Il loro lavoro si svolgeva preferibilmente di notte, quando la città era più tranquilla. Per l’occasione si formavano piccole squadre nelle quali ognuno doveva avere un compito preciso legato alle sue capacità: oltre allo scriptor, quindi, troviamo il dealbator (l’imbianchino incaricato di stendere il velo di intonaco di calce sulla parete prescelta), lo scalarius (che portava e poi reggeva la scala sulla quale lo scriptor saliva per scrivere fuori della portata di eventuali sabotatori) ed il lanternarius (che ovviamente doveva far luce con la lanterna).

Atti di sabotaggio

Oggi, e soprattutto in questo periodo, i manifesti elettorali vengono strappati da coloro che non condividono la visione politica dell’avversario, oppure solo per vandalismo: ebbene, anche nell’antichità gli atti di sabotaggio ai danni dei manifesti dovevano essere una consuetudine, se talvolta troviamo scritte, dopo il testo di propaganda, anche delle maledizioni, del tipo: invidiose qui deles aegrotes, “invidioso che cancelli, che ti possa ammalare” …

Una scritta elettorale a Pompei.

Una preziosa testimonianza

Sino ad ora sono stati rinvenuti a Pompei circa 1500 manifesti elettorali. Indubbiamente resistenti alle intemperie, attentamente sorvegliati e spesso accuratamente conservati anche dopo le elezioni per attestare la validità delle scelte per quelli appartenenti a candidati eletti, essi si riferiscono ad una lunga serie di campagne elettorali e testimoniano quanto l’agone politico fosse sentito, nonostante le istituzioni fossero state di fatto svuotate di ogni effettivo potere da quando Augusto aveva fondato l’Impero. La maggior parte dei manifesti conservati giunti fino a noi appartiene al periodo finale della vita di Pompei, di cui i più numerosi sono proprio quelli dell’anno 79 giacché, svolgendosi le elezioni nella stagione primaverile, ed essendosi verificata l’eruzione del Vesuvio il 24 ottobre, gli eletti avevano fatto appena in tempo ad assumere l’incarico.

Pompei.

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