La produzione proposta al Teatro Comunale di Bolzano per l’apertura di stagione della Fondazione Haydn è legata ai due anniversari più importanti di quest’anno: da una parte i 100 anni dalla morte di Puccini, dall’altra i 150 anni dalla nascita di Arnold Schönberg. Come ricordato dal maestro Michele Gamba durante l’incontro introduttivo al dittico, i due compositori ebbero un breve scambio di idee proprio in occasione della prima assoluta italiana di Pierrot Lunaire avvenuta nell’aprile 1924. È innegabile la diversità linguistica ed espressiva dei due compositori, ma entrambi erano partecipi di quella ricerca di rinnovamento del linguaggio musicale e, più in generale, artistico che ferveva nella cultura europea degli anni Dieci e Venti del secolo scorso. Un’altra affinità fra i due era la coscienza delle tradizioni da cui provenivano. Per Schönberg la riflessione sulla parola era mediata dalla tradizione del Lied, un canto intimo e cameristico in cui non era importante lo sfogo lirico quanto la meditazione sulle emozioni nella vita dell’uomo. Pierrot Lunaire rappresenta l’apice di questa tradizione in cui persino il suono cantato si trasforma in un’espressiva intonazione non tanto delle note quanto delle inflessioni della voce parlata. Sempre in questa direzione i cicli di Lieder, pur raccontando una storia, ne evidenziano il lato emotivo ma, come le medievali corone di sonetti, sviluppano un tema e su di esso basano la loro unità. I ventuno testi di Albert Giraud (traduzione tedesca di Otto Erich Hartleben) messi in musica da Schönberg indicano in quel “lunare” l’accentuazione del lato malinconico della maschera, un lato che in realtà ci appare come male di vivere e stato di alienazione. La rarefazione e la percezione alterata della realtà presente nello Schubert del Winterreise sono le lontane radici del mondo sonoro di Pierrot Lunaire, a cui però si aggiunge una ricerca timbrica conscia delle sperimentazioni sul colore puro fatte in quegli stessi anni da Vasilij Kandinskij. A conferma di questo legame colore-suono va ricordato che il lavoro di Schönberg viene composto proprio nel periodo della sua affiliazione al Blaue Reiter.
Gianni Schicchi naturalmente si rifà al melodramma italiano, ma con una novità importante: la musica composta da Puccini non solo caratterizza le emozioni dei personaggi ma dipinge attraverso i suoni le loro azioni, anticipando le soluzioni adottate negli stessi anni dalla musica per film. Ciò che si vede e ciò che è immediatamente comprensibile sono alla base della drammaturgia concepita dal compositore e dal librettista, Giovacchino Forzano. Un mondo differente da quello schönbergiano, ma animato dallo stesso spirito di ricerca: nella struttura e nell’orchestrazione del terzo pannello del Trittico si possono riconoscere echi di Debussy e dello Stravinskij fauve, si intuisce infatti la conoscenza de Le sacre du Printemps e di Petruška da parte di Puccini. Se si allargasse lo sguardo anche a Il tabarro e a Suor Angelica, si percepirebbero influenze persino da Strauss e Respighi. Il compositore lucchese stava cercando di inglobare all’interno del proprio stile le tendenze della sua contemporaneità.
Valentina Carrasco coglie quest’ansia di ricerca tipica del periodo intorno alla prima guerra mondiale: il suo progetto registico vede in Pierrot Lunaire un prologo concettuale che permette di comprendere le scelte poi operate in Gianni Schicchi; il mondo di riferimento della regista non è però quello musicale, quanto quello artistico. Alda Caiello, soprano, viene trasmutata da voce di Pierrot a voce di una musa che si aggira in mezzo a tele coperte o bianche e che guida un artista, Bruno Taddia, alla ricerca della propria identità; il percorso si snoda dalla figuratività espressionista di Munch, passando per le figurazioni e i ritratti di stampo post-impressionista e i colori accesi dei fauves, cita la sensualità inquieta di Schiele per concludersi nella pittura cubista di un Pierrot che ricorda quello dipinto da Juan Gris. Ma questa non rimane solo figura dipinta: già anticipata da un passaggio sullo sfondo in uno degli ultimi Lied del ciclo, la figura diventa reale (Sara Cortolezzis, soprano che interpreterà poi Lauretta), partorita dalla mente dell’artista che si muove secondo una prospettiva frontale tipica del cubismo; la sua presenza placa l’ansia del creatore mentre le ultime note dell’ensemble strumentale (i Solisti dell’Orchestra Haydn) risuonano nella sala. Lo Sprechstimme, l’intonazione approssimativa dei suoni in favore di un’evocazione delle inflessioni espressive della voce, è una tecnica drammaturgicamente rischiosa in quanto, se mal gestita, potrebbe frammentare l’unitarietà del discorso musicale; Caiello invece mostra l’estrema musicalità del ciclo, e attraverso una voce limpida e duttile, trasporta l’ascoltatore nell’espressionismo lirico della partitura. Il ciclo non è pensato per una rappresentazione scenica, ma la regista ravviva il tutto attraverso pantomime in cui sia Caiello che Taddia trasmettono agli spettatori l’inquietudine della ricerca avanguardista. I testi diventavano emanazioni delle tele confusamente sparse sulla scena; i due artisti, oltre che in continuo rapporto reciproco, dialogano in maniera serrata con esse e con i colori. Interessante che in concomitanza dei Lieder Raub (Rapina) e Rote Messe (Messa di sangue) le gocce descritte diventino il dripping di Jackson Pollock. Guidati dal maestro Michele Gamba, gli strumentisti rifrangono le atmosfere notturne e alienate sul palco, benché la loro ubicazione in buca attutisca la percezione delle sperimentazioni timbriche ricercate da Schönberg.
Il dialogo fra epoche artistiche differenti è invece alla base della rappresentazione di Gianni Schicchi. All’alzarsi del sipario siamo di fronte a un trittico dalla cornice dorata, il cui sfondo rappresenta nella pala di sinistra la campagna fiorentina, in quella di destra una veduta di Firenze e in quella centrale una nicchia col santo sepolcro che ricorda Piero della Francesca. I parenti sono trasfigurati in santi: Zita è la Madonna, Buoso è il Cristo, Rinuccio Giovanni Evangelista e Simone sant’Agostino. Gianni Schicchi rimane l’artista che avevamo visto nel Pierrot, mentre in Lauretta si identifica la figura cubista creata nell’atto precedente. L’assunto che guida le scelte registiche è che Dio è morto (ma lo è davvero? In fondo anche Buoso-Cristo partecipa delle ansie dei parenti), l’artista diventa il nuovo creatore e la sua arte sostituisce il culto antico. Alla fine dell’opera i santi vengono intrappolati nei reticoli di un quadro di Mondrian (pittore teosofo), mentre il Cristo-Buoso cerca di adeguare la sua croce alle linee nere delle celle. I Donati si comportano in due maniere sul palcoscenico: quando vi è un’irruzione di persone dall’esterno (rappresentate come i committenti disegnati nelle varie pitture religiose) i parenti, da una parte ricordando le composizioni artistiche d’epoca e dall’altra le scene de La ricotta di Pasolini in cui si ricreano dipinti manieristi, si congelano in tableaux vivants; quando invece si ritrovano fra di loro, si muovono liberamente uscendo anche dalla cornice dorata. L’amore fra Rinuccio e Lauretta diventa il racconto di un dialogo fra antico e moderno: San Giovanni Evangelista, cantando il duetto finale, abbandona la propria tunica per mostrare una maglietta bianca sulla quale si staglia la colomba della pace di Picasso, ed esce di scena con Pierrot-Lauretta muovendosi nella sua stessa maniera. Un’altra connessione col Pierrot Lunaire è data dalla presenza della musa: durante la ricerca del testamento, dal sepolcro scoperchiato esce proprio lei inseguita da Dante che grida “Beatrice!”.
Fra i cantanti che rappresentano i Donati spiccano Enkelejda Shkoza, Zita, per il colore contraltile caldo e la sonorità della voce, e Antonio Mandrillo, che risolve con facilità le asperità della parte di Rinuccio, e la cui voce fresca ben si adatta alla giovane età del personaggio. Applaudita la Lauretta-Pierrot di Sara Cortolezzis, che va apprezzata anche per la difficoltà aggiunta dei movimenti non fluidi necessari a rappresentare la prospettiva distorta del cubismo. La voce di Bruno Taddia, congiunta a una capacità attoriale notevole, tratteggia uno Schicchi che veramente sfida l’eternità per amore dell’arte.
I tempi scelti da Michele Gamba sono dettati dall’idea di concitazione scenica, ma, alcune volte, risultano troppo rapidi. Interessante invece la gestione dei timbri, che porta l’Orchestra Haydn di Bolzano e Trento a sottolineare le novità armoniche della partitura. In questo il direttore riesce a sbalzare in maniera cristallina la partitura, cesellandola in funzione del dramma.
Preso in sé, il progetto registico per riunire le due opere risulta interessante, perché riesce a rappresentare con chiarezza i fermenti culturali che gli artisti vivevano nel primo Novecento per quanto riguarda i rapporti fra antico e moderno. Rimane però in alcuni momenti la sensazione di uno scollamento fra l’idea e i drammi rappresentati, quasi si percepisse l’imposizione dall’alto di uno schema che non ha origine nelle opere stesse, quanto nella visione del mondo dell’epoca in cui vennero scritte. Lo spettacolo comunque riesce nell’intento di emozionare e divertire, e stimola la riflessione. Proprio per questi motivi non è mancata l’attenzione del pubblico che in conclusione di serata ha applaudito con calore.
Marco Cazzuffi
Fonte: connessiallopera.it