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Come si elegge il presidente degli Stati Uniti.

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Negli Stati Uniti ogni giorno, da mesi, gli americani si trovano inondati da sondaggi. E tutti sono essenzialmente divisi in due: il dato nazionale e quello di collegio. Nel primo è in testa la vicepresidente degli Stati Uniti e candidata Democratica Kamala Harris. La forbice a suo favore va dall’1 al 4 per cento. Ma negli Stati chiave, cioè quelli in bilico tra i due candidati, la situazione è molto più incerta. In realtà, contrariamente alla prima impressione, il voto più importante non è quello nazionale, ma di collegio.

Perché? E come funziona? Il voto popolare è il totale dei voti espressi dai cittadini americani durante le elezioni presidenziali. Ogni elettore vota per un candidato presidente e un candidato vicepresidente. Ma questo voto non determinerà chi andrà alla Casa Bianca, altrimenti nel 2016 avrebbe vinto Hillary Clinton, che aveva ottenuto il 2,1 per cento in più di voti rispetto a Donald Trump.

Oppure, nel 2000, Al Gore con il 48,4 per cento avrebbe battuto il Repubblicano George W. Bush, che aveva ottenuto il 47,9. Questo perché, se valesse il numero totale di voti, la California, lo Stato più popoloso d’America con circa 40 milioni di persone, avrebbe un peso sempre maggiore rispetto al Wyoming, che ha 576 mila abitanti, o il Vermont, 643 mila. Per riequilibrare il discorso demografico elettorale, il sistema americano prevede il voto di collegio.

Gli Stati Uniti sono divisi in cinquanta Stati e ciascuno ha un certo numero di Grandi Elettori, basato sulla sua rappresentanza al Congresso, cioè numero di senatori più il numero di rappresentanti. In totale ci sono 538 Grandi Elettori, una cifra che si ricava sommando i 435 rappresentanti della Camera, i 100 del Senato e i tre in rappresentanza della capitale, Washington DC. Quando gli elettori votano, stanno in realtà scegliendo i Grandi Elettori, che sono obbligati a votare il candidato che ha vinto il voto popolare nello Stato di cui sono rappresentanti. Il candidato che riceve almeno 270 voti dei Grandi Elettori vince le elezioni.

Per ottenere il successo a livello di collegio, dunque statale, il candidato deve ottenere anche solo un voto in più del suo avversario: questo sistema è conosciuto come “winner-takes-all”, cioè il vincitore prende tutto. Ma non c’è unanimità di giudizio su questo criterio. Non tutti, negli Stati Uniti, considerano questo sistema il più rappresentativo, ma chi è a favore lo ritiene l’unico che garantisce anche agli Stati meno popolosi di avere voce in capitolo. Qui entrano in gioco due parole che sono diventate abbastanza note anche in Italia: “swing state”, cioè gli Stati che oscillano.

Il riferimento è al fatto che sono Stati in bilico tra Repubblicani e Democratici, diversi da quelli che tradizionalmente eleggono sempre il candidato di un partito: il Texas è considerato storicamente Repubblicano, New York Democratico. Gli swing state considerati decisivi per assegnare la vittoria il 5 novembre, giorno del voto, sono sette: Pennsylvania, Michigan, Wisconsin, Nevada, North Carolina, Georgia e Arizona.

Harris risulta avanti, anche se di poco, nei primi tre, che rappresentano il cosiddetto “blue wall”, il muro blu, dal colore dei Democratici, più il Nevada. Il rosso è, invece, il colore che contraddistingue i Repubblicani. Secondo le recenti medie dei sondaggi, Trump è avanti in North Carolina, Georgia e Arizona. La notte elettorale saranno da seguire questi Stati, sapendo che se Harris conquisterà gli Stati tradizionali assegnati ai Democratici, poi le basterà vincere in Pennsylvania, Michigan, Wisconsin e Nevada per avere la certezza di andare alla Casa Bianca.

Fonte: agi.it

Massimo Basile

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