Destinata a uomini famosi e potenti, nonché di alto lignaggio, per i quali essere dimenticati rappresentava un’onta gravissima riguardante il soggetto, la familia e la gens, la condanna della memoria era una delle pene più aspre a cui si poteva essere soggetti. Pur essendo una pratica molto diffusa a Roma fin dall’età repubblicana, la damnatio memoriae risaliva tuttavia ai tempi degli antichi egizi, i quali ne avevano fatto largo uso in svariate occasioni, e fra i cui destinatari possiamo annoverare faraoni e dignitari. Vediamo qualche esempio di reietti della storia.
La damnatio memoriae in Egitto
Gli antichi egizi credevano che ogni individuo avrebbe avuto un’altra vita dopo la morte, una vita che interessava tutte le parti che componevano l’essere umano: non solo il corpo, che proprio a tale scopo veniva mummificato, ma anche gli elementi spirituali come il ba, il ka e l’akh. Questi elementi potevano assumere forme diverse per tornare sulla terra e incarnarsi in rappresentazioni del defunto, come pitture o sculture. Qualcosa di simile accadeva con un’ulteriore componente spirituale della persona: il nome. Gli egizi scrivevano il proprio nome su diversi tipi di monumenti perché ritenevano che in questo modo avrebbero ottenuto la vita eterna. Ma se il nome di una persona fosse stato cancellato, il suo ricordo sarebbe sicuramente svanito, e l’individuo sarebbe morto per sempre. Per gli egizi non esisteva castigo più spietato della negazione dell’eternità. La damnatio memoriae (usiamo il termine latino, mutuato dal diritto romano, perché non sappiamo quale nome utilizzassero gli egizi per definire tale pratica) poteva anche abbattersi sulla persona mentre era ancora in vita, per esempio quando un faraone allontanava dalla carica un sacerdote o un funzionario perché aveva commesso un delitto importante contro il re o perché si era macchiato di azioni non consone all’incarico. Affinché la condanna fosse completa, si faceva scomparire anche il suo nome: era una morte per oblio. Anche i monarchi potevano incappare in questa condanna, pur in misura minore. Durante la XVIII e la XIX dinastia, ai tempi del Nuovo Regno – che va dal 1550 al 1069 a.C. secondo la cronologia di Manetone – si verificarono gli esempi più significativi e degni di nota.
La regina Hatshepsut
È questo sicuramente uno degli esempi più noti di damnatio memoriae. Hatshepsut (alla quale dedicheremo un articolo più approfondito) era stata la grande sposa reale (termine utilizzato per indicare la consorte principale) del fratellastro Thutmose II. La regina non diede figli maschi al re, che generò comunque un erede con una moglie di rango inferiore. Alla morte di Thutmose, il nuovo monarca era un bambino di quattro anni, per cui Hatshepsut assunse la reggenza dell’Egitto in quanto donna più importante della casa reale. Con il passare degli anni, la reggente iniziò a fregiarsi delle prerogative tipiche di un faraone e arrivò addirittura ad incoronarsi regina, nonostante ci fosse già un sovrano legittimo, fatto incredibile e straordinario per la storia egizia. Quando Hatshepsut morì nel ventiduesimo anno del regno di Thutmose III, il monarca ordinò di eliminare sia il nome della matrigna sia tutte le immagini in cui essa compariva con indosso gli attributi faraonici, compresa la barba posticcia. Tuttavia, non sembra che l’ordine di oblio sia stato dettato dalla vendetta nei confronti di chi lo aveva allontanato dal potere. Il fatto che la damnatio memoriae sia stata messa in opera circa venticinque anni dopo la morte di Hatshepsut, ha fatto ritenere che il faraone volesse salvaguardare il trono per il figlio, scongiurando qualsiasi velleità di potere di un familiare della regina che, in quanto suo erede, avrebbe potuto far leva sui suoi titoli per reclamarli come propri.
Il caso di Akhenaton
Un altro esempio di damnatio memoriae nell’antico Egitto è quello che interessò Akhenaton, il faraone eretico, e i suoi immediati successori. Anche a questo sovrano dedicheremo un articolo, perché la sua figura e tutto ciò che ruota attorno all’”eresia di Amarna” merita di essere approfondito anche nei suoi risvolti inaspettati e sorprendenti. Qui ci limiteremo a dire che Akhenaton mise in atto la rivoluzione religiosa più radicale della storia egizia imponendo il culto monoteistico del dio Aton, il disco solare, a discapito di quello tradizionale di Amon e delle altre divinità. Dal dodicesimo anno del suo regno, diversi membri della famiglia reale andarono incontro a morte prematura, forse a causa della peste che affliggeva l’Egitto. La popolazione, che anche ne subiva gli effetti, ritenne che sia Aton che il suo rappresentante in terra, il faraone, non avessero a cuore le sorti della propria gente. Dopo la sua morte, la “rivoluzione” di Akhenaton fu rinnegata, complice anche la casta sacerdotale di Amon che per anni si vide privata dei secolari privilegi ad essa concessi. Furono quindi cancellati il nome del re, della moglie Nefertiti e del dio Aton. Diversi anni dopo, quando si faceva riferimento ad Akhenaton, invece di pronunciare il suo nome, si parlava del “ribelle”.
Gli altri “re di Amarna” subirono lo stesso destino. Dopo l’effimero regno di Smenkhara fu di nuovo una donna ad ascendere al trono d’Egitto: Ankheperura Neferneferuaton. Nel corso del suo regno iniziò la restaurazione dell’ordine precedente ad Akhenaton, ma fu Tutankhamon ad abbandonare Amarna (che venne progressivamente coperta dalla sabbia del deserto e dimenticata) ed a ripristinare le immagini di Amon, ristrutturando tutti i templi caduti in rovina dopo l’eresia di Akhenaton. Il giovane faraone negò a Neferneferuaton la dignità regale della sepoltura, impadronendosi del suo ricco corredo funerario ed eliminando ogni riferimento alla sovrana che lo aveva preceduto. Gli studi hanno dimostrato che il nome della regina fu cancellato dai vasi canopi e dalle bende della sua mummia, che in seguito sarebbero state usate per l’inumazione di Tutankhamon. E’ probabile, inoltre, che molti elementi del corredo funebre trovati nella sua tomba, scoperta da Howard Carter, fossero, in realtà, appartenuti a Neferneferuaton. Tuttavia, anche Tutankhamon subì la damnatio memoriae ad opera di Horemheb, il quale fece incidere il proprio nome sui monumenti del suo predecessore. Horemheb cercò di rimuovere le tracce di tutti i sovrani vincolati al periodo di Amarna: Akhenaton, Smenkhara, Neferneferuaton, Tutankhamon e Ay. Egli mirava, infatti, a presentarsi come il restauratore dell’ordine, senza alcun tipo di riguardo per i suoi predecessori: la lista dei faraoni presenti sulle pareti del tempio funerario di Seti I ad Abido, nel Ramesseum, riporta il nome di Horemheb dopo quello di Amenhotep III.
La damnatio memoriae nel mondo romano
Simile nei metodi a quella egizia, la damnatio memoriae del mondo romano assumeva tuttavia un significato diverso. Infatti, mentre in Egitto essere cancellati dalle raffigurazioni impediva il ritorno in vita del defunto (semplificando di molto il concetto), a Roma – dove non si credeva ad alcuna forma di resurrezione – subire la cancellazione significava non essere mai esistiti. Ciò rappresentava una delle peggiori punizioni per un cittadino, dal momento che il Romano viveva per la realizzazione di opere che potessero essere ricordate dai posteri: la condanna ad essere dimenticati dopo la morte rappresentava una delle paure più grandi dell’uomo romano che si dice vivesse “Ut nome suum posteritati traditus est”, ossia per realizzare delle azioni “affinché il proprio nome fosse tramandato dai posteri”. L’uomo romano temeva la morte, ma più della morte temeva l’oblio. La condanna della memoria rappresentava quindi un’interruzione della linea storica decretata al fine di cancellare la persona, e con essa ogni prova della sua esistenza, come statue, monumenti trionfali, opere, poemi, carmina. Fin dall’età repubblicana, quando la damnatio memoriae fu ufficialmente introdotta nel corpus civilis romano, tale pratica rappresentava, come abbiamo detto, una delle più atroci pene per un cittadino perché se decretata ed applicata quando il condannato era ancora in vita, essa sanciva una vera e propria morte civile.
A chi veniva inflitta la condanna della memoria
Il Diritto romano individuava due categorie di persone meritevoli di tale castigo: i nemici dello Stato – gli Hostes – e i traditori, e in generale tutte quelle persone che venivano considerate nemici pubblici. La pena poteva essere inflitta esclusivamente dal Senato il quale, dopo un rapido processo e una votazione a maggioranza, dichiarava dapprima l’imputato indegno – indignus – di essere ricordato, e poi comminava ufficialmente la Damnatio Memoriae. Da qui in poi, si metteva in moto la macchina della cancellazione che, salvo alcune varianti, seguiva un preciso protocollo.
Le fasi della damnatio memoriae
L’efficacia della condanna della memoria era naturalmente favorita dalla limitata disponibilità di fonti storiche in età antica. Si cominciava con la abolitio nominis: in questa fase il praenomen del damnatum non si sarebbe tramandato in seno alla famiglia, e sarebbe stato cancellato da tutte le iscrizioni e statue. I nomi romani erano organizzati in tre parti (Tria Nomina): il praenomen, appunto, quello dato dalla famiglia e con cui si era chiamati fin da bambini, il nomen, che rappresentava più generalmente la propria gens di appartenenza, e il cognomen, che spesso si attribuiva in base ad una caratteristica fisica o ad un’azione compiuta. Con la abolitio nominis l’appellativo più personale del condannato non si sarebbe più trasmesso alle generazioni successive.
Si continuava con la rescissio actorum, ossia l’abrogazione totale di tutte le opere e gli atti realizzati dal condannato durante l’esercizio della propria carica. All’indomani della battaglia di Azio, ad esempio, vennero decretate severe misure per obliterare il ricordo di Marco Antonio, avversario del futuro imperatore Augusto.
La punizione della damnatio memoriae comportava anche la manomissione delle stanze della Domus, considerata come un’estensione della personalità di chi ci abitava, molte volte distruggendo i dipinti artistici nelle case di proprietà del condannato, in modo che la casa non fosse più identificabile come la casa del reo. Nella pratica, quando il personaggio aveva molte immagini, ci si limitava a sfigurarne il volto e a tagliare la testa delle statue o dei bassorilievi. A volte ci si spingeva a distruggere la casa, vietando sul sito la ricostruzione di alcunché.
La damnatio memoriae in età imperiale
Fu durante questo periodo che tale condanna subì un ampliamento senza precedenti, giungendo a colpire dopo la loro morte la memoria degli imperatori spodestati o uccisi. Anche in questo caso, tale pratica comportava la cancellazione del nome dalle iscrizioni di tutti i monumenti pubblici, l’abbattimento di statue e monumenti onorari, oltre allo sfregio dei ritratti presenti sulle monete: esse, infatti, erano uno straordinario strumento di diffusione del volto degli imperatori e delle loro vittorie militari. La pratica di cancellare il volto dalle monete era comunque abbastanza limitata in quanto le persone temevano che la cancellazione dell’immagine impressa sulla moneta potesse ridurre il valore intrinseco, e quindi il potere d’acquisto, dell’oggetto. Più di due dozzine furono gli imperatori “cancellati” a causa del loro malgoverno o della loro, vera o presunta, mancanza di rispetto verso il Senato e le sue prerogative. Gli imperatori colpiti dalla “cancellazione” non ricevevano onoranze funebri né monumenti alla memoria, anzi, il loro nome veniva cancellato dalle epigrafi commemorative, affinché di essi non restasse neppure il ricordo.
I reietti del periodo romano
La morte violenta di Caligola nel 41 d.C. costituì la prima occasione per attaccare direttamente la figura dell’imperatore: tuttavia, le sue statue e busti non vennero immediatamente decapitati o distrutti, ma furono rimossi e trasformati nei lineamenti di altri imperatori. Citeremo come esempio solo alcuni dei casi di cancellazione più famosi, nell’impossibilità di elencarli tutti.
Nel 68 d.C. con la morte di Nerone, il Senato sancì per la prima volta ufficialmente la damnatio memoriae, dopo averlo dichiarato hostis publicus, nemico pubblico. Il Senato fu tuttavia costretto a celebrarne i funerali, per non attirare le ire del popolo, che lo amava e che rimase smarrito per la scomparsa dell’ultimo discendente della dinastia Giulio-Claudia. La tanto desiderata “cancellazione” di Nerone da parte della classe senatoriale fu applicata da Vespasiano, il quale si pose come obiettivo quello di restaurare materialmente e moralmente Roma. Con la Lex de imperio Vespasiani, Nerone venne escluso dal novero dei boni principes. La conseguenza di questa legge fu l’abbattimento di tutti i monumenti onorari neroniani, come la colossale statua in bronzo o l’arco di trionfo costruito in seguito alla vittoria sui Parti nel 58 d.C. Inoltre, Vespasiano fece costruire l’anfiteatro, conosciuto in seguito come Colosseo, sul sito della Domus Aurea di Nerone, colmando il lago artificiale e bonificando il terreno al pubblico.
Dopo l’assassinio di Domiziano nel 96, il Senato condannò il suo nome all’oblio. Plinio il Giovane annota quanto “fu delizioso fare a pezzi quei volti arroganti” sulle statue di Domiziano. I rilievi trionfali che l’imperatore aveva commissionato durante il suo regno furono successivamente modificati per rappresentare il volto di Nerva al posto del proprio.
Geta fu co-imperatore dal 209 al 211, prima col padre Settimio Severo e poi col fratello Caracalla, che lo fece uccidere sotto gli occhi della madre e ne ordinò la damnatio memoriae. L’impraticabilità di un tale insabbiamento fu dimostrata dal fatto che le monete di Geta continuarono a circolare per anni dopo la sua condanna, anche se la semplice menzione del suo nome era punibile con la morte. Un altro esempio tangibile della “cancellazione” di Geta lo abbiamo guardando il cosiddetto “Tondo Severiano”, un dipinto a tempera su tavola di legno. I romani eseguivano dei ritratti con colori a tempera su tavole di legno rotonde in onore di personaggi importanti o per l’imperatore in persona come mezzo per diffondere la conoscenza del personaggio. Il “Tondo Severiano” è il solo dipinto a tempera su supporto ligneo giunto fino a noi. Su di esso è ritratta la famiglia dell’imperatore Settimio Severo, con la moglie Giulia Domna e i figli Geta e Caracalla. Nel tondo si vede con chiarezza l’intenzionale cancellazione del volto di Geta a seguito del suo assassinio. Un altro esempio palese lo abbiamo sull’Arco di Settimio Severo nel Foro Romano: nella quarta riga dell’iscrizione presente sull’alto attico dell’arco, il nome di Geta è stato cancellato e sostituito con un altro testo.
Eliogabalo ebbe una vita dissoluta, atteggiandosi in parte a prostituto e in parte a un dio. Anche di questa controversa figura parleremo meglio in un prossimo articolo. I pretoriani assalirono lui e la madre Giulia Soemia. Secondo Cassio Dione, fu ucciso a soli diciotto anni insieme alla madre, mentre lo abbracciava. Decapitati, i loro corpi furono denudati e trascinati per tutta la città. Il corpo della madre fu gettato in un luogo non precisato, mentre quello di Eliogabalo fu gettato nel fiume. Entrambi furono condannati alla damnatio memoriae dal Senato.
Verso il tardo Impero, anche il nome di Massenzio, pretendente al trono dell’Impero Romano d’Occidente, sconfitto da Costantino nella battaglia di Ponte Milvio il 28 ottobre del 312, venne da questi condannato alla damnatio memoriae, se non altro perché doveva riappacificarsi con la comunità cristiana e diffondere la sua propaganda.
La damnatio memoriae in epoca cristiana
Questa pratica non cessò affatto con la fine dell’Impero Romano. Anzi. Possiamo dire che il trionfante cristianesimo e l’affermazione del potere papale si sia scatenato con una furia iconoclasta senza precedenti. I Papi, infatti, si accanirono in modo fanatico e criminale nei confronti delle memorie di Roma, colpevole di essere stata pagana. Le statue, in particolare, vennero deturpate, spezzate, decapitate e calcinate, facendo scomparire così per sempre le testimonianze di un’epoca di irripetibile civiltà che aveva prodotto meraviglie artistiche mai viste prima. Un esempio su tutti: il busto di Germanico, ora conservato al British Museum di Londra, venne deturpato dalla Chiesa che vi impresse a sfregio sulla fronte il simbolo della croce. Solamente con la riscoperta di Pompei abbiamo potuto avere un’idea della grandiosità e della bellezza artistica della civiltà romana altrimenti distrutta per sempre fino al XVX secolo.
Damnatio memoriae e cancel culture, un’inquietante affinità
Chi segue questa rubrica sa che lo scrivente ha un atteggiamento critico e sospettoso verso la cancel culture. I due concetti, pur avendo lo stesso fine, partono, comunque, da diversi presupposti. La damnatio, infatti, derivava dall’imposizione di poteri pubblici dotati di coercizione e veniva applicata con lucido raziocinio al fine di abbattere le tracce storiche di personaggi e sistemi di potere ai quali non si sentiva più di appartenere. Era quindi una pratica “istituzionalizzata” (per fare un esempio moderno, sarebbe assurdo immaginare Berlino ancora piena di svastiche). La cancel culture, invece, si delinea come moderna forma di ostracismo nella quale qualcuno o qualcosa diviene oggetto di proteste da parte di una minoranza in nome della cultura del politically correct, facendo sì che tale personaggio o ideologia venga rimossa dal mondo reale, digitale e social. Il limite di questa folle ideologia è che anche se abbatti una statua o cancelli un’effigie, non elimini ciò che è stato, non cancelli la storia, ma solo la memoria di un determinato personaggio: quindi, anche se abbatti la statua di Colombo, la scoperta dell’America rimane un fatto storico. Magari la abbatti come forma di vendetta per averla scoperta: ma in questo caso sei da ricovero. Censurare e cercare di cancellare ciò che è ormai completamente decontestualizzato dal mondo attuale è il trionfo della moderna ipocrisia.