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Dieci anni senza Claudio Abbado, il direttore che sapeva ascoltare.

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Claudio Abbado. Anche solo, nel decennale della scomparsa, tracciarne un breve ritratto, ricordare i momenti salienti della sua carriera, parlare di qualche registrazione diventata canonica sembra un’impresa titanica di fronte alla statura del personaggio: altri avranno già cantato con miglior plettro le vicende e le glorie del maestro. D’altro canto, è un esercizio utile ritornare e guardare un po’ in retrospettiva cosa ci resta oggi di Abbado, o cosa, dieci anni dopo, più ci colpisce e meglio ricordiamo delle tante vicende di cui è stato protagonista.

Dieci anni fa — piccolo ricordo personale — ero uno studente del primo anno di università a Bologna e anch’io, quella mattina di gennaio, mi ero aggiunto a quella fila interminabile di persone in piazza Santo Stefano in attesa di omaggiare il maestro appena scomparso. C’erano le autorità di ogni ordine e grado e c’erano gli studenti di conservatorio con il loro strumento a tracolla, c’era tanta gente e non solo melomani o appassionati di musica. Tutti insomma riconoscevano Abbado come uno dei grandi italiani. Ma di quale fosse la sua fama anche fuori dai nostri talvolta provinciali confini ho avuto contezza negli anni successivi, quando un cinese mi ha parlato della sua venerazione per Abbado, o quando un berlinese mi spiegò che portava il nome italianissimo di “Claudio” proprio in onore del direttore. E allora, com’è che Abbado è diventato Abbado?

Riassumere qui la biografia del maestro rischierebbe di ridurci a un noioso elenco di titoli, luoghi e date. Avremo però tre grandi periodi da considerare: quello della Scala, dal debutto nel 1960 al lungo regno da direttore musicale, dal 1968 al 1986; i due decenni successivi, quelli della consacrazione mondiale con la direzione della Staatsoper di Vienna e dei Berliner Philharmoniker e gli ultimi anni, caratterizzati dall’impegno con le orchestre da lui stesso fondate.
Dopo gli studi nella Milano natale e a Vienna, i concorsi e i premi, e i primi debutti, da Trieste a Venezia, Abbado viene chiamato, appena trentacinquenne, a risollevare le sorti della Scala diventandone direttore musicale. L’arrivo di Abbado, e a poca distanza, di Paolo Grassi è aria fresca per un teatro che soffriva la fine dell’epoca d’oro dei grandi divi degli anni ’50-’60, e che può entrare così in un’era completamente nuova. Dal punto di vista del repertorio, Abbado apre le porte della Scala alla musica contemporanea (e qui ovviamente non si può dimenticare l’amicizia con Luigi Nono, e con Maurizio Pollini, scomparso solo pochi giorni fa, spesso interprete e ambasciatore delle “nuove musiche”), ed è uno dei primi a imbracciare la svolta filologica che darà luogo alla Rossini renaissance, ripristinando ad esempio Il barbiere di Siviglia (per primo dopo Vittorio Gui) all’originale rossiniano. Caratteristica della stagione di Abbado è anche un cambio di direzione sul piano teatrale: alla regia arrivano gli Strehler, i Ronconi, i Ponnelle, Tarkovskij. E quegli spettacoli, allora considerati rivoluzionari e di grande rottura, sono diventati i grandi classici della Scala. E non mancano, non invecchiati di un giorno, di mietere successi anche nelle riprese odierne. In questa si può riassumere l’opera di Abbado alla Scala: ha stabilito punti fermi, interpretazioni diventate canoniche. Al punto che molti oggi sono convinti che nel Viaggio a Reims Rossini abbia davvero citato il tema della Marsigliese, e invece no, è un inserto di Abbado! Libertà che talvolta il maestro si prendeva, se necessarie a un preciso scopo, come la faccenda del “romito di Sorga” diventato “Francesco Petrarca” nel Simon Boccanegra: una volontà, in un’opera così politica, di avvicinare la lingua al popolo? D’altronde è lo stesso Abbado che organizzava, alla Scala, i concerti “per studenti e operai”, nella prospettiva di democratizzare il pubblico della lirica (all’epoca delle contestazioni alle prime…)

E proprio Simon Boccanegra è forse l’opera-simbolo di Abbado alla Scala. Una produzione con cui chiunque successore si misura, una registrazione (quella del 1977 con Cappuccilli, Freni, Ghiaurov, van Dam e Carreras — “stellare” è una definizione riduttiva per il cast) semplicemente perfetta, in cui la ricerca delle sonorità orchestrali e la purezza verdiana delle linee di canto si fondono a creare l’edizione di riferimento per uno dei grandi capolavori di Verdi. Non è un caso se è stata proprio Boccanegra l’opera che Abbado ha diretto più volte. E che dire invece del Macbeth Verrett-Cappuccilli? Un altro disco diventato stella polare, come nuovamente stella polare per l’opera mondiale era tornata la Scala nella stagione abbadiana.
Abbado lascia la Scala nel 1986, con l’arrivo di Riccardo Muti, latore di un gusto e di uno stile completamente diverso da quello di Abbado (con una rivalità tra i due sempre negata da entrambi i protagonisti, ma certo sentita dal pubblico). Da Milano dunque a Vienna, direttore della Staatsoper solo per pochi anni, ma con due concerti di Capodanno all’attivo, nel 1988 e nel 1991, prima della chiamata da Berlino. Si sa, quella del direttore dei Berliner è un’elezione paragonabile a quella al soglio pontificio, e Abbado è chiamato a succedere nientemeno che a Herbert von Karajan. È appunto, per Abbado, la consacrazione tra i grandissimi della musica. Alla guida dei Berliner aumenta l’impegno dedicato alla musica tedesca, prima meno frequentata (se non per un Mendelssohn, inciso con la London Symphony nel 1985, in cui spicca la mirabile lucentezza dell’Italiana) E così Abbado dirige Beethoven, Brahms, riscopre Mahler (e anche qui arrivano registrazioni diventate storiche), e assieme a questo riporta a Berlino l’attenzione per la musica contemporanea. Le stagioni sono organizzate su cicli tematici, grazie ai quali può imporre arditi abbinamenti e ampliare sempre di più il repertorio dell’orchestra.

Resta sempre lo stile inconfondibile, fatto di poche parole (in prova come nella vita pubblica, sono rarissime le interviste concesse da Abbado), e di gesti e sguardi magnetici che indicano molto quasi senza sforzo. Abbado è sempre intento ad ascoltare, sì, è l’ascolto la componente fondamentale della sua direzione. È lo stile, quello di ascoltare e far sì che tutti si ascoltino tra loro che è proprio della musica da camera (che fu tra l’altro la materia insegnata per qualche anno, prima del debutto sui grandi palcoscenici, da un giovanissimo Abbado al conservatorio di Parma). È un gusto che traspare dalle registrazioni, e che si accentua sempre di più con il passare degli anni. Abbado ricerca così la perfezione in quanto primo ascoltatore dell’orchestra piuttosto che da guida autoritaria. Non a caso, infatti, diceva sempre di trovare le registrazioni più recenti migliori di quelle passate, e riascoltandosi pensava già a cosa avrebbe fatto diversamente. Vuole, Abbado, il contatto più stretto e più diretto con i suoi musicisti, ed è per questo che impara a memoria ogni spartito. Insomma, è così che estende l’approccio di un quartetto d’archi o di un altro piccolo gruppo di strumenti (guardarsi negli occhi, respirare assieme, attaccare con un cenno) ai numeri della grande orchestra sinfonica.

Ed è proprio su questa impostazione cameristica che Abbado costruisce l’ultimo decennio. Lo fa con orchestre da lui fondate, o di cui sceglie personalmente i musicisti. C’è ovviamente l’Orchestra del Festival di Lucerna, una compagine di livello stratosferico dove non c’è un violino di fila che non sia la spalla di un’importante orchestra europea. È con loro che esegue, in un’aura di sacrale perfezione, un ciclo di Mahler quasi completo (manca solo la quasi sproporzionata Ottava). Sublime la chiarezza del contrappunto nella Quinta, l’intensità della Sesta, il sottile umorismo di una Settima condotta con il sorriso sulle labbra. E come non commuoversi quando la tensione della Resurrezione si libera nella prima grande esplosione di gioia? Abbado ne è pienamente partecipe, ha anche lui le lacrime agli occhi negli accordi finali della sinfonia. Che aggettivi si possono trovare per un’esperienza musicale di questo livello?

Lo stesso avviene, in una scala più ridotta, con l’orchestra Mozart a Bologna, città adottiva del Maestro, o con la Mahler Chamber Orchestra. A fianco, e a volte in continuità con i complessi all-stars, Abbado continua instancabilmente a impegnarsi con le orchestre giovanili (un’attenzione che viene da lontano: aveva fondato la EUYO già nel 1976, e la Mahler Jugendorchester negli anni viennesi), spingendosi fino a Cuba o in Venezuela, dove è testimone del Sistema di Abreu. Certo, è questo in fondo l’eco dell’impegno civile e sociale che già aveva caratterizzato gli anni della Scala ed è anche uno dei motivi per cui nel 2013 Giorgio Napolitano lo nominò senatore a vita, primo tra i direttori d’orchestra dopo il gran rifiuto di Toscanini. Il comunicato del Quirinale, infatti, nel ripercorrere gli altissimi meriti con cui Abbado aveva illustrato la Patria, menzionava, accanto ovviamente ai grandi successi di una carriera al vertice delle massime istituzioni musicali mondiali l’attività “per la divulgazione e la conoscenza della musica in special modo a favore delle categorie sociali tradizionalmente più emarginate”. Non avrà molto tempo da dedicare al prestigioso incarico: morirà solo pochi mesi dopo, il 20 gennaio 2014. A Milano, nella Scala vuota, Barenboim dirige la Marcia funebre dell’Eroica. Fuori, ottomila persone a omaggiare e ringraziare il maestro.
Dieci anni più tardi diventa ancora più chiara la consapevolezza della grandezza di Claudio Abbado. Abbiamo visto per esempio come certe esecuzioni siano diventate monumenti, riferimenti, pietre di paragone. Come tutti in qualche modo debbano fare i conti con l’interpretazione di Abbado. Non riascoltiamo in questo periodo le sue registrazioni perché ricorre il decimo anniversario: le avremmo riascoltate in ogni caso, perché sono lo standard, il classico, l’irrinunciabile. Questo abbiamo capito, negli ultimi dieci anni. Che di Abbado, in un modo o nell’altro, non possiamo fare a meno.

Federico Capoani

Fonte: CONNESSIALLOPERA.IT

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