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E’ morto Quincy Jones, leggendario produttore di ‘Thriller’ e ‘We Are The World’.

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Se nella musica si dovesse scegliere definitivamente chi merita di essere ricordato con l’acronimo GOAT, il più grande di tutti i tempi, non c’è dubbio che il titolo vada assegnato a Quincy Jones, che se n’è andato ieri notte a 91 anni a Los Angeles, dopo una vita intensissima e meravigliosa.

Il jazz e la musica nera vivono di titoli, ci sono Re, Regine, Duchi, Conti, First Ladies, Professori ma ‘Q’ è stato il più grande, l’unico capace di attraversare la musica tenendo insieme passato, presente e futuro in un’aura di inscalfibile infallibilità.

Voleva fare il trombettista Quincy Jones quando mosse i primi passi nella musica e da Chicago si trasferì a Seattle dove incontrò un coetaneo, un pianista cieco che allora imitava Nat King Cole destinato a diventare ‘The Genius’: era Ray Charles che sarebbe rimasto per tutta la vita uno dei suoi migliori amici.

Paradossalmente il primo ingaggio importante gli fece capire che il suo futuro non sarebbe stato quello del trombettista: nell’orchestra di Lionel Hampton vicino a lui c’era Art Farmer e con il suo fiuto si rese subito conto che non sarebbe mai stato all’altezza.

Il suo talento formidabile era nello scrivere partiture e arrangiamenti: se ne accorsero i grandi dopo un disco che è una perla dei jazzofili più raffinati, quello di Hellen Merril con Clifford Brown: vennero così gli ingaggi con Count Basie, Sarah Vaughan, Dinah Washington, Dizzy Gillespie.

Ma la differenza la fa la decisione di andare a Parigi a studiare composizione con Nadine Boulanger che tra i suoi allievi aveva avuto Leonard Bernstein, Aaron Copland e Astor Piazzolla.

Quando torna in America la strada è pronta per il mito di ‘Q’: lavora con tutti i grandi, scrive gli arrangiamenti dei dischi memorabili di Frank Sinatra e Count Basie (stupendo il suo ricordo di Sinatra che guardando la sua partitura gli disse: “troppe note”), a Miles Davis, da Barbra Streisand a Tony Bennet tutti chiedono il suo magic touch.

Lavora tantissimo per il cinema e per le serie tv, cogliendo sempre lo spirito del tempo, muovendosi con disinvoltura tra Blaxploitation e cinema d’autore come ‘Il colore viola’ di Spielberg.

Nel pop ha lavorato tantissimo ma è chiaro che, costretti a riassumere una carriera incredibilmente ricca di eventi, che nella sua discografia spicca la magica trilogia di Michael Jackson: ‘Off The Wall’, ‘Thriller’, ‘Bad’: vuol dire 200 milioni di copie in tre dischi, i tre capitoli fondamentali di un mito del pop: quando il sodalizio con Quincy Jones è terminato, è iniziata la discesa agli inferi di Michael Jackson.

“Nella Black Music ci sono dei giganti come Marvin Gaye o Al Green ma Michael is magic” diceva. Quando il ‘Bad World Tour’ passò per l’Italia nel 1989 a parlare con i media erano Quincy e il manager di allora Frank Di Leo: durante un’intervista, Jones fermò il colloquio e mi chiese: “puoi farmi un favore?” Alzati e vai verso l’ascensore”.

Naturalmente mi alzai e andai verso l’ascensore. Con stupore mi sono reso conto che Quincy Jones mi camminava acquattato dietro per nascondersi da qualcuno. Mi disse dopo che non voleva farsi vedere da Tony Renis, che lo braccava da giorni in albergo: i due avevano collaborato negli anni ’60. Solo lui, come racconta il meraviglioso documentario intitolato in italiano ‘La notte che ha cambiato il pop’, poteva organizzare un progetto come ‘We Are The World’, solo lui aveva il carisma per tenere in ordine il caos e lo scontro di ego che regnava quella notte e trasformarlo in una canzone leggendaria.

Con l’album ‘Back On The Block’, nel 1989, dove suona un cast formato da Miles Davis, Ella Fitzgerald, Sarah Vaughan e i rapper della prima ondata ha dimostrato il legame tra il jazz, la musica black e il rap. È Quincy Jones che ha riportato in studio Frank Sinatra con ‘L.A. Is My Lady’ e addirittura Miles Davis a suonare sul palco i leggendari arrangiamenti dei dischi con Gil Evans in quel concerto a Montreux che è stato il passo d’addio di Miles alla musica.

Era sopravvissuto a un aneurisma cerebrale e a un ictus che viene praticamente raccontato in diretta nel documentario sulla sua vita: il suo amico Herbie Hancock, che era ovviamente il suo pianista preferito, lo rimproverava per il suo stile di vita poco adatto a un novantenne. Conosceva tutti, era corteggiatissimo dalle donne come dai Presidenti degli Stati Uniti, ha riassunto in una vita la grandezza e la magia della musica. Nemmeno la morte riuscirà a cancellare la leggenda di ‘Q’. 

Quincy, una vita di musica in un documentario

Il rapporto con la musica e i suoi artisti, Michael Jackson su tutti, la questione razziale, i tre matrimoni e i sette figli, gli eccessi e i problemi di salute. C’è tutta la vita di Quincy Jones in ‘Quincy’, il documentario del 2018 di Alan Hicks e della figlia Rashida Jones.

Due ore energiche ed intime, un ritratto-confessione in età matura del grande artista e produttore a cui nel 1990 era stato dedicato ‘Listen up: le molte vite di Quincy Jones’.

Dall’infanzia a Chicago durante la crisi del 1929 con una tumultuosa vita familiare, al trasferimento a Seattle e l’inizio della sua carriera come musicista con la band di Lionel Hamilton che fu l’inizio di tutto, fino allo studio della musica classica e alle molteplici collaborazioni da Ray Charles a Michael Jackson a Frank Sinatra, solo per citarne una piccolissima parte, alla colonna sonora del Colore viola di Steven Spielberg, il documentario è una cavalcata nella intensa e prolifica vita della leggenda della musica, scomparsa il 3 novembre.

Troppo per essere condensato in un documentario di due ore. “C’è troppo, non lo puoi fare. Troppe cose”, dice Quincy Jones scuotendo la testa alla figlia-regista che secondo alcuni critici ne ha fatto un po’ un santino, smussando alcune vicende spiacevoli. Come la sua dipendenza dall’alcol che lo porta ad avere diverse volte problemi di salute, anche in tarda età. Nel documentario si vede però quando Quincy Jones emerge dal coma diabetico nel 2015. Inizialmente sembra disorientato, finché un medico non gli chiede chi è il presidente degli Stati Uniti: “Sarah Palin”, risponde con un sorrisino sornione.

C’è poi un momento emozionante alla fine del documentario – disponibile su Netflix – in cui ‘Q’, questo il suo soprannome, fa un tour del Museo Nazionale di Storia e Cultura Afro-Americana dello Smithsonian che stava per inaugurarsi. Scendendo dalla sedia a rotelle fa una lenta passeggiata fermandosi ad ammirare gli effetti personali di quelli che lui chiama “i vecchi amici”: Ray Charles, Michael Jackson, Dinah Washington, Count Basie , Dizzy Gillespie, Miles Davis. Tutti morti.

Il film descrive in dettaglio anche l’etica del lavoro e l’abnegazione fino allo sfinimento fisico che ha permesso a Quincy Jones di diventare una leggenda e un modello, in tempi di usa e getta artistico, anche per diverse generazioni di musicisti tutto il mondo, fino ai più giovani. “Sono stato ispirato da lui a combinare l’hip hop e il jazz”, dice il rapper Kendrick Lamar che ha vinto anche un premio Pulitzer per i testi. 

Fonte: ansa.it

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