Si possono trovare mille idee, mille spunti per raccontare una stagione di Formula Uno che prenderà il via oggi dal Bahrain. Si possono elencare i piloti, si può ripercorrere la scorsa annata, e in questo determinato caso si può persino buttare un occhio al 2025. Ma forse, il modo migliore per raccontare le emozioni delle quattro ruote è ricordare un episodio del passato, impresso nella storia del Motorsport. Ayrton Senna ha saputo racchiudere elementi di agonismo, amicizia, rivalità e umanità nel corso di tutta la sua carriera: pensiamo ai duelli con Prost che hanno cementato un legame ostile sulla pista e vicinissimo al di fuori degli autodromi, ma pensiamo anche al giorno in cui Ayrton ha ricordato a tutto il mondo sportivo che all’interno di quelle macchine così tecnologiche e totalmente artificiali, ci sono sempre stati dei ragazzi, giovani e straordinariamente umani.
La vita per Senna era una priorità
“Vincere non è importante, è l’unica cosa che conta” erano parole di Giampiero Boniperti, storico giocatore e Presidente della Juventus. Una frase che ha sempre definito la mentalità degli sportivi, l’idea e il paradigma stesso dell’atleta, ma anche dei tifosi, perché se ci pensiamo nello sport la speranza è sempre quella di vincere, pur essendo a conoscenza che l’imbattibilità prima o poi finisce e non può durare per sempre. Ayrton Senna, il 28 agosto 1992 ha insegnato, che sebbene le parole di Boniperti si addicano al calcio, ciò non è vero in altri sport, e men che meno in Formula Uno. Nel corso delle prove libere del Gran Premio del Belgio, sul circuito affascinante quanto terrificante di Spa-Franchorschamps, Erik Comas perse il controllo della sua Lieger nella sezione del tracciato chiamato Blanchimont: l’impatto contro le barriere fu pauroso. Erano altri tempi e di protezioni ulteriori rispetto al casco non se ne vedeva l’ombra, l’Halo non era stato neanche immaginato e il francese nell’impatto perse coscienza immediatamente, ma mantenendo il piede sull’acceleratore. Le sospensioni erano state divelte, l’impatto aveva fatto schizzar via le ruote, ma il motore continuava a lavorare a pieni giri: in quella situazione, la vettura era come se fosse diventate una bomba, sarebbe esplosa da un momento all’altro senza lasciare scampo al pilota. I soccorsi erano pronti, ma lontani, troppo lontani e l’unico in grado di accorgersi della gravità della situazione era il pilota che lo seguiva. Destino volle che quel pilota fosse proprio Ayrton Senna che captato il rischio si fermò, e corse, attraversando la pista, in aiuto del collega, mettendo a repentaglio la sua stessa vita. Ayrton spense il motore della Lieger e con quel gesto, come un artificiere salvò la vita a se stesso e a Comas e a quel punto riuscì ad aprire la bocca del francese, impedendogli di strozzarsi con la lingua. “Ayrton si fermò ad aiutarmi quando persino il mio compagno di squadra aveva tirato dritto. Aveva un cuore puro e straordinario, due anni dopo sono stato l’ultimo pilota a vederlo in pista, mentre riceveva i soccorsi accanto al relitto della sua Williams”, Erik usò queste parole per raccontare cosa era successo a Spa, quando la sua vita divenne la priorità di Senna. Con le lacrime agli occhi Comas, lasciò la Formula Uno il 1 maggio 1994, il giorno in cui il suo incubo più cruento divenne realtà, il giorno in cui Dio disse ad Ayrton “chiudi gli occhi e riposa” e lui -per dirla con le parole di Lucio Dalla- “chiuse gli occhi”.
Arturo Merzario, il precedente che salvò Lauda
Quella di Senna e Comas è una storia che testimonia il sentimento umano della fratellanza tra i piloti, ma non è l’unico esempio di ciò. Era il 1976 quando, inseguendo il rivale James Hunt, Niki Lauda perse il controllo della sua vettura sul circuito del Nurburgring e schiantandosi contro le barriere rimbalzò dentro la pista per essere centrato in pieno da Ertl e Lunger. A quel punto la Ferrari prese fuoco e l’austriaco rimase intrappolato tra le fiamme che non gli permisero di slacciarsi le cinture per mettersi in salvo. Per la conformazione del circuito che rendeva complicato l’intervento dei soccorsi, il primo ad accorrere in aiuto del campione austriaco fu Arturo Merzario, un collega che, come fece Ayrton decenni dopo, non tirò dritto e anzi interruppe la sua gara, si fermò e si lanciò nell’inferno che aveva intrappolato Niki, un gesto che gli permise di sfuggire dall’incendio e dalla morte. Lauda venne trasportato in tre ospedali con una frattura allo zigomo (l’impatto aveva fatto volare via il casco) e ustioni di secondo e terzo grado alle mani e al volto. Il bollettino medico scongiurò il rischio di un prematuro decesso, ma si faceva sempre più concreta la minaccia di non poter vedere correre ancora l’austriaco, costretto a sottoporsi ad un lungo e doloroso periodo di riabilitazione. Invece, con quello che venne definito un miracolo dal punto di vista clinico, Niki tornò a gareggiare sotto al diluvio del Fuji, 42 giorni dopo il rogo delle Ardenne.