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“Giovanissima e immensa”, uno stralcio del libro in cui si parla di Pasquale Spinelli.

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“Giovanissima e immensa”. Ritratto della nostra società alle soglie del new normal.

Libro di Achille Colombo Clerici ediz. Casagrande Lugano Milano. Interviste di Antonio Armano.  Nelle librerie da Natale.

Anticipiamo uno stralcio del libro in cui si parla di Pasquale Spinelli

I mal di testa dell’ammiraglio «Sono nato a Catona, porto antichissimo, dove terminava la via consolare romana Popilia e ci si imbarcava per la traversata dello stretto di Messina, citato da Dante nella Divina Commedia, VIII canto del Paradiso: “… e quel corno d’Ausonia che s’imborga/ di Bari, di Gaeta e di Catona/ là ove Tronto e Verde in mare sgorga”. Oggi fa parte della città metropolitana di Reggio Calabria.»

Pasquale Spinelli, primario emerito dell’Istituto nazionale dei tumori di Milano ed editorialista del “Corriere Salute”, di fronte a un bicchiere di vino – un Cirò Rosato Librandi – nell’attico dove vive, che domina i giardini Montanelli, si racconta partendo da lontano, dall’infanzia sul mare.

Comera crescere sul mare negli anni Cinquanta?

«Bellissimo! A maggio scappavamo da casa per andare a fare i primi bagni e a vedere i transatlantici che attraversavano lo Stretto. Gran parte del trasporto di persone e merci allora avveniva via mare. Da aprile a giugno il pesce spada percorre lo stretto poco sotto la superficie ed è visibile con i sistemi di avvistamento antichissimi, a strapiombo sul mare. Il ricambio di correnti marine veloci rende l’acqua limpidissima e pescosa. Oggi ci sono anche le torri di avvistamento sulle barche da pesca, sempre più alte e tecnologiche.

Era ancora tutto verde a maggio, nelle campagne e nel giardino dietro casa, dove mio padre aveva fatto coltivare piante pregiate ed essenze rare importate nei viaggi per congressi di chirurgia o per la World Medical Association.»

Un ritratto della Calabria diverso da quello che emerge oggi nelle cronache.

«Allora Catona, come gran parte della Calabria, era ricca di un’economia propria: lavorazione del legname, che scendeva dalle foreste dell’Aspromonte, commercio di arance, limoni, bergamotti, gelsomini, oli essenziali per i profumi, immensi gelsi per nutrire i bachi da seta, la pesca… Diffusissima era la fabbricazione di cesti di canna e contenitori in legno di vario tipo per spedire gli agrumi. Partivano in treno di notte, per i mercati del nord. C’era lavoro per tutti. Parlo dei primi anni del dopoguerra. Poi…».

Lillo, dove hai studiato medicina e perche?

«L’Università di Messina era la più vicina, dall’altra parte dello Stretto: 30 o 40 minuti di traghetto, a seconda delle correnti e del vento. La mia è una storia semplice. Il filo conduttore che appare – evidente o nascosto – lungo tutto il percorso è un grande interesse per il corpo umano. Un viaggio che parte dai più piccoli animali, lucertole o rane e approda agli organi interni che ci tengono vivi. Sono cresciuto in una famiglia senza il dono della fantasia dal punto di vista professionale. Gli anziani erano tutti chirurghi e in casa il racconto di interventi chirurgici era un tema molto partecipato da tutti. Non c’era la televisione. Si imparava quello che non c’era scritto nei libri. Mio padre era componente della Federazione nazionale degli ordini dei medici e delegato italiano al Consiglio dell’Associazione medica mondiale, di cui divenne poi presidente. Il suo nome è legato alla dichiarazione di Helsinki del 1964. Fu il redattore principale.

Nella dichiarazione, ancora in vigore, si trovano indicati i principi etici sulla sperimentazione umana, una risposta ai misfatti nazisti emersi col processo di Norimberga.»

Dove hai iniziato la pratica medica?

«Ho iniziato guardando i miei, in famiglia, sia in sala operatoria che seguendo le visite, nei rapporti col malato. Nel periodo universitario avevo aiutato mio zio Renato Caminiti e mio padre tutte le volte che si poteva sostituire un loro collaboratore, particolarmente nei periodi di vacanze. Da studente universitario, ero stato a Madrid, al Gran Hospital e poi a Londra,al Lambeth Hospital per periodi di qualche mese, ma la mia formazione regolare parte da Roma, dove ho lavorato con uno dei migliori chirurghi d’Europa, Pietro Valdoni. Veniva dalla grande scuola di Vienna, era triestino.

Lui e mio padre avevano lavorato insieme. Quando arrivai a Roma avevo già pratica di sala operatoria: potei subito rendermi utile. Nel 1969 sil iberò il posto del primario chirurgo a Lanciano e mi proposi. La notte del primo sbarco sulla luna ero in sala operatoria. Alla fine del 1970 tornai a Roma, ma Valdoni si ritirò per l’età. Gli ero molto legato.»…

Pasquale Spinelli, Achille Colombo Clerici, Salvatore Carrubba e Consorte, Marco Romano

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