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GOVERNO E OPPOSIZIONI.

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Secondo una retorica in voga da tempo, nelle democrazie beneducate – o «normali» – se possibile bipartitiche, o almeno dualistiche, chi vince le elezioni governa, chi perde fa opposizione, ossia un po’ controlla, un po’ denuncia, ma tutto sommato sta quieto al suo posto preparandosi alla prossima sfida elettorale, quando gli elettori potranno giudicare. Peccato che nel frattempo in tanti, non gli alfieri di questa retorica, ma larghe fasce della popolazione, pagano un prezzo altissimo per le politiche di chi governa al momento.

Cosa sia e cosa debba essere l’opposizione in un regime democratico sono questioni ben più complesse. L’esperienza mette in mostra pratiche d’opposizione molto eterogenee. La sola regola aurea che distingue i regimi democratici da quelli autoritari è il riconoscimento del pluralismo. Cosicché, sia l’azione di governo sia le pratiche di opposizione vanno condotti pacificamente. Anche se, in verità, c’è da stabilire che cosa sia pacifico e che cosa no. C’è, pure, una questione di luoghi dove fare opposizione: legittimi e illegittimi. Storicamente, se è legittima l’opposizione in Parlamento, è stato più arduo legittimare l’opposizione condotta all’esterno. Allo stato degli atti, le forme legittime d’opposizione fuori dal Parlamento sono due: una condotta dai partiti rappresentati in Parlamento, una seconda da altri attori: gruppi d’interesse, movimenti e quant’altro. Anche i governi d’altronde dispongono di forme sostegno al di fuori della sfera della rappresentanza e, se conviene loro, le promuovono.

Non difettano complicazioni ulteriori. Già entro la sfera della rappresentanza non c’è regime che non preveda qualche forma di censura del pluralismo, e dell’opposizione: le procedure elettorali in primo luogo. Ma non mancano altri modi: come regolare le disponibilità finanziarie dei concorrenti, o il loro accesso ai media. In compenso, i regolamenti parlamentari prevedono alcuni strumenti con cui le opposizioni possono incalzare il governo: mozioni, interrogazioni, commissioni d’inchiesta, proposte di referendum. Non sono strumenti inefficaci, ma si dà il caso che l’evoluzione dei regimi democratici a beneficio dell’esecutivo li abbia depotenziati. Apposite norme regolamentari hanno depotenziato anche il ricorso all’ostruzionismo. Alla maggioranza resta l’onere di assicurare il numero legale, di cui le opposizioni possono chiedere la verifica. Ma anche quest’ultima è un’arma poco utilizzata: che i numeri ridotti del Parlamento italiano potrebbero valorizzare.

C’è ancora l’arma della denuncia, anche questa però in declino. L’opposizione parlamentare è stata depotenziata dall’andamento della contesa politica. L’aveva notato a metà anni Cinquanta Otto Kirchheimer. Quello che sarà chiamato il «compromesso socialdemocratico» aveva svelenito la contesa. Dagli anni Ottanta l’ha svelenita il compromesso neoliberale. Sono stati entrambi l’occasione per adottare regole e prassi che agevolano l’azione dell’esecutivo, divenuta mantra sotto il nome di governabilità. Il depotenziamento più deciso è stato quello francese, avvenuto in tempi calamitosi come pochi, tramite la Costituzione gollista, di cui, a lungo andare, stiamo osservando il possibile uso autoritario.

Il secondo livello d’opposizione possiamo genericamente denominarlo «la piazza». C’è voluto un bel po’ per legittimarlo, perché fosse considerata accettabile, e la piazza ci ha messo un po’ ad adeguarsi al principio della competizione pacifica. A loro volta la piazza è divisa in due. Una piazza che chiameremo spontanea, anche se qualcuno muove sempre qualche filo, aiuta a coagulare il malcontento, gli dà un senso seppur rudimentale, e l’indirizza contro il governo. Tollerata, e mai gradita, sottoposta al rischio di degenerazioni violente, magari strumentalmente suscitate, anche l’opposizione della piazza è sottoposta a meccanismi di censura. Le manifestazioni vanno autorizzate. Sono previste sanzioni, ove la protesta degeneri e, anzi, da qualche tempo l’insofferenza delle autorità di governo verso la protesta è tornata a crescere.

Ben più tolleranza c’è verso altre forme d’opposizione, spesso durissima, come quella condotta dagli interessi organizzati. Le lobby intervengono ormai in permanenza nella contesa politica e nell’azione di governo, ma sono ormai ritenute pienamente legittime.

C’è poi la piazza mobilitata dai partiti. È dopotutto la loro storia. I partiti di massa si sono fatti largo sull’arena politica per la loro capacità di mobilitazione collettiva, che, quantunque organizzata e regolata, non è stata da subito accolta come legittima. Per i partiti di sinistra, spesso coadiuvati dai sindacati, è stata un’arma preziosa. I partiti conservatori e moderati erano in grado di mobilitare ingenti risorse finanziarie e disponevano del sostegno degli apparati statali: dai prefetti, che manovravano il consenso elettorale, alle forze dell’ordine, che reprimevano il dissenso. Partiti e sindacati mobilitavano la piazza, sia pur badando a salvaguardare il carattere pacifico della mobilitazione. Anche se non sempre con successo. Ma nell’insieme l’opposizione condotta dai partiti sulla piazza ha messo sovente le autorità di governo alle strette e ha esercitato considerevole influenza sul loro operato. È una tecnica che è stata utilizzata anche dai partiti di destra. Moderati ed estremi.

Tra opposizione di piazza spontanea e mobilitazione organizzata da partiti e sindacati le relazioni non sono mai state agevoli. Negli anni Settanta entrarono in contrasto. Fuori dei partiti furono allora inventate nuove modalità di abitare la politica. I partiti, di sinistra, che erano i più prossimi ai movimenti collettivi, non riuscirono a scoraggiarli e spesso si misero in contrasto con essi. Solo da ultimo ne hanno ricavato un po’ di retoriche e di pratiche, per dirla con Sartori, «direttiste», e si appropriarono di alcuni temi come i diritti civili. Erano ormai troppo professionalizzati per sentirsi a proprio agio sulle piazze. Nel giro di un decennio finiranno per concentrarsi sull’elettorato di classe media e fare intorno ad esso concorrenza ai partiti conservatori. Dimenticando la piazza, il radicamento sociale e i ceti popolari. Condurranno d’ora in avanti l’opposizione in Parlamento, con grande aplomb. Con modesti risultati: i partiti socialisti magari vincono le elezioni, ma perdono elettori da decenni. Meglio è andata ai partiti conservatori, sollecitati dalla comparsa di nuovi partiti di destra estrema, che ne hanno mutuato temi e stili o addirittura si sono intesi con essi. In America, dov’è cominciata, l’hanno definita polarizzazione «asimmetrica», con ovvi e seri effetti sulla pubblica opinione.

Decaduta l’opposizione in Parlamento, anche l’opposizione di piazza pilotata dai partiti è deteriorata. Hanno aggravato il decadimento le difficoltà dei sindacati. Anche qui qualche effetto, di cui due principali. Il primo è, a prima vista, la rassegnazione. Che si manifesta nell’impressionante crescita dell’astensionismo, diffuso in special modo tra i ceti popolari. A guardare con più attenzione, molte cose si muovono sottotraccia. L’ideale democratico non è univoco, ma ha comunque suscitato l’attesa di forme di azione politica meno esclusiva. Donde un gran lavorio per escogitare nuove forme per abitare la politica. Il secondo effetto è la ricomparsa della protesta spontanea di piazza. In Spagna ha preso fiato la mobilitazione degli Indignados. Che ha pure trovato uno sbocco politico nella nascita di Podemos. È accaduto più di recente in Gran Bretagna e ancor più in Francia: quanto temuta sia di questi tempi la piazza lo conferma l’evidente brutalizzazione dell’ordine pubblico e l’adozione di norme severamente repressive.

“Quanto temuta sia di questi tempi la piazza lo conferma l’evidente brutalizzazione dell’ordine pubblico e l’adozione di norme severamente repressive”

L’aggressività dei governi di destra, o di destra estrema, o di quel singolare esempio di «estremismo di centro» costituito dalla seconda presidenza Macron in Francia, non solo impone sacrifici sempre più gravosi ai ceti popolari e a quelli intermedi, ma sta così comprimendo principi democratici fondamentali, come la libertà d’opinione e di manifestazione. Non è necessario citare in questa sede le misure socialmente ingiuste adottate dal governo Meloni in pochi mesi, l’appropriazione selvaggia di tutte le istituzioni pubbliche, il tentativo scomposto di riscrivere la storia nazionale, la propaganda razzista spesso esplicita e molto altro ancora. Ebbene, contro di esso non basterà certamente l’opposizione compassata e magari collaborativa, in nome della funzionalità del Parlamento, cui era aduso il centrosinistra e che qualcuno tuttora predica.

Contro questo governo, e contro i governi della destra estrema, vanno invece risvegliati gli elettori, che così massicciamente disertano le urne, e vanno sfruttate tutte le armi disponibili: petizioni, proposte di legge d’iniziativa popolare, iniziative referendarie. Il Parlamento può essere un’efficace tribuna di denuncia. Così come va trovato il modo per dare fiato all’opposizione di piazza, di quella organizzata e di quella spontanea. I tempi sono difficili, le società democratiche sono sottoposte a gravi sfide, come il restringimento della loro struttura industriale e la concorrenza globale. Ma non è affatto vero che non vi sia alternativa, che la disoccupazione e la precarietà occupazionale, la povertà, l’insicurezza non abbiano alternative. Vi sono misure politiche in grado di porvi rimedio, utili anzitutto a ripartire in maniera meno ingiusta e disuguale difficoltà e sacrifici. Ma hanno bisogno del consenso dei cittadini e degli elettori. Infine: sarà pure il caso che coloro che sono affezionati alle regole democratiche mettano a tacere le loro divergenze, che i cittadini in gran parte non capiscono. È forse vero che il fascismo non può tornare, ma la democrazia illiberale è già tra noi.

Alfio Mastropaolo

RIVISTAILMULINO.IT

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