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IL “VENTO DIVINO” E LA FLOTTA PERDUTA DI KUBLAI KHAN.

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martedì, Dicembre 3, 2024
La leggenda narra che il kamikaze, o “vento divino”, impedì l’invasione mongola del Giappone nel 1281, come raffigurato in quest’opera del XIX secolo dell’artista Issho Yada.
FOTOGRAFIA DI KOJI NAKAMURA, NATIONAL GEOGRAPHIC

Isola di Takashima, nei pressi del porto di Kozaki, Giappone. Siamo nel 1985 e un pescatore che raccoglie molluschi trova uno strano oggetto di metallo, antico, su cui sono incisi caratteri a lui ignoti. L’oggetto era un sigillo bronzeo che su una faccia recava iscrizioni in lingua pagh’sha, l’idioma artificiale (una specie di esperanto), creato a tavolino da Kublai Khan – e destinato a durare appena sei anni – nel tentativo di unificare linguisticamente il suo sconfinato impero multietnico; sul retro, la data di fabbricazione, 1276. L’oggetto apparteneva ad un sohua, paragonabile ad un generale di oggi che avrebbe combattuto alla testa di mille uomini. Da questo oggetto sarebbe partita la ricostruzione di una delle più incredibili vicende della Storia, una vicenda che per secoli è stata a cavallo tra il mito e la realtà: la distruzione dell’imponente flotta di invasione mongola ad opera di un tifone che venne chiamato in seguito dai Giapponesi “vento divino”, ossia Kamikaze, che i kami (gli spiriti del luogo) protettori del Giappone avevano scatenato contro gli invasori.

Anche se in realtà il disastro fu il risultato di un grave errore strategico da parte dei Mongoli, esso divenne uno dei miti fondativi del patriottismo nipponico, e come tale sarebbe rimasto se l’archeologia, con il determinante contributo degli studiosi italiani, non avesse confermato ciò che la storiografia aveva tramandato: il ritrovamento e l’identificazione di centinaia di imbarcazioni mongole sul fondale di Takashima. È a questa straordinaria vicenda che dedichiamo il nuovo articolo per “La Stele di Rosetta”, in esclusiva per IQ, che ringraziamo per averlo pubblicato.

TABELLA DEI CONTENUTI

IL CONTESTO STORICO: L’IMPERO DI KUBLAI KHAN

LA PRIMA SPEDIZIONE PER LA CONQUISTA DEL GIAPPONE

LA SECONDA SPEDIZIONE PER LA CONQUISTA DEL GIAPPONE

IL DISASTRO

KAMIKAZE, IL “VENTO DIVINO”

UN “COLD CASE” DURATO SETTE SECOLI

I PRIMI RITROVAMENTI

ENTRANO IN SCENA GLI ITALIANI

LA SCOPERTA DELLE NAVI

EMERGONO ALTRI, STRAORDINARI REPERTI

TAKASHIMA OGGI

IL CONTESTO STORICO: L’IMPERO DI KUBLAI KHAN

Monumento a Kublai Khan, Xanadu, Mongolia interna.

Detto anche Qubilai Khan (28 agosto 1215 – 18 febbraio 1294) Kublai fu il fondatore del primo impero cinese della Dinastia Yuan. In Occidente era noto fin dal Medioevo, da quando Marco Polo visitò il Catai (nome con il quale era conosciuta la Cina) durante il suo impero, divenendo presto un suo favorito e servendo alla sua corte per oltre diciassette anni, secondo quanto racconta lui stesso ne “Il Milione”.

Marco Polo, interpretato da Ken Marshall, nell’omonima miniserie televisiva del 1982, diretta da Giuliano Montaldo.

Gli esordi come governatore
Nipote del grande Gengis Khan (al quale abbiamo dedicato un fortunato articolo, per chi vuole approfondire) fin da giovane Kublai studiò la cultura cinese e se ne innamorò. Quando nel 1251 suo fratello Mongke divenne Khan dell’impero mongolo, fu da quest’ultimo nominato governatore dei territori meridionali dell’impero, rivelandosi un ottimo amministratore, aumentando la produzione agricola dello Henan e migliorando i servizi sociali dello Xi’an (oggi famosa per i guerrieri di terracotta, che abbiamo già trattato). Tali attività furono accolte con grande favore dai signori della guerra cinesi e risultarono fondamentali per la fondazione della Dinastia Imperiale Yuan in Cina.

L’ascesa al titolo di Gran Khan
Alla morte di Mongke nel 1259, nell’Impero mongolo si creò una situazione di ostilità tra il fratello maggiore, Arig Beg, capo delle tribù nomadi orientali, deciso a mantenere ed imporre le usanze tradizionali del popolo mongolo, e gli altri due, Hulegu e Kublai, inclini ad una fusione con le popolazioni sottomesse. La guerra civile che ne scaturì si concluse nel 1264 con la vittoria di Kublai, che impose di essere riconosciuto come Gran Khan dei Mongoli.

La “Città Proibita”.

Kublai imperatore
Nel 1271, Kublai dichiarò ufficialmente la creazione della Dinastia Yuan (che significa “origine”, “perno”, “centro”) e, l’anno dopo, ne proclamò come capitale la località di Khanbalik, oggi Pechino. Per unificare la Cina, nel 1274 Kublai organizzò un’enorme offensiva contro ciò che rimaneva della Dinastia Song (che regnava sulla Cina fin dal 960) e nel 1279 la distrusse, unificando il paese.

Il Grande Canale Cinese.

Un imperatore illuminato
Kublai è noto come il migliore dei suoi predecessori, promuovendo la crescita economica dell’Impero con la ricostruzione del Grande Canale Cinese (il fiume artificiale più lungo del mondo, oggi bene protetto dall’UNESCO), il restauro degli edifici pubblici e l’ampliamento della rete viaria. Introdusse inoltre la carta moneta, benché l’inflazione e l’assenza di una disciplina fiscale finissero per convertire in disastro l’iniziativa. Diventando imperatore, Kublai si diede il nome regale di Shizu, abbracciando la cultura cinese e, a differenza dei suoi predecessori, indossando le tradizionali vesti imperiali e facendosi trasportare su una portantina invece di andare a cavallo. Si circondò di ministri cinesi e consiglieri confuciani, anche se dietro le quinte, tutte le cariche chiave venivano assegnate a non cinesi, soprattutto a membri della guardia del corpo mongola. Incoraggiò le arti cinesi e dimostrò tolleranza religiosa, favorendo il cristianesimo nestoriano (che sosteneva l’esistenza, in Gesù, oltre alle due nature divina e umana, anche di due persone, dottrina condannata dal Concilio di Efeso del 431) e simpatizzando per il Buddhismo tibetano al quale egli stesso si convertì, forse sotto l’influenza del monaco tibetano Phags-pa Lama (1235-1280) che venne anche incaricato di creare una nuova lingua ufficiale (basata sul tibetano e sul sanscrito) che Kublai sperava potesse essere un legame tra le molte nazionalità sotto il suo governo, anche se poi l’idea non prese mai piede fuori dalla corte.

LA PRIMA SPEDIZIONE PER LA CONQUISTA DEL GIAPPONE

Resoconto illustrato dell’invasione mongola del Giappone, commissionato da Takezaki Suenaga, 1293 d.C. ©Image Attribution forthcoming. Image belongs to the respective owner(s).

In realtà, i tentativi di invadere il Giappone, allora retto dagli Shogun, furono due, la prima nel 1274 e la seconda nel 1281. Non è chiaro perché Kublai volesse includere il Giappone nel suo impero. Probabilmente era interessato alle sue risorse (oro) o al prestigio che ne sarebbe derivato. Di certo la conquista del Giappone gli avrebbe dato l’accesso ad un esercito che includeva samurai ben addestrati. Fin dal 1268, Kublai tentò la via diplomatica inviando un ambasciatore a Kamakura (oggi nella prefettura di Kanagawa, a 50 km a sud-ovest di Tokyo), per convincere lo Shogun Hōjō Tokimune a firmare un trattato di sottomissione, ma la sua richiesta fu totalmente ignorata.

Ritratto su seta dello Shogun Hōjō Tokimune.

Tuttavia, ciò mise in allerta le truppe giapponesi nelle aree in cui era probabile un’invasione. E fecero bene perché, dopo altri tentativi diplomatici andati a vuoto, Kublai perse la pazienza e mise insieme una flotta di 800-900 navi, che salpò dalla Corea nel 1274 con un esercito di 33.000 soldati tra mongoli, cinesi e coreani, diretto verso la baia di Hakata, nell’isola giapponese di Kyushu, dove sbarcarono il 19 novembre. I mongoli vinsero i primi scontri grazie al loro numero, alle armi e ai movimenti coordinati delle truppe, cosa a cui i giapponesi, la cui forza di difesa contava non più di 4.000-6.000 uomini, non erano abituati perché preferivano consentire ai singoli guerrieri di scegliersi il proprio obiettivo, con uno stile di guerra ancora medievale.

Forse per problemi di approvvigionamento o per la morte del generale Liu Fuxiang, gli invasori non si spinsero in profondità nel territorio giapponese, rimanendo sulle loro navi per trascorrervi la notte del 20 novembre. Fu una decisione fatale perché, secondo alcuni resoconti, si scatenò una terribile tempesta che uccise fino ad un terzo dell’esercito mongolo e danneggiò gravemente la flotta. Fu così che gli aggressori furono costretti a ritirarsi in Corea.

LA SECONDA SPEDIZIONE PER LA CONQUISTA DEL GIAPPONE

Kublai tornò alla diplomazia, inviando altre due ambasciate in Giappone nel 1279, chiedendo ancora una volta il pagamento del tributo e la sottomissione. Questa volta i Giapponesi, forti della sconfitta occorsa all’aggressore, furono ancora più sprezzanti e decapitarono gli ambasciatori, e usarono questo intervallo di tempo per costruire fortificazioni e prepararsi all’inevitabile seconda invasione, che avvenne nel 1281.

La flotta mongola salpa ©Image Attribution forthcoming. Image belongs to the respective owner(s).

Una flotta imponente
Questa volta Kublai fece le cose in grande, allestendo un esercito di 150.000 uomini e 4.500 navi per il suo trasporto. Era una forza da sbarco superiore persino al D-Day in Normandia, che fu di 100.000 uomini. Tuttavia, le recenti ricerche hanno ipotizzato che il numero delle navi fosse un’esagerazione tipica delle cronache scritte cinesi. È più probabile che le navi fossero un migliaio, numero comunque di tutto rispetto.

Ricostruzione di una delle navi mongole.

Navi evolute
Poiché i Mongoli erano combattenti di terra e non certo navigatori, non possedevano una flotta imperiale propria, per cui ricorsero ad imbarcazioni sottratte alla sconfitta Dinastia Song, gestite da marinai cinesi e coreani. Pur essendo essenzialmente giunche fluviali, le navi erano veloci e sicure perché i Song, tra i più grandi ingegneri navali della storia, inventarono il sistema degli scafi a paratie, ovvero divisi in compartimenti sigillati con resina a tenuta stagna: questo significava che se si fosse verificata una falla e si fosse imbarcata acqua, sarebbe stata inondato solo il compartimento interessato, senza far affondare la nave. Inoltre, le navi erano lunghe 70 metri, quindi di dimensioni doppie rispetto alle navi europee della stessa epoca, con timoni di qualità superiore. Pur non essendo adatte ai viaggi d’alto mare, non avendo una grande chiglia che lo permettesse, le navi Song sono riuscite ad arrivare fino al Giappone, percorrendo 1.400 km di mare aperto, a riprova della loro altissima qualità costruttiva.

La strategia
Sotto il comando supremo del generale Arakhan, la flotta era inizialmente divisa in due tronconi, partiti l’uno da Quanzhou, nella Cina meridionale, e l’altro da Happo, in Corea che, con una classica manovra a tenaglia, si sarebbero dovuti congiungere in vista della città di Hakata (oggi Fukuoka), quartier generale del governo del sud del Giappone, per poi partire all’attacco. Tuttavia, questo incontro non avvenne mai perché il primo gruppo di navi subì un rallentamento di sei mesi del Gruppo cinese in seguito alla morte di Arakhan mentre il secondo gruppo venne affrontato dai samurai. Fu proprio questo ritardo di sei mesi, che fece slittare l’assalto al mese di agosto, il periodo dei tifoni, a tradursi in un fatale errore strategico.

IL DISASTRO

I mongoli sbarcarono ancora una volta ad Hakata, ma le nuove fortificazioni resistettero. Dopo pesanti perdite, gli invasori si ritirarono sull’isola di Iki solo per essere bersagliati dai samurai giapponesi, che effettuarono costanti incursioni utilizzando piccole imbarcazioni.

Alla fine, arrivò il tifone. Il 15 agosto del 1281, percependo il tifone in arrivo, i marinai coreani e cinesi si ritirarono e attraccarono nella baia di Imari. Era una baia piccola, con molti scogli affioranti, e troppe navi. Cercare riparo qui fu una scelta infelice. Il tifone colpì violentemente da ovest la flotta all’ancora e la devastò. Le imbarcazioni, incontrollabili e legate con catene per metterle al sicuro dalle incursioni giapponesi, si urtavano come in un gigantesco autoscontro. Le forti raffiche di vento a 250 km orari, costringendo i marinai a posizionare le vele a favore del vento, spinsero le imbarcazioni verso le rocce dell’isola di Takashima, frantumandone gli scafi. Il resto lo fecero i fondali vulcanici, bassi e conformati a lame. Migliaia di soldati furono lasciati alla deriva su pezzi di legno o portati a riva, dove furono giustiziati dai samurai.

Non tutte le navi colarono a picco, ma quelle che si salvarono furono attaccate dai veloci barchini dei samurai che salivano a bordo e decapitavano i nemici provati dal tifone, per poi portare le teste allo Shogun, che aveva promesso tanta terra per quante teste mozzate.

I samurai assaltano le navi mongole a bordo di veloci barchini. Dipinto tratto dal rotolo illustrato ‘Moko Shurai Ekotoba’ 

In base ad antichi documenti storici cinesi, si calcola che siano morti circa 70.000 uomini, il che rappresenterebbe il maggior numero di vittime nella storia dei viaggi in mare.

KAMIKAZE, IL “VENTO DIVINO”

Anche se furono le qualità militari dei samurai giapponesi ad impedire ai Mongoli di penetrare all’interno del paese, il conflitto ebbe un effetto profondo e durevole e si diffuse la convinzione che la sconfitta dei nemici si era verificata per l’intervento di forze spirituali, in modo particolare del “Vento Divino”. Fino a poco tempo fa, agli scolari della minuscola isola di Takashima veniva raccontata come una favola la storia di un’immensa flotta nemica, arrivata in tempi remoti dalla Cina, distrutta e consegnata alle profondità del mare dai Kamikaze, i venti divini mandati in soccorso della patria. E qui, ogni anno, il 15 agosto, anniversario del prodigio, si celebra una grande festa e nel tempio Zen si onorano i morti di entrambe le parti.

Il tempio scintoista di Shirahige Shrine, Takashima.

UN “COLD CASE” DURATO SETTE SECOLI

Le navi di Kublai vennero inghiottite dal mare e sparirono nei fondali di Takashima per secoli. La storia del disastro navale mongolo rimase nella memoria degli abitanti dell’isola, e fu citato, non senza errori, anche ne “Il Milione” di Marco Polo. Un’altra fonte è un testo cinese del XIV secolo, lo Yuan shi (Cronache degli Yuan) che, riportando fatti avvenuti mezzo secolo prima, parla di una spedizione di 4.400 imbarcazioni, con 150.000 uomini allestita nel 1281 da Kublai Khan (una palese esagerazione, come abbiamo già detto). Da parte giapponese, gli unici momenti della battaglia contro i mongoli sono quelli raffigurati sui preziosi emakimono (rotoli di carta di riso che raccontano per immagini alcuni accadimenti del 1281), e sono relativi alle incursioni dei samurai sulle navi mongole scampate al tifone.

Lo Yuan shi.

Le fonti e la memoria c’erano, dunque. Tuttavia, mancavano riscontri oggettivi. Non si sapeva nemmeno con esattezza dove avvenne il disastro: come e dove erano finite le navi? Gli archeologi giapponesi hanno cercato per anni le prove di quel che successe veramente nel Kyushu, finché…

I PRIMI RITROVAMENTI

…finché all’inizio degli anni ‘70 Mozai Torao, un ingegnere, pioniere dell’archeologia di ricerca, basandosi sulle antiche fonti scritte, identificò l’area del disastro nella baia di Imari, dove si trova Takashima. Qui ogni estate si abbatte il tifone, la “Corrente Nera”, come la chiamano i locali, che viaggia a 250 km l’ora seminando distruzione. Mozai parlò con i pescatori del luogo, che gli mostrarono quello che occasionalmente tiravano su con le reti: vasellame, anche del XIII secolo, che però non era ricollegabile alla flotta.

Ma quando un pescatore gli mostrò un manufatto bronzeo, la questione prese un’altra piega: si trattava proprio del pagh’sha di cui abbiamo parlato in apertura e la data del 1276 rappresentava una pistola fumante, collocando l’oggetto in relazione alla seconda spedizione mongola: in archeologia un tale ritrovamento viene definito terminus ante quem, ossia il limite cronologico prima del quale un fatto non può essere accaduto.

Logo dell’ARIUA.

Dopo il ritrovamento del sigillo, le ricerche di Mozai proseguirono con scarsi fondi e senza successo fino al 1986, quando il testimone passò al giovane archeologo Hayashida Kenzo, fondatore in seguito dell’Asian Research Institute for Underwater Archaeology (ARIUA). Ma, nonostante il maggiore budget a disposizione, le ricerche restavano infruttuose. Il motivo di tali insuccessi era ascrivibile alla mancanza di esperienza metodologica che invece era già molto sviluppata nel Mediterraneo. Va inoltre considerato che l’archeologia in Giappone si è sviluppata solo a partire dagli anni ‘70 e ‘80 del secolo scorso e quella subacquea ancora meno.

ENTRANO IN SCENA GLI ITALIANI

Daniele Petrella (a destra) in Giappone, nell’area delle ricerche (Foto di Marco Merola).

Nel 1986 Daniele Petrella, all’epoca un ventottenne dottorando dell’Orientale di Napoli, chiese ad Hayashida di ospitarlo a proprie spese, proponendo una metodologia nuova, con lo studio dei fondali e un diverso posizionamento delle griglie di indagine.
Petrella, Presidente dell’International Research Institute for Archaeology and Ethnology (IRIAE), con sede a Napoli ma con soci, oggi, in tutto il mondo, dovette affrontare inizialmente molti ostacoli burocratici, finanziari, la disattenzione delle istituzioni. Ma nel 2010, grazie all’aiuto concesso dal Ministero degli Affari Esteri e un sostanzioso contributo della Japan Foundation, della Prefettura di Nagasaki e del Comune di Matsuura, si è potuta finanziare la missione, che portò i primi, straordinari risultati.

Logo dell’IRIAE.

LA SCOPERTA DELLE NAVI

Un archeologo subacqueo al lavoro su una delle paratie esterne di un’imbarcazione mongola.

La fortuna postuma dei vascelli affondati sta in quegli stessi fondali che avevano contribuito a farli a pezzi. Le sabbie fangose, continuamente rimestate dalle correnti, hanno agito come una coperta, salvando il fasciame dalla corrosione. Le ricerche non furono semplici proprio per la natura del fondo marino che, essendo un orribile agglomerato di fango e limo spesso un metro e mezzo, intorbidava l’acqua non appena smosso, sprigionando una densa nuvola nera. I sommozzatori impiegarono mesi ma alla fine si imbatterono in qualcosa di solido: il frammento di un’ancora di legno che doveva esser lunga almeno sette metri. Serviva solo un esame per rintracciare ed identificare gli antichi pollini intrappolati nel legno: erano cinesi! Dopodiché emersero migliaia di frammenti di fasciame. Da questi gli archeologi furono in grado di ricostruire una paratia larga più di cinque metri che faceva ipotizzare un’imbarcazione lunga almeno 70 metri, di dimensioni doppie, come abbiamo detto, rispetto ai vascelli europei della stessa epoca. Qui sotto, un video delle immersioni effettuate nella baia di Takashima.

Uno dopo l’altro sono così usciti dal mare migliaia di reperti lignei, trasportati nel Museo Storico ed Etnografico di Takashima, dove sono attualmente conservati in grandi vasche di acqua di mare e settimanalmente trattati con un polimero che li preserva dai parassiti.

Le grandi vasche di conservazione.

La catalogazione delle migliaia di componenti lignee delle navi ed il loro riordino ha permesso la comprensione e la ricostruzione della tipologia di navi adoperate da Kublai.

Poiché si sa che ogni nave aveva una sola ancora, dalla quantità di esse ritrovate, le navi finora identificate sono 260. Un numero di tutto rispetto che fornisce la proporzione dell’entità di una flotta gigantesca.

Una delle grandi ancore lignee ritrovate.

Nel ricostruire le posizioni delle ancore ritrovate, il team di Hayashida si è reso conto che tutte erano disposte nella stessa direzione. “Il fatto che tutte le ancore fossero verso sud – spiega l’archeologo – e che le cime fossero tese verso la costa, indica che una forza molto potente scagliava le navi verso la spiaggia”. Possiamo solo immaginare quale infernale esperienza abbiano affrontato i marinai. È probabile che la tempesta li abbia colti all’improvviso: il tifone potrebbe essersi abbattuto sui mongoli nel giro di sei-dodici ore, scagliando le imbarcazioni contro gli scogli o rovesciandole.

EMERGONO ALTRI, STRAORDINARI REPERTI

Il fasciame delle navi non fu l’unico ritrovamento: tra gli altri reperti recuperati figurano mortai, forni, vasellame, elmi, specchi, perfino bombe e un’armatura di cuoio.

L’elmo di bronzo
Dai fondali di Takashima è emerso un elmo da combattimento indossato da un guerriero mongolo durante la tentata invasione. Nonostante le pesanti concrezioni marine che lo hanno completamente ricoperto negli ultimi sette secoli, se ne intuisce ancora agevolmente la foggia.

L’armatura in cuoio
Una stupenda armatura in cuoio con le giunture di rame fu ritrovata rinchiusa in un baule di legno massello, sigillato con il mastice, perfettamente intatta. Rappresenta una testimonianza della bontà del legno massello di varie essenze che, immersi in acqua salata, non si deteriorano, conservandosi incredibilmente intatti dopo secoli.

Il “Teppo”, la bomba da lancio
Il ritrovamento più inatteso è stato quello dei “teppo”, bombe da lancio che si pensava fossero state inventate in Occidente intorno al XV secolo. Queste armi erano composte da un involucro di forma sferica in ceramica, riempito di polvere da sparo e schegge di ferro di varia grandezza. Un’arma micidiale che era stata già raffigurata su un emakimono giapponese che racconta con le immagini l’invasione mongola. In questo disegno si vedono diversi soldati giapponesi uccisi dall’esplosione di un oggetto che, fino al ritrovamento dei teppo, era rimato misterioso e sconosciuto agli storici.

Le micidiali bombe inesplose.

TAKASHIMA OGGI

Veduta panoramica della Baia di Takashima, il luogo del disastro.

La missione congiunta italo-giapponese, finora l’unica in essere con una struttura occidentale, ha dato all’isola di Takashima l’opportunità di sviluppare un turismo dedicato alla Flotta ed alla sua storia, che ha permesso la costruzione di strutture ricettive e di nuove infrastrutture come il ponte di collegamento tra l’isola e la terraferma.

Inoltre, per rafforzare l’importanza del sito archeologico di Takashima, lo stesso è stato dichiarato nel 2011 dalla Prefettura di Nagasaki “Underwater Archaeological Site – National Heritage (Parco Archeologico Sommerso – Patrimonio Nazionale), il primo in assoluto nell’arcipelago giapponese.

Takashima, cippo commemorativo della battaglia del 1281.

È stato così risolto un cold case secolare che ha fornito prove tangibili di un evento che sembrava quasi appartenere al mito. Le navi di Kublai: costruite dai più avanzati ingeneri navali del mondo, dotate di futuristiche innovazioni tecniche, erano tra le migliori imbarcazioni esistenti sul pianeta, ma non hanno resistito alla forza della natura, al Kamikaze, al “Vento Divino”.

Ricostruzione degli avvenimenti di Takashima.

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