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L’abrogazione dell’abuso d’ufficio e l’erosione dei diritti costituzionali dei cittadini.

Date:

giovedì, Novembre 21, 2024

Nell’ambito del sistema penale, il Titolo II tratta il tema dei delitti contro la pubblica amministrazione.
Il tema è particolarmente delicato, in quanto la materia poggia integralmente su alcuni degli elementi principali e portanti dell’intero apparato statale, restituendo a specchio nella previsione delle norme penali i principi di diritto espressi dalla Carta Costituzionale.
La questione nasce nell’inquadramento dei rapporti di forza tra le istituzioni pubbliche ed i cittadini, ed in particolare dai principi che giustificano l’esistenza di uno Stato e il conferimento di poteri alle istituzioni costituite in grado di limitare e confinare i diritti del singolo in favore della realizzazione dell’interesse pubblico.

I rapporti di forza tra Stato e cittadino sono declinati nella Costituzione già a partire dalla Parte I “diritti e doveri dei cittadini” nella quale al Titolo primo sui rapporti civili l’art. 28 stabilisce: “I funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti. In tali casi la responsabilità civile si estende allo Stato e agli enti pubblici”.

Nel successivo Titolo IV relativo ai rapporti politici, l’art. 54 stabilisce “Tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservare la Costituzione e le leggi. I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge”.

Infine l’art. 97 della Costituzione prevede che: “Le pubbliche amministrazioni, in coerenza con l’ordinamento dell’Unione europea, assicurano l’equilibrio dei bilanci e la sostenibilità del debito pubblico.
I pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione.
Nell’ordinamento degli uffici sono determinate le sfere di competenza, le attribuzioni e le responsabilità proprie dei funzionari.
Agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge
”.

E’ sufficiente, ai fini della nostra analisi, fermarci a queste tre disposizioni di principi normativi costituzionali, per verificare che nelle intenzioni del patto istituzionale che costituisce l’ossatura dello Stato Italiano, nessuno è legibus solutus, nessuno è al di sopra dei diritti previsti dalle norme civili, penali ed amministrative, anche se si tratta di funzionari o dipendenti dello Stato.
La volontà espressa dalle norme è quella di promuovere un’effettiva, omogenea e consolidata osservanza delle norme e dei diritti, requisito fondamentale per la realizzazione di un’eguaglianza di carattere sostanziale rispetto alle disposizioni normative, e di un equilibrio di corretto funzionamento degli apparati amministrativi dello Stato.

Possiamo quindi affermare che il rispetto dei principi di diritto e delle norme stabilite, applicato in misura uniforme tanto ai “comuni cittadini” quanto ai dipendenti ed ai funzionari dello Stato, nonché alle persone addette a rivestire ruoli e incarichi pubblici, costituisce una delle garanzie sulle quali si fonda uno stato democratico, ed una tutela volta a prevenire possibili abusi generati dalla posizione “privilegiata” generata dalla posizione rivestita dalla persona nell’ambito dell’apparato amministrativo o istituzionale dello Stato, oltre a garantire il corretto esercizio della “funzione pubblica” dell’azione amministrativa ed istituzionale.
E’ pur vero che per garantire l’indipendenza, l’imparzialità e l’assenza di condizionamenti nello svolgimento dei propri compiti e ruoli, alcuni profili istituzionali e pubblici godono di specifiche guarentigie che li rendono parzialmente e temporaneamente immuni (nello svolgimento del loro incarico) da condizionamenti normativi e giudiziari (pensiamo ad esempio alle immunità parlamentari o a quelle presidenziali), ma al netto di questa casistica l’applicazione delle norme e dei principi di diritto vigenti gode di uniformità di applicazione positiva.
Occorre anzi specificare che l’ordinamento normativo, e segnatamente quello penale, è stato adottato nei propri contenuti per prevenire i possibili abusi connessi all’incarico, assunto nell’ambito della Pubblica Amministrazione, di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio.
In particolare oggetto del nostro esame sarà il reato di abuso d’ufficio che è stato interessato da una recente riforma abrogativa con espunzione della fattispecie dall’ordinamento penale.

Breve storia dell’abuso d’ufficio
L’originaria fattispecie di reato era quella dell’abuso innominato d’ufficio e prevedeva che “Il pubblico ufficiale che, abusando dei poteri inerenti le sue funzioni, commette, per recare ad altri un danno o per procurargli un vantaggio, qualsiasi fatto non preveduto come reato da una particolare disposizione di legge, è punito con la reclusione fino a due anni o con la multa da lire quattromila a ottomila”.
Oggetto della tutela penale configurato dalla norma era l’interesse allo svolgimento della funzione pubblica esente da fatti che ne potessero sviare le finalità per recare ad altri un ingiusto danno o un ingiusto vantaggio.
Nell’analisi del reato l’evento era innominato mentre l’aspetto della condotta, ovvero l’abuso del potere era previsto in maniera specifica nel testo della norma.
Secondo la norma quindi la condotta era qualificata dall’abuso del potere inerente la funzione di Pubblico Ufficiale e l’evento era costituito da un compimento di un fatto illegittimo conseguente alla condotta di abuso.
Il tutto con l’elemento aggiuntivo della volontà di compiere l’atto illegittimo con lo scopo specifico di recare un danno o procurare un vantaggio ad altri.
Il reato in questione richiedeva il dolo ovvero la coscienza e volontà di compiere l’atto illegittimo e di recare il danno o procurare il vantaggio.
La norma era da considerarsi di carattere sussidiario in quanto il reato era configurabile nel caso in cui il fatto non fosse stato previsto come altro reato.

Con la riforma del 1990, relativa ai diritti dei Pubblici Ufficiali contro la Pubblica Amministrazione, l’articolo 323 del codice penale subì delle modifiche relative alla circostanza che nel reato ivi previsto confluirono parte di altre ipotesi di reato quali le fattispecie di interesse privato in atti d’ufficio ex art. 324 codice penale abrogato appunto dall’art. 20 della Legge n. 86 del 26 aprile 1990, e del peculato per distrazione ex art. 314 codice penale.
La fattispecie del reato venne prevista non più come sussidiaria, la clausola di sussidiarietà venne trasformata in clausola di consunzione ovvero mediante la previsione “salvo che il fatto non costituisca un più grave reato”.
Per effetto di tale trasformazione anche alcune condotte omissive relative agli atti d’ufficio confluirono nella fattispecie dell’art. 323 che continuava ad essere visto dalla dottrina come un “contenitore” stante il difetto di tassatività e di determinatezza della fattispecie.
La norma riformata dalla legge n. 86 del 1990 recitava, infatti: “Il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio, che, al fine di procurare a se o ad altri un ingiusto vantaggio non patrimoniale o per arrecare ad altri un danno ingiusto, abusa del suo ufficio, è punito, se il fatto non costituisce più grave reato, con la reclusione fino a due anni.
Se il fatto è commesso per procurare a se o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale, la pena è della reclusione da due a cinque anni.

Il legislatore, raccogliendo le critiche sollevate, nel 1997 (Legge n. 234 del 16 luglio 1997) fu indotto a riformulare l’art. 323 limitando la punibilità a determinate condotte.
Il nuovo testo dell’articolo, introdotto dalla riforma della legge n. 234 del 1997, prevedeva infatti che: “Salvo che il fatto non costituisca un più grave reato, il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione delle norme di legge o di regolamento, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale, ovvero arreca ad altri un danno ingiusto è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni.
La pena è aumentata nei casi in cui il vantaggio o il danno hanno un carattere di rilevante gravità”
.
Relativamente a quest’ultimo testo, vigente fino alla riforma del 2020, come vedremo, la dottrina ha dibattuto sull’interesse tutelato dalla norma.
Parte della dottrina ha sostenuto che l’interesse tutelato dalla norma fosse quello dell’imparzialità della pubblica amministrazione.
Altra parte della dottrina ha ritenuto che nell’ambito dell’interesse tutelato, il patrimonio della pubblica amministrazione fosse il principale riferimento.
La giurisprudenza ha ritenuto, in linea con le riforme del diritto amministrativo, che l’interesse giuridico fosse costituito dalla tutela dell’imparzialità e del buon andamento della pubblica amministrazione previsto dall’art. 97 comma 2 della Costituzione.
Ma la giurisprudenza ha anche evidenziato diversi orientamenti nell’individuare la persona offesa dal reato.
Nell’orientamento prevalente, persona offesa risultava essere soltanto la pubblica amministrazione, in quanto l’interesse protetto dalla norma (imparzialità e buon andamento) è esclusivamente nella titolarità della stessa.
Un orientamento minoritario ha, però, ritenuto il reato di natura plurioffensiva, in quanto idoneo a ledere non soltanto la funzione pubblica declinata dall’art. 97 della Costituzione, ma anche l’interesse del privato direttamente danneggiato dalla condotta delittuosa.

L’ultima formulazione del reato di abuso d’ufficio
La legge n. 120 dell’11 settembre 2020 ha ulteriormente riformato la formulazione dell’art. 323 del codice penale, e definito l’ambito applicativo del reato di abuso d’ufficio, a decorrere dal 15 settembre 2020.
Nella nuova formulazione del reato la norma dell’art. 323 c.p. prevedeva espressamente: “Salvo che il fatto non costituisca un più grave reato, il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto è punito con la reclusione da uno a quattro anni.
La pena è aumentata nei casi in cui il vantaggio o il danno hanno un carattere di rilevante gravità

Il reato previsto dall’art. 323 del codice penale è stato abrogato dall’art. 1 del disegno di legge C1718 convertito in legge n. 114 del 9 agosto 2024, che nell’art. 1 relativo alle modifiche al codice penale, nella lettera b) prevede espressamente: “l’art. 323 è abrogato”.

La precedente questione costituzionale sulla riforma del 2020 La Corte Costituzionale con la sentenza n. 8 del 25 novembre 2022 aveva affrontato il tema della riforma del reato di abuso d’ufficio. Il criterio della riforma, giustificato sulla necessità di un intervento sotto il profilo di una maggiore determinatezza e specificità della fattispecie delittuosa, in realtà incideva sul campo di estensione del sindacato penale sull’attività amministrativa, ed andava a ridefinire il confine tra il controllo del giudice penale sull’attività amministrativa e la sfera di autonomia spettante alla pubblica amministrazione.

La scelta del legislatore è stata legittimata dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 8 del 2022.
Diverse sono state le contestazioni sollevate dal giudice rimettente sotto il profilo formale (una su tutte l’adozione della riforma con decreto legge) e sotto il profilo dei contenuti.

Relativamente a quest’ultimo aspetto, vale la pena riportare le considerazioni effettuate nella remissione della questione alla Corte Costituzionale, secondo le quali:

“……omissis…. Il reato di abuso d’ufficio è volto, infatti, a tutela dell’interesse, costituzionalmente garantito, al buon andamento, all’imparzialità e alla trasparenza della pubblica amministrazione, il che renderebbe palese la contraddizione tra la finalità che ha ispirato il decreto-legge – semplificare l’azione amministrativa <>, come indicato nel preambolo – e la norma denunciata.
L’aver ancorato il fatto tipico alla violazione <> farebbe si che l’abuso, per assumere rilievo penale, debba risolversi nell’inosservanza di una norma legislativa che prefiguri un’attività amministrativa vincolata <>. Una simile indicazione, solo all’apparenza diretta a specificare in modo più tassativo la condotta punita, snaturerebbe, in realtà, la fattispecie incriminatrice, trasformandola <>.
Per un verso, infatti, l’inosservanza di un vincolo di condotta integrerebbe, già di per sé, un diverso reato (omissione di atti d’ufficio in caso di condotta omissiva, falso conseguente al compimento di un atto in difetto dei presupposti, ovvero un diverso abuso d’autorità specificatamente previsto): il che renderebbe inoperante il delitto in esame, stante la clausola di sussidiarietà con cui l’art. 323 cod. pen. Esordisce (<>).
Per altro verso, poi, i casi nei quali la legge determina <> di una condotta imposta a un agente pubblico sarebbero non solo estremamente rari, ma atterrebbero, altresì, <>. In pratica, dunque, il legislatore avrebbe riservato la rilevanza penale ad una casistica <>, lasciando prive di risposta punitiva le condotte, ben più gravi, di coloro che, detenendo il potere di decidere discrezionalmente, si trovano in una condizione privilegiata per abusarne.
La scelta di privare di rilevanza penale ogni forma di esercizio della discrezionalità amministrativa comporterebbe la violazione del principio di eguaglianza, risolvendosi nell’attribuzione all’agente pubblico di un potere dispositivo assoluto e sottratto al vaglio giudiziale. In questo modo, la disposizione censurata avrebbe, equiparando il pubblico funzionario ad un privato, posto sullo stesso piano situazioni affatto diverse: il potere discrezionale attribuito al primo e la facoltà di disposizione riconosciuta al secondo rispetto alla cosa di cui sia proprietario, con ulteriore vulnus al principio di legalità dell’azione amministrativa.”


Le considerazioni in diritto sulla questione dei contenuti, svolte dalla Corte Costituzionale, si possono condensare in due ordini di rilievi.

Un primo rilievo era relativo allo sviluppo di una giurisprudenza estensiva nel configurare la fattispecie, estendendo la rilevanza dei comportamenti a qualunque inosservanza del principio di imparzialità della pubblica amministrazione ai sensi dell’art. 97 della Costituzione. Conseguenza di tale estensione sarebbe un rallentamento ed una inefficienza dell’azione amministrativa, determinato dalla cosiddetta “burocrazia difensiva”, ovvero per il rischio di incorrere nel reato di abuso d’ufficio il funzionario pubblico si astiene dall’assumere decisioni o provvedimenti anche se diretti a realizzare l’interesse pubblico, assumendo soltanto decisioni di minore impegno sotto il profilo della responsabilità (cosiddetta paura della firma).

Un secondo rilievo era relativo alla violazione del principio della determinatezza della fattispecie penale, essendo la norma di carattere generico e relativa a comportamenti non sufficientemente determinati.
La Corte Costituzionale, quindi, per una serie di ulteriori motivazioni aggiuntive alle considerazioni riportate, rigettava la questione di legittimità costituzionale sollevata.

Le considerazioni in seguito all’abrogazione dell’art. 323 del codice penale Il percorso normativo narrato, e le questioni che hanno interessato la Corte Costituzionale interessata dall’ultima riforma legislativa del reato penale di abuso d’ufficio, prima della sua abrogazione, impongono alcune riflessioni ex post sull’opportunità dell’intervento abrogativo effettuato e sulle conseguenze in ordine al bilanciamento dei diritti costituzionali nella parte tra attività della pubblica amministrazione e cittadino.

Non ci si può esimere da una riflessione preliminare: qualsiasi potere tende al proprio rafforzamento e, conseguentemente, a sottrarsi a qualunque forma di sindacato. Ogni forma di vincolo e di controllo costituisce, di fatto, una limitazione del potere.
Il problema della limitazione dei poteri, come declinati dalla Costituzione, attiene in realtà alla tematica della realizzazione dello scopo per il quale sono creati e concessi.
Nella tripartizione costituzionale dei poteri (legislativo, esecutivo e giudiziario), l’attività amministrativa si colloca nel potere esecutivo e ne costituisce l’esplicazione per la realizzazione delle finalità perseguite.
Se ci chiediamo quali siano i limiti nei quali possa essere perseguita questa finalità, la risposta ci viene data dalla Costituzione, nelle disposizioni degli articoli 28, 54 e 97, che stabiliscono l’accesso agli uffici pubblici per concorso, il giuramento prestato nei casi previsti dalla legge, e la soggezione dei funzionari e dei dipendenti della pubblica amministrazione alle norme civili, penali e amministrative, nonché la finalità di imparzialità e buon andamento caratteristica della pubblica amministrazione.

Limiti imposti per garantire chi? E per garantire cosa?
Il chi è costituito dallo Stato italiano, il cui sovrano è il popolo (art. 1 Cost.); il cosa è la Costituzione, che stabilisce i principi fondamentali dello Stato, tra i quali l’uguaglianza dei cittadini (art.3 Cost.).
L’abrogazione dell’art. 323 del codice penale viene chiaramente percepita come un’attività volta a svincolare il potere amministrativo da un sindacato di controllo di diretta riferibilità costituzionale.
Nell’attuale contesto storico-sociale ogni anno si registra il costante e preoccupante incremento dei fenomeni di corruzione e di infiltrazione delle criminalità organizzate all’interno delle strutture pubbliche.
Questi aspetti vengono ogni anno declinati ed evidenziati nelle cerimonie di apertura degli ultimi anni giudiziari.
Di fronte a questa deriva di infiltrazione corruttiva e criminale, ci si aspetterebbe una adeguata e repentina risposta dello Stato.

Ma al netto della scopertura degli organici nel settore giudiziario, della conclamata paralisi della macchina della giustizia e della fallimentare esperienza delle riforme processuali adottate, l’abrogazione dell’art. 323 c.p. costituisce l’ennesimo arretramento dello Stato, declinato nelle garanzie al cittadino di buon funzionamento della pubblica amministrazione, di fronte alla corruzione e al malaffare.

E’ già da tempo molto tangibile il regime di impunità e di totale irresponsabilità che pervade il settore pubblico ed istituzionale: lo abbiamo visto nelle recenti tragedie nazionali (terremoti, crolli, esondazioni) in esito alle quali per andare ad individuare il responsabile non si è cercato nei vertici delle strutture amministrative, ma sono stati perseguiti gli ultimi figuranti.
Lo percepiamo quotidianamente quando, a fronte di inefficienza, disorganizzazione e malfunzionamento della macchina amministrativa, la soluzione adottata consiste nello spostare l’adempimento della pubblica amministrazione a carico dell’utente, con aggravio di adempimenti burocratici ormai diventati impossibili.
A fronte di un costante ed inesorabile alleggerimento di adempimenti e responsabilità, gettate senza scrupolo alcuno sulle spalle dei cittadini-utenti, qualcuno si aspetterebbe un recupero di efficienza da parte della pubblica amministrazione.

In tale contesto, lasciare il controllo della macchina amministrativa a se stessa, sottraendo una buona porzione dell’operato amministrativo al possibile vaglio del giudice penale in sede di verifica del concretizzarsi di comportamenti contrari ai principi espressi dall’art. 97 costituzione comma 2, non soltanto appare un azzardo, ma costituisce anche uno svuotamento dei contenuti delle norme costituzionali espresse dagli articoli 28 e 54 della Costituzione ed un’erosione evidente della tutela dei cittadini di fronte all’operato dello Stato e degli enti pubblici rappresentati dai pubblici ufficiali.

Le giustificazioni sostanziali date alla abrogazione della fattispecie, e costituite dallo snellimento del carico giudiziario, dalla scarsa applicazione della norma connessi ai problemi di indeterminatezza della norma, e dalla cosiddetta “burocrazia difensiva” ovvero l’effetto di preteso rallentamento e intralcio all’azione amministrativa causato dal timore del rischi di applicazione della norma, restituiscono, invece, alla percezione comune un quadro ben diverso della situazione.
Se già la funzione pubblica era vista come una situazione di privilegio connessa all’esercizio del potere, la sottrazione della valutazione del potere amministrativo esercitato al sindacato penale suona come un evidente arroccamento dei poteri amministrativi al di sopra ed al di fuori delle responsabilità connesse al ruolo ricoperto.
Questo tipo di scelta stona maggiormente con il ruolo della funzione amministrativa considerato in sede comunitaria, secondo la quale l’amministrazione costituisce un servizio al cittadino più che un potere pubblico.
Ed allora la visione d’insieme della questione ci restituisce un quadro diverso della situazione.

La prospettazione normativa connessa all’abrogazione della norma sembrerebbe evidenziare che se la pubblica amministrazione non funziona, se la burocrazia è lenta, se i cittadini vivono inenarrabili disservizi, la responsabilità è da attribuire a terribili norme penali che intimoriscono i funzionari pubblici a tal punto da paralizzarne la capacità di operare e li rendono incerti e titubanti, se non addirittura inoperosi.
Ed invece, secondo la giustificazione abrogativa, l’eliminazione della fattispecie favorisce un recupero di efficienza della macchina amministrativa.

L’illusione è destinata a durare poco, ed è un fumo di scena: non soltanto la funzionalità amministrativa non avrà alcun beneficio dall’abrogazione della norma, ma è stato anche liberato il campo ad infiltrazioni corruttive e criminali nella macchina amministrativa.
Tutto questo sempre a discapito dell’interesse pubblico, e quindi in definitiva dei cittadini.
Sarà, purtroppo, la triste ed amara realtà a confermare il clamoroso errore nella scelta abrogativa della norma.
La norma abrogata costituiva, infatti, un valido deterrente contro possibili comportamenti di abuso nell’espletamento della funzione pubblica.
Con l’abrogazione della norma, e con il sostanziale conferimento alla pubblica amministrazione del potere di controllo sui propri funzionari e dipendenti, abbiamo lasciato il lupo a guardia delle pecore.

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