In voga negli anni 2000, scomparso dai dibattiti sul lavoro dalla crisi finanziaria del 2008, il fenomeno del ‘job creep’ (o work creep, cioè lavorare sempre di più in modo soprattutto volontario sperando in una promozione) ritorna.
Della sua insidiosa ascesa ne danno notizia i media anglosassoni ma il trend rimbalza fino a noi, nutrito dalle nuove modalità di lavoro online o ibride, croce e delizia per lavoratori e leader.
Se dalla pandemia del 2020 è in espansione l’abbandono di lavori che non piacciono più perché troppo usuranti soprattutto tra i giovani adulti che hanno imparato a rallentare i ritmi, l’altra faccia della medaglia sono i lavoratori affetti dal ‘work creep’. Il termine equivale all’assumersi, soprattutto in modo volontario, sempre più compiti extra ma a questa modalità non corrispondono promozioni o riconoscimenti, se non minimamente.
Paradossalmente è la stessa pandemia alla base del ritorno del work creep perché ha fornito una tale spinta a modalità e strumenti alternativi di efficienza che i tempi dedicati al lavoro si sono dilatati. Da piattaforme e software che permettono di inviare messaggi e avanzamento progetti a qualsiasi ora e in modo istantaneo ai membri del team di lavoro, all’uso di chat interne e video call, la disponibilità del dipendente o del collaboratore può divenire costante. Insomma, stando fuori dai vecchi spazi in nome di un lavoro più libero e fatto anche da casa, le canoniche otto ore per 5 giorni alla settimana (o comunque le ore da contratto) e i ruoli delineati in un contratto si superano regolarmente.
I confini rotolano facilitati da strumenti elettronici e connessioni alternative messe in piede con i lockdown passati. E così il ‘lavoratore strisciante’ (spiace dirlo ma questa la traduzione letterale del temine) si insinua in noi facendo leva sul valore psicologico insito negli accordi di lavoro come aspettative, disponibilità e riconoscimenti. Diverso dal workaholism, la dipendenza da lavoro che colpisce soprattutto i manager che, una volta in ferie, sentono un terribile senso di vuoto e si sentono male, il work creep contagia chi è molto interessato a quella azienda, quel settore, quei progetti e si rende disponibile a fare di più, sempre di più, magari anche il weekend o la sera. Il lavoro è importante e averne cura è il minimo ma proprio facendo leva su questo aspetto che si rischia la deriva.
L’assioma del ‘what my leader expects from me’ (cosa si aspetta da me il mio capo) prende il posto del più sano ‘what i give my leader, what my leader gives me’, dicono gli inglesi. Insomma: “ti dò di più, a prescindere se anche tu me lo riconoscerai”. Si prova, e si riprova senza fermarsi più, usurando le proprie capacità intellettive e la propria salute psicologica e fisica.
“Superare sempre la richiesta di compiti e doveri consuma risorse mentali e causa elevati livelli di stress. A tali sforzi, inoltre assunti oltre il proprio ruolo, non corrisponde una adeguata ricompensa, – spiega Anthony Klotz, professore alla School of Management alla University College di Londra alla BBC. – Queste sono in fondo tra le ragioni dell’abbandono di lavori poco graditi da parte dei giovani, ma dalle ceneri del vecchio concetto di lavoro il job creep contagia i lavoratori che si assumono compiti extra per fare tutto il possibile anche lavorando da casa”.
Una testimonianza diretta la fornisce Kim Marie Thore, sul portale mondiale dedicato agli scambi professionali , Linked-In: “Divenire virtuali o ibridi significa approcciare in modo tutto diverso qualsiasi lavoro. Le richieste aumentano e nessuno vuole essere percepito come non disponibile. Quando ero in ufficio non lavoravo mai alle 9 di sera. Per essere chiari mi piace lavorare anche da casa ma le mie giornate iniziano all’alba e di solito finiscono quando i miei bambini vanno a dormire, circa 14 ore al giorno. Aggiungi i fine settimana e ‘timbro’ circa 65 ore alla settimana. Noto inoltre che sempre più il mio lavoro si stia espandendo oltre le tradizionali aspettative di ruolo anche con il mio piccolo team e temo che il trend del lavoro strisciante stia prendendo sempre più piede anche per il mio ruolo di leader. Dobbiamo chiederci se stiamo dicendo troppi sì”. La soluzione? “Non si torna indietro, – precisa Thore, – combattiamo questo fenomeno prima di tutto come leader. Dobbiamo essere onesti quando fissiamo le nostre aspettative con noi stessi, col nostro team e con i nostri superiori. Cerchiamo di essere efficienti ma con un occhio più critico e non dobbiamo avere paura di dire di no. Un lavoratore sano, con la mente sgombra, è di sicuro più efficiente di uno pressato dalla mole di progetti. Spezziamo la convinzione che dire sempre sì induca ad un miglioramento della propria posizione”. Anche nell’era del lavoro smart, ibrido o virtuale, che fa sembrare tutto più facile, lavorare meno è meglio.