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giovedì, Novembre 21, 2024
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LE CITTA’ IMPOSSIBILI 2: MOHENJO-DARO

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giovedì, Novembre 21, 2024

Città e siti che non dovrebbero esistere, almeno per l’archeologia ortodossa, e che però esistono e impongono una riflessione sulle origini della civiltà umana. Si, perché secondo la letteratura scientifica convenzionale, la più antica civiltà del mondo è quella sumera. Antecedente ad essa, l’uomo era un cacciatore-raccoglitore che, proprio per la natura della sua attività, non aveva necessità di insediamenti stabili, i quali vennero realizzati solo dopo il passaggio all’agricoltura, e con essi la costituzione di una società organizzata a più livelli divenne il nuovo modus vivendi dell’essere umano. Tuttavia, alcune recenti scoperte archeologiche mettono in seria discussione la narrazione che abbiamo imparato sui banchi di scuola e allargano in modo esponenziale l’orizzonte della Storia. Sapere che alcune città sono più antiche delle piramidi egizie (e non di pochi anni, ma di migliaia di anni!) potrebbe essere sconvolgente perché le implicazioni di tali affermazioni rivoluzionerebbero le nostre conoscenze, obbligandoci a porci domande sulla vera storia dell’umanità.

Riprendendo una consuetudine iniziata l’anno scorso (vedi “Una giornata con l’imperatore”), trascorreremo il periodo estivo con una raccolta monotematica, che si concluderà poco prima dell’equinozio d’autunno. Ogni puntata sarà dedicata ad un sito diverso che, per le sue caratteristiche, sfida ogni nostra conoscenza convenzionale, supera le barriere del tempo, piegandole fino a farlo diventare un sito inspiegabile, un sito, appunto, impossibile.

In questa nuova puntata delle “Città impossibili”, in esclusiva per IQ, visiteremo un’antichissima città della Valle dell’Indo che appare edificata con criteri moderni, dotata com’era di un sistema idrico e fognario avanzato e bagni in tutte le case. La città e la civiltà cui apparteneva scomparvero misteriosamente. E poi ci sono dei poveri resti calcinati che parlano di una morte violenta e improvvisa. Scheletri radioattivi e rocce vetrificate: un’esplosione nucleare migliaia di anni fa? Benvenuti nell’enigmatico sito di Mohenjo-Daro.

TABELLA DEI CONTENUTI

COME SEMPRE, LA CASUALITA’

LA SCONOSCIUTA CIVILTA’ DELLA VALLE DELL’INDO

I MATTONI E LA FERROVIA

LA SCOPERTA DI MOHENJO-DARO

UN SITO VASTO

UNA CITTA’ TECNOLOGICAMENTE AVANZATA

UNA CITTA’ SENZA DECORAZIONI

NESSUN TEMPIO O PALAZZO

UN POPOLO MISTERIOSO

ABILI ARTIGIANI

UNA FINE IMPROVVISA E MISTERIOSA

LA BUFALA DELL’ESPLOSIONE NUCLEARE

IL MAHABHARATA E IL RAMAYANA

LE IPOTESI PIU’ REALISTICHE

MOHENJO-DARO OGGI

COME SEMPRE, LA CASUALITA’

Un treno in India.

Al tempo nel quale gli scavi della Mesopotamia raggiungevano profondità inaspettate, attraverso il fango del Diluvio e sotto il terreno testimone della catastrofe scoprivano le vestigia di civiltà anteriori a quel lontano periodo; al momento nel quale si incominciava a presagire che le prime civiltà non costituivano semplici fenomeni locali, isolati tra loro, ma interconnesse tramite sfuggenti somiglianze estetiche e tecniche nelle quali si intravedeva il sincretismo da una civiltà primordiale, precedente a tutti gli annali, in questo momento il caso mise gli archeologi sulle tracce di una cultura assolutamente ignorata in India, e anteriore di parecchi millenni a tutto quanto era fino ad allora noto. Se gli ingegneri che tracciavano una ferrovia nella Valle dell’Indo non avessero buttato all’aria informi montagne di mattoni per poggiare binari e massicciate, senza dubbio ignoreremmo ancora che intorno al 3.000 a.C. città di grande importanza fiorivano in quei luoghi e ripeteremmo ancora che, in queste regioni, le vestigia più antiche non risalivano più in là del primo periodo islamico.

LA SCONOSCIUTA CIVILTA’ DELLA VALLE DELL’INDO

Non era un luogo isolato quello che allora venne scoperto, ma un intero complesso di città e ben presto, man mano che le ricerche si spingevano oltre, venivano alla luce altre rovine appartenenti alla stessa civiltà.

Per prima apparve Harappa, poi Mohenjo-Daro. Poi nell’ordine: Nal, probabilmente il più antico centro di questa civiltà, Rupar, Ali-Murad con le sue fortezze ciclopiche, Amri, Jhukar, Chanu-Daro. Si poté, quindi, non solo tracciare un quadro completo della civiltà dell’Indo (i costumi dei suoi abitanti, l’arte, la religione e le conoscenze tecniche), ma anche porla in relazione alle altre civiltà contemporanee come Susa e Sumer.

Nel corso di pochi anni la Valle dell’Indo venne ad assumere da parte degli studiosi la stessa importanza della Valle del Nilo, dell’Eufrate e del Tigri. La diffusione di questa civiltà coprì un territorio enorme: verso ovest fino alla frontiera con l’Iran, a est fino a Delhi, a sud fino al Maharashtra e a nord fino all’Himalaya e persino all’Afghanistan. Tuttavia, mentre le rovine dell’Egitto e della Mesopotamia erano state scoperte da lungo tempo, e su di esse vi si proseguiva da decenni un lavoro metodico, la civiltà dell’Indo rimaneva sconosciuta; nessuno ne aveva mai sospettato l’esistenza e nessuno avrebbe mai ritenuto possibile la presenza in quelle regioni di altre città contemporanee alle più antiche dinastie dell’Egitto e della Mesopotamia. Si trattava di una rivelazione, nel senso più esteso del termine, e tanto importante da rimettere sul tappeto l’intera questione dei rapporti culturali durante il IV millennio a.C.

I MATTONI E LA FERROVIA

Per dare un’idea di queste scoperte sensazionali bisogna rifarsi al giorno nel quale gli archeologi scoprirono le prime vestigia di questa cultura, in quella parte del Punjab dove un tempo scorreva il fiume Ravi, in prossimità del letto oggi asciutto.

Gli archeologi osservarono che i mattoni dei quali ci si serviva per costruire la ferrovia, e con i quali la stessa popolazione locale non si faceva scrupolo di costruirsi le abitazioni, erano molto antichi, e quindi ci si doveva trovare sull’area di una città antica ed importante. Queste rovine, metodicamente inquadrate, rivelarono resti di alto interesse, nello specifico sigilli contenenti immagini o caratteri pittografici nei quali alcuni studiosi ritennero trattarsi dell’origine dell’alfabeto indiano. La città di Harappa era già stata scoperta e si poteva solo rimpiangere che un sito che prometteva tanti ritrovamenti fosse stato messo a soqquadro, senza profitto per l’archeologia, dalla popolazione e dagli operai della ferrovia, che lo trattavano come una cava qualunque.

LA SCOPERTA DI MOHENJO-DARO

RD Banerji.

Per fortuna qualche tempo dopo, nell’attuale regione pakistana del Sindh, a 300 km a nord-nord-est di Karachi, sempre nella Valle dell’Indo, si incontrarono rovine che assomigliavano straordinariamente a quelle di Harappa e che, sebbene fossero distanti più di 700 km, mostravano caratteristiche in tutto e per tutto simili. RD Banerji , un funzionario dell’Archaeological Survey of India, visitò il sito nel 1919-20. Credendo di aver identificato uno stupa buddista, constatò che i mattoni con i quali venne costruito erano di materiale già impiegato, molto più antico, in tutto simile a quello impiegato ad Harappa.

Il direttore dell’Archaeological Survey of India, Sir John Marshall incoraggiò le ricerche e, considerando che la zona di Mohenjo-Daro non era stata messa a soqquadro come quella di Harappa, fece spostare, pur senza abbandonare il luogo della prima scoperta, sulle sue rovine la maggior parte dei lavori, dando inizio a scavi su larga scala.

Gli scavi del 1924.

All’arrivo degli archeologi, Mohenjo-Daro si presentava come un insieme di tumuli color mattone, ocra o rossiccio, che si differenziavano certamente dal terreno circostante, di un colore grigiastro. Questi tumuli, in effetti, non erano formati da terra, ma di mattoni provenienti da edifici che il tempo ha demolito. Con la corrosione della pioggia e del vento, dopo cinquemila anni le parti superiori delle case erano crollate, coprendo e preservando al tempo stesso le parti inferiori, in modo che è stato sufficiente rimuovere tali detriti per ritrovare i piani delle strade e delle case ancora in buono stato.

Sir Mortimer Wheeler nel 1956.

Preso lo slancio, le scoperte si succedettero rapidamente. Mohenjo-Daro, sepolta sotto la massa dei mattoni, risuscitò; si videro sorgere dalla terra i larghi viali lungo i quali si allineavano alti caseggiati, strade che si intersecavano ad angolo retto, le fogne, gli stabilimenti dei bagni. In pochi anni, sotto la direzione di archeologi indiani ed inglesi tra i quali ricordiamo Ernest Mackay, Sir Mortimer Wheeler e Ahmad Hasan Dani, la vecchia città tornò a rivivere. L’ultima grande serie di scavi fu condotta nel 1964 e nel 1965 da George F. Dales. Dopo il 1965, gli scavi furono vietati a causa dei danni provocati dalle intemperie alle strutture esposte e gli unici progetti consentiti nel sito da allora sono stati scavi di recupero, rilievi di superficie e progetti di conservazione.

UN SITO VASTO

Panoramica del sito di Mohenjo-Daro.

Secondo la descrizione datane da Ernest Mackay nel suo bel libro “The Indus Civilization”, pubblicato a Londra nel 1935, Mohenjo-Daro “consiste in un vastissimo tumulo che misura circa 1.200 metri di lunghezza da nord a sud, circa 610 metri di larghezza, e in tumuli più piccoli a nord e ad est”.

La zona oggi conosciuta e scavata occupa una superficie superiore a 260 ettari, ma è probabile che la città fosse ancora più vasta. Infatti, una perforazione a secco condotta nel 2015 dal Fondo nazionale pakistano per Mohenjo-Daro ha rivelato che il sito è più grande dell’area dissotterrata.

UNA CITTA’ TECNOLOGICAMENTE AVANZATA

Quando parliamo di tecnologia avanzata per i siti archeologici, intendiamo che in essi sono presenti soluzioni che non hanno corrispondenze nel contesto coevo. Nel caso di Mohenjo-Daro, essa era la città più avanzata del suo tempo, con un’ingegneria civile e una pianificazione urbana notevolmente sofisticate. Il sito ha una disposizione pianificata con edifici rettilinei disposti su una griglia. La maggior parte è stata costruita con mattoni cotti e cementati; alcuni incorporavano mattoni di fango essiccati al sole e sovrastrutture in legno.
Mohenjo-Daro è divisa in due settori: una cittadella e una città bassa.

Ricostruzione del sito di Mohenjo-Daro. E’ visibile a sinistra la Cittadella e a destra la Città Bassa.

La Cittadella
La Cittadella, un tumulo di mattoni di fango alto circa 12 metri, è nota per aver ospitato bagni pubblici, una grande struttura residenziale progettata per contenere circa 5.000 cittadini e due grandi sale per le assemblee. La Cittadella è dotata anche di enormi granai di m 50 x 20. Essa aveva un mercato centrale, con un grande pozzo centrale. Le singole famiglie o gruppi di famiglie ottenevano l’acqua da pozzi più piccoli. Le acque reflue venivano convogliate verso scarichi coperti che costeggiavano le strade principali. Alcune case, presumibilmente quelle degli abitanti più prestigiosi, includono stanze che sembrano essere state riservate al bagno e un edificio aveva una fornace sotterranea (nota come ipocausto), forse per il bagno riscaldato, cosa che precede di ben 2.000 anni le famose Terme romane! La maggior parte delle case aveva cortili interni, con porte che si aprivano su vicoli laterali. Alcuni edifici avevano due piani.

Il Grande Bagno di Mohenjo-Daro: una vasca rettangolare, lunga 12m e larga 7, con una profondità di 2,4m, realizzata in mattoni cotti rivestiti di bitume. Foto: James L. Stanfiel / NGS

La Città Bassa
Ad est della Città Alta, si trova la Città Bassa, molto estesa, in cui si trova lo schema a griglia delle strade. Queste sono dritte, affiancate dai sistemi di scolo. Le strade formano dei blocchi di edifici di 390 x 260 m. Le costruzioni hanno un tetto a terrazza, presente anche nel mondo indiano contemporaneo, sostenuto da travi ed al quale si accede solitamente con una scala. Alcune erano probabilmente di due piani e la maggior parte possedeva una piccola sala da bagno. Le case sono di dimensioni diverse, alcune piccole, altre più ampie che presentano un cortile interno, senza aperture sulla strada e che si aprono su un vicolo, per meglio isolarsi dalla agitazione presente nelle strade principali.

Alcune delle case poi, sono tanto ben conservate che oggi vi si potrebbe ancora vivere, utilizzare le stanze da bagno e impiegare i servizi idraulici e di scolo, orgoglio degli urbanisti di Mohenjo-Daro.

Sono stati scoperti forni di vasai, vasche per tintura, officine per lavorare i metalli, per la produzione di perle e lavori di ceramica. Gli abitanti della città padroneggiavano perfettamente le tecniche d’irrigazione e sapevano controllare le piene del fiume.

Le strade ortogonali
Le strade principali della città, intersecantesi ad angolo retto, secondo i piani preferiti dagli architetti moderni, misuravano talvolta oltre dieci metri di larghezza e alcune attraversavano il sito da un’estremità all’altra.

Queste strade non venivano tracciate a caso: si è notato che erano orientate nella direzione del vento, dato che in questa regione i venti principali sono quelli che soffiano da nord a sud e da est a ovest. Gli abitanti di Mohenjo-Daro pensarono, con molta scaltrezza, che il vento costituiva, in fin dei conti, il miglior sistema per tenere sana e pulita una città, e gli aprirono ampiamente i loro viali, posti in condizione, quindi, di essere aerati e ventilati continuamente. La polvere non doveva mancare, ma gli abitanti se ne saranno curati poco e avranno preferito essere disturbati dalla sottile polvere di mattone piuttosto che venire soffocati dai miasmi di una città orientale.

L’avanzato sistema fognario.

Le fognature
Gli ingegneri di Mohenjo-Daro non avevano trascurato nulla pur di assicurare un efficiente sgombero dei rifiuti. Il loro sistema di fognatura è meravigliosamente conservato e costituisce, a detta degli archeologi, il più ingegnoso e completo dell’antichità. Condutture in mattoni praticate sotto le strade ricevevano lo scarico dei tubi disposti in ogni casa e si allacciavano a loro volta a vere e proprie fogne costruite in pietra. Ad intervalli regolari, queste fogne venivano munite di pozzi di scarico di facile pulitura e bastava spostare qualche mattone per pulire senza sforzo i piccoli canali delle strade in caso di intasamento.

Il sistema idrico
Ne abbiamo accennato prima, ma vediamolo meglio. Gli ingegneri di Mohenjo-Daro avevano costruito un completo sistema di canali che, dopo aver raccolto l’acqua piovana nei sobborghi, la ripartivano a mezzo di condutture di mattoni estremamente efficienti e funzionali e la portavano nei pozzi privati in ogni casa. I più poveri, che non possedevano pozzi privati, avevano libero accesso a quelli dei ricchi e si è scoperta un’ingegnosa disposizione di sedili in mattoni che permetteva di attendere comodamente il proprio turno di distribuzione.

Uno dei 700 pozzi di Mohenjo-Daro.

Con gli scavi effettuati finora, a Mohenjo-Daro sono presenti oltre 700 pozzi, un numero inaudito se confrontato con altre civiltà dell’epoca, come l’Egitto o la Mesopotamia, e la quantità di pozzi si trascrive come un pozzo ogni tre case. A causa del gran numero di pozzi, si ritiene che gli abitanti facessero affidamento esclusivamente sulle precipitazioni annuali, così come sul corso del fiume Indo che rimaneva vicino al sito, insieme ai pozzi che fornivano acqua per lunghi periodi di tempo nel caso in cui la città fosse stata assediata. A giudicare dal periodo in cui questi pozzi furono costruiti e utilizzati, è probabile che il design circolare del pozzo in mattoni utilizzato in questo e in molti altri siti di Harappa sia un’invenzione che dovrebbe essere attribuita alla civiltà dell’Indo, poiché non vi sono prove esistenti di questo design dalla Mesopotamia o dall’Egitto in questo periodo, e anche più tardi.

Il mattone, il grande protagonista
Gli abitanti della Valle dell’Indo avevano quindi raggiunto, 3.000 anni prima della nostra era!, uno stadio di civiltà estremamente avanzato. Oggi esistono città in Africa ma anche in Oriente, che sono ben lontane dal possedere le comodità godute anticamente dagli abitanti di Mohenjo-Daro. Chi oggi si aggira tra le rovine ed entra nelle case e negli stabilimenti balneari, non può fare a meno di ammirare l’ingegnosità di quegli antichi abitanti che avevano costruito una città piacevole, fondata per il benessere dei cittadini, senza disporre di altro mezzo per costruire che la terracotta.

Sia la pietra che il legno venivano impiegati poco: il mattone serviva ad ogni uso e il materiale adatto alla sua fabbricazione si trovava in abbondanza nel terreno alluvionale del fiume. L’argilla veniva posta semplicemente in stampi senza mescolarvi alcun ingrediente aggiuntivo, e poi cotta in forni. I mattoni così ottenuti venivano messi in opera con cura, rinforzandoli con calcina di fango e in certi casi con calce e gesso. Tutti gli edifici della città, monumenti pubblici e abitazioni private, cosi come fogne e pozzi, venivano costruiti così.

UNA CITTA’ SENZA DECORAZIONI

Planimetria perfetta e muri non decorati.

I muri degli edifici erano originariamente intonacati di fango, senza dubbio per ridurre l’effetto deleterio dei sali contenuti nei mattoni e che reagiscono in modo distruttivo al calore e all’umidità variabili. Tranne ciò, sembra che agli abitanti di Mohenjo-Daro sia mancata assolutamente l’idea di decorare i mattoni o d’impiegarli per motivi ornamentali, come per esempio in Mesopotamia. Anche le abitazioni, comode e funzionali, sono prive di elementi decorativi.

Possiamo immaginare che le strade dovessero essere di una monotonia estenuante per chi vi transitava, presentando una successione di muri senza porte e senza finestre, almeno al pianterreno (delle parti superiori non sappiamo nulla). La mancanza di finestre aveva senza dubbio lo scopo di riparare dalla calura esterna, particolarmente ossessiva in Oriente; meno facilmente si spiega la mancanza di porte, individuabili raramente sulle strade principali e aprentesi di solito sui vicoli. L’ipotesi più plausibile è che tale soluzione sia stata adottata per meglio isolarsi dalla agitazione presente nelle strade principali.

Le case avevano diversi piani: Mohenjo-Daro era infatti una città sovrappopolata rispetto alle sue dimensioni. Si stima infatti che essa abbia ospitato almeno 70.000 persone. Era sicuramente un importante centro commerciale in cui case e botteghe si ammassavano in uno spazio ristretto.

NESSUN TEMPIO O PALAZZO

Mohenjo-Daro in una ipotetica ricostruzione generata dall’AI.

È piuttosto anonima“, afferma Gregory Possehl dell’Università della Pennsylvania a Philadelphia. Vi si nota, infatti, la mancanza degli edifici che un archeologo è solito incontrare appena scava in un luogo antico: la città è priva di palazzi, templi o monumenti sfarzosi, o almeno non sono stati scoperti fino ad oggi. Non c’è una sede centrale del governo o una prova evidente di un re o di una regina.

Gli edifici più grandi, che non si distinguono certo dagli altri per bellezza, sembrano essere stati adibiti a magazzini o costruzioni di pubblica utilità, cioè edifici a carattere strettamente pratico.

Una suggestiva immagine di Mohenjo-Daro, con in fondo lo stupa buddista.

Forse esisteva un tempio sull’altura sovrastante il monastero buddista (quello i cui mattoni hanno posto gli archeologi sulla via della scoperta), ma i sondaggi non hanno portato alla luce che piattaforme di mattoni i quali non sembrano affatto provare la presenza di un santuario.
La difficoltà rappresentata dalla presenza in questo luogo di uno stupa buddista, che si dovrebbe distruggere per sterrare completamente il tumulo, non ha ancora permesso di sapere quale aspetto avesse il tempio degli abitanti di Mohenjo-Daro.
Allo stesso modo, sembrano mancare tracce di eserciti o di opere difensive: le mura presenti in alcuni casi e la sopraelevazione della cosiddetta cittadella sembrano dovuti alla necessità di proteggersi dalle alluvioni dei fiumi piuttosto che dai nemici esterni.

UN POPOLO MISTERIOSO

In realtà, non sappiamo nulla della popolazione di Mohenjo-Daro e, in generale, della civiltà della Valle dell’Indo. Ciò è dovuto al fatto che la scrittura presente su sigilli e tavolette non è ancora stata decifrata. Il nome stesso di Mohenjo-Daro, che significa in lingua Sindh “Monte dei morti”, è moderno. Non sappiamo quindi quale fosse il suo vero nome.
Eppure, la Civiltà dell’Indo non fu una realtà effimera: durò dal 3.000 al 1.900 a.C., quando alcuni segni mostrano la comparsa dei primi problemi. Le città cominciarono ad essere abbandonate e gli abitanti rimasti sembrano avere avuto difficoltà a procurarsi cibo a sufficienza. Intorno al 1800 a.C., la maggior parte delle città erano state del tutto abbandonate.

Due dei tre lati di una tavoletta in argilla modellata, con iscrizione e rappresentazione di una barca. Mohenjo-Daro, Museo di Islamabad .

Una scrittura ancora da decifrare
Nonostante diversi tentativi i ricercatori non sono ancora stati capaci di decifrare la forma di scrittura utilizzata da questa civiltà: la quasi totalità delle iscrizioni disponibili, sui sigilli o sui vasi di ceramica, non superano infatti i 4 o 5 caratteri, mentre la più lunga iscrizione ne comprende solo 26.
I segni conosciuti sono circa 400, ma si ritiene che alcuni di essi siano derivazioni con leggere modifiche o combinazioni di 200 caratteri principali. Si tratta probabilmente di una scrittura ideografica e questo rende difficile ipotizzare la lingua o la famiglia linguistica parlata.
A causa della brevità delle iscrizioni alcuni ricercatori hanno suggerito che quelle conosciute non fossero una forma di scrittura vera e propria, ma un sistema d’identificazione delle transazioni economiche, paragonabile alla firma. È comunque possibile che siano esistiti testi più lunghi, ma che non ci siano pervenuti in quanto realizzati su materiale deperibile.

Il cosiddetto Re-Sacerdote.

Il dubbio sulla forma di governo
Uno dei grandi misteri che ancora avvolge questa civiltà riguarda la sua forma di governo. La pianificazione urbanistica e la presenza di una certa forma di standardizzazione edilizia sembrerebbe presupporre l’esistenza di un forte potere centrale. Eppure, l’unico elemento che avvalla l’ipotesi di un assetto organizzativo simile a quello mesopotamico, al cui vertice si trovava un re-sacerdote, è una statuetta in steatite che rappresenta una figura maschile barbuta dal piglio regale, con ornamenti sul capo e sulle braccia. Tuttavia, non vi sono prove che fosse un sacerdote o un re. In assenza di prove dell’esistenza di re o regine, è probabile che Mohenjo-Daro fosse governata come una città-stato, forse da funzionari eletti o da élite provenienti da ognuno dei tumuli.

L’enigma della religione
Un altro enigma è rappresentato dalla religione praticata dal popolo della valle dell’Indo, di cui non si sa quasi nulla. L’abbondanza di statuette di terracotta raffiguranti il toro rampante, lo zebù, e simboli fallici, oltre a personaggi femminili dotati di attributi sessuali pronunciati, testimonia l’esistenza di un culto della fertilità, associato da un lato al vigore maschile, dall’altro alla figura di una dea-madre.

Il sigillo scoperto durante gli scavi del sito archeologico di Mohenjo-Daro nella valle dell’Indo ha attirato l’attenzione come possibile rappresentazione di una figura “yogi” o “proto-Shiva”.

Uno dei sigilli più noti rinvenuti a Mohenjo-Daro reca l’immagine di una figura maschile – forse una divinità a tre facce – seduta nella posizione yoga del “fiore di loto” e con indosso un copricapo ornato con corna di bufalo d’acqua (che ricorda curiosamente il celtico dio Cernunnos), adorata da un gruppo di animali, tra cui una tigre, un elefante, un rinoceronte e un bufalo. È chiaramente un “Signore delle bestie”, con il potere di ammansire gli animali selvaggi. Alcuni vi riconoscono perciò gli attributi di un proto-Shiva e ipotizzano che elementi propri della religione della civiltà dell’Indo, quali l’ascetismo e le pratiche yoga, siano filtrati in seguito nell’induismo introdotto dagli Ari (o indoeuropei), che invasero il subcontinente indiano intorno al 1500 a.C.

Collana in oro e pietre varie.

ABILI ARTIGIANI

La maggior parte degli abitanti della città sembra siano stati commercianti o artigiani, che vivevano insieme in zone ben definite, secondo la loro attività. Per secoli, gli abitanti di Mohenjo-Daro furono creatori di ceramiche, gioielli, statuette e altri oggetti finemente intagliati che andarono a finire in varie zone, dalla Mesopotamia all’Oman di oggi. Sono stati scoperti forni di vasai, vasche per tintura, officine per lavorare i metalli, per la produzione di perle e lavori di ceramica vetrificati.

Numerosi oggetti trovati durante gli scavi includono figure sedute e in piedi, utensili in rame e pietra, sigilli intagliati, bilance e pesi, gioielli in oro e diaspro e giocattoli per bambini. Molti pezzi in bronzo e rame, come statuette e ciotole, sono stati recuperati dal sito, dimostrando che gli abitanti di Mohenjo-Daro sapevano come utilizzare la tecnica della cera persa. Si ritiene che le fornaci trovate nel sito siano state utilizzate per la lavorazione del rame e per fondere i metalli anziché per la fusione. Sembra persino che ci sia un’intera sezione della città dedicata alla lavorazione delle conchiglie, situata nella parte nord-orientale del sito.

La “Ragazza Danzante”.

La figura più celebrata: “La Ragazza Danzante”
Dal punto di vista estetico, l’opera d’arte figurativa più notevole della città è una statuetta di bronzo soprannominata la “Ragazza Danzante”. Alta 10,5 centimetri e vecchia di circa 4.500 anni, fu trovata nell’area HR di Mohenjo-Daro nel 1926; ora si trova nel Museo Nazionale di Nuova Delhi. Nel 1973, l’archeologo britannico Mortimer Wheeler descrisse l’oggetto come la sua statuetta preferita:

“Ha circa quindici anni, credo, non di più, ma se ne sta lì con i braccialetti che le scendono lungo tutto il braccio e niente altro addosso. Una ragazza perfettamente, per il momento, perfettamente sicura di sé e del mondo. Non c’è niente come lei, credo, al mondo”.

La statua portò a due importanti scoperte sulla civiltà: in primo luogo, che a Mohenjo-Daro conoscevano la miscelazione dei metalli, la fusione e altri metodi sofisticati di lavorazione del minerale, e in secondo luogo che l’intrattenimento, in particolare la danza, faceva parte della cultura.

UNA FINE IMPROVVISA E MISTERIOSA

Senza ombra di dubbio, il segreto più grande riguarda la fine della città e della sua cultura. Ciò che pose fine alla civiltà dell’Indo e a Mohenjo-Daro è un mistero. All’improvviso, infatti, la civiltà della Valle dell’Indo è uscita dalla storia e ci si chiede come sia potuto accadere.

Per certi versi il mistero è alimentato dal fatto che nella città sono state trovate tracce molto marcate di radioattività. E poi ci sono quei 44 scheletri, che testimonierebbero di una morte violenta e improvvisa, oltre a conservare, anch’essi, alti tassi di radioattività. Quasi che in quella zona – osservano certi studiosi – sia esploso un ordigno nucleare. Gli esperti hanno rilevato che, in quello che sembra l’epicentro di un impatto, tutti gli oggetti risultavano intrecciati e vetrificati, e le rocce sembravano essersi dissolte a temperature di circa 1500 gradi trasformandosi in materiale vetroso.

Alcuni degli scheletri trovati a Mohenjo-Daro.

Altra stranezza: a Mohenjo-Daro non sono stati trovati corpi martoriati, con tracce di ferite, come accade a seguito di azioni di guerra o attacchi violenti, e non sono state trovate tombe. Per ora sono stati rinvenuti solo quegli scheletri di uomini, donne e bambini, distesi al suolo, in una posizione che ne fa presumere la morte improvvisa, un po’ come si vede a Pompei. Un altro elemento su cui riflettere è che non c’erano armi di alcun tipo nei paraggi.

Recenti analisi avrebbero dimostrato che la maggior parte degli antichi scheletri presentavano tracce di carbonizzazione e calcinazione, come accade dopo l’esposizione a una intensa fonte di calore. Allo stesso modo, la roccia ed altri oggetti, tipo vasellame e monili, mostravano tipici fenomeni di vetrificazione. Gli stessi che si verificano, appunto, a seguito di un’esplosione nucleare. Tanto da far dire allo studioso anglo-indiano David Davenport che gli accadimenti di Mohenjo-Daro “ricordano quelli di Hiroshima e Nagasaki“.

LA BUFALA DELL’ESPLOSIONE NUCLEARE

Ipotesi sicuramente suggestiva. Ma non regge. Un’esplosione nucleare, come si è tristemente osservato ad Hiroshima e Nagasaki produce un calore che raggiunge i 60 milioni di gradi, 10 volte maggiore della superficie del sole: le persone colpite da una simile temperatura non cadrebbero morte in posizioni scomposte, ma semplicemente sarebbero ridotte all’istante in cenere. Inoltre, dopo l’esplosione arriva l’onda d’urto che viaggia a 3 km al secondo, con una forza di 7 tonnellate per metro quadrato, radendo al suolo tutto ciò che incontra nel raggio di un chilometro dall’esplosione. E’ molto difficile immaginare che edifici in mattoni di fango possano essere rimasti tranquillamente in piedi come sono tuttora.

Quanto alle tracce della misteriosa vetrificazione, esse si riducono a qualche frammento di ceramica e sono compatibili con la presenza di forni per vasai, alle officine per la lavorazione dei metalli e per la produzione di ceramica.

Inoltre, non esiste alcuno studio o ricerca che documenti realmente la presenza di radiazioni che siano fuori dal normale in quella zona, e gli scheletri trovati non mostrano segni di morte improvvisa, anche perché la data della loro morte varia a volte di centinaia di anni l’uno dall’altro e tutti i corpi erano stati sepolti.

IL MAHABHARATA E IL RAMAYANA

Il carro celeste c.1650 (acquerello opaco e oro su carta)- Scuola indiana.

Per una questione di completezza, riferiamo anche ciò che viene sostenuto dai teorici degli Antichi Astronauti. Come sappiamo, la teoria degli antichi astronauti, detta anche teoria del paleocontatto o paleoastronautica, è l’insieme delle teorie pseudoscientifiche che ipotizzano un contatto tra civiltà extraterrestri e antiche civiltà umane, quali ad esempio Sumeri, Egizi, civiltà dell’India antica, Ebrei, civiltà megalitiche europee e mondiali, e civiltà precolombiane.
Queste teorie, diffusesi a partire dalla metà del XX secolo, non sono accettate dalla comunità scientifica e pertanto sono inquadrate nel più vasto e controverso campo pseudoscientifico della cosiddetta archeologia misteriosa o pseudoarcheologia. Sono diffuse anche nell’ufologia, rientrando in particolare nel campo della cosiddetta “archeologia spaziale”, “archeologia ufologica” o clipeologia.

Nella fattispecie i poemi epici Ramayana e Mahabharata, massima espressione in forma letteraria delle idee e dei valori culturali fondanti della civiltà indiana, parlano di intere città distrutte a causa di armi micidiali da cui scaturivano incredibili energie, e di macchine volanti (i Vimana) manovrate da esseri definiti Dei.

“Scorgemmo nel cielo una cosa che sembrava una nube luminosa, come delle fiamme di un fuoco ardente. Da questa massa emerse un enorme Vimana scuro che lanciò dei bolidi fiammeggianti. Si avvicinò al suolo a velocità incredibile, lanciando delle ruote di fuoco”

si legge letteralmente nel Mahabharata.

Un Vimana distrugge Mohenjo-Daro, in una immagine di fantasia.

Mentre il Ramayana riporta:

“Quel carro si muove da sé, era tutto lucente e dipinto: aveva due piani e molte finestre molte camere e tante bandiere. Mentre volava emetteva un suono melodioso che sembrava un mormorio”. E ancora: “Improvvisamente si levò un grande vento che fece tremare le montagne, e si vide una fiamma di fuoco che navigava nell’aria”

Antichi Viaggiatori scorrazzano nei cieli indiani.

Secondo i teorici degli Antichi Astronauti gli esseri definiti Dei potrebbero essere stati degli antichi astronauti giunti da altri pianeti. Secondo molti studiosi tali antiche scritture, riecheggiando quelle contenute negli antichi testi sumeri ed anche nella nostra Bibbia, confermerebbero le teorie su antichi viaggiatori spaziali giunti sulla Terra in periodi remoti. Viaggiatori che, talvolta, si sarebbero scontrati ed affrontati in combattimento con le loro navi volanti che dalle descrizioni dei poemi sarebbero in grado sia di volare nell’aria e nello spazio, che di immergersi sott’acqua), coinvolgendo anche gli antichi terrestri, facilmente soggiogati con l’ausilio delle loro tecnologie avanzate.

LE IPOTESI PIU’ REALISTICHE

Come abbiamo detto, non si sa con certezza, cosa esattamente sia accaduto intorno al 1900 a.C. Intorno a quel periodo, le città cominciarono ad essere abbandonate e gli abitanti rimasti sembrano avere avuto difficoltà a procurarsi cibo a sufficienza. Intorno al 1800 a.C., la maggior parte delle città erano state del tutto abbandonate.
Le popolazioni, comunque, non sparirono e negli stessi luoghi si svilupparono una serie di culture regionali che mostrano il prolungarsi, in gradi diversi, della medesima cultura. Una parte della popolazione migrò probabilmente verso est e le pianure del Gange. Tuttavia nei secoli successivi si perse la memoria della civiltà della valle dell’Indo e del suo nome, anche a causa della mancanza di imponenti monumenti in pietra le cui vestigia potessero trasmetterne il ricordo.

La fase finale della Civiltà della Valle dell’Indo.

In passato si ritenne che questa fine, che appariva eccezionalmente brusca, fosse effetto dell’invasione del popolo indoeuropeo degli Arii in India, ma non sembrano esserci prove per appoggiare questa ipotesi.

Una delle cause di questa rapida fine potrebbe invece essere stata un cambiamento climatico importante: alla metà del III millennio sappiamo che la valle dell’Indo era una regione verdeggiante, ricca di foreste e di animali selvatici, molto umida, mentre intorno al 1800 a.C. il clima si modificò, diventando più freddo e più secco.

Il fattore principale fu la probabile sparizione della rete idrografica del Ghaggar-Hakra, identificato con il fiume Sarasvati, citato nel Rig Veda. Una catastrofe tettonica avrebbe potuto deviare le acque di questo sistema in direzione del Gange. In effetti le moderne fotografie satellitari permettono di identificare il corso di un fiume oggi scomparso nella regione e alcuni indizi lasciano pensare che eventi sismici di notevole entità abbiano accompagnato la scomparsa della civiltà della valle dell’Indo.

Distribuzione dell’evento di 4,2 ka BP. Le aree tratteggiate sono quelle colpite da condizioni umide o da inondazioni e le aree punteggiate da siccità o tempeste di sabbia.

Un’altra ipotesi lega la trasformazione del sistema fluviale Ghaggar-Hakra in un corso stagionale e dalla portata minore all’evento climatico 4,2 ka BP (uno degli eventi climatici più gravi dell’Olocene) che indica un’aridificazione di numerose regioni euroasiatiche. Le inondazioni irregolari e meno estese resero l’agricoltura della valle dell’Indo meno sostenibile; la riduzione delle piene del Ghaggar-Hakra potrebbe quindi aver causato il progressivo abbandono della regione, a favore delle pianure ad est più facilmente inondate e dove i monsoni erano più regolari.
Se un grande fiume si fosse seccato al momento in cui la civiltà della valle dell’Indo era al suo apogeo, gli effetti sarebbero stati devastanti: si ebbero probabilmente notevoli movimenti migratori e la “massa critica” di popolazione indispensabile al mantenimento di questa civiltà si dissolse probabilmente in tempi abbastanza brevi, causando la sua fine.

Mohenjo-Daro aveva anche grandi piattaforme forse pensate come difesa contro le inondazioni. Le prove suggeriscono che la città ha sofferto più di una volta di inondazioni devastanti di profondità e durata anomale, dovute non solo all’invasione del fiume, ma forse anche a un ristagno del drenaggio dell’Indo dovuto a sollevamenti tettonici tra Mohenjo-Daro e il mare. Secondo una teoria avanzata per la prima volta da Wheeler, la città avrebbe potuto essere allagata e insabbiata, forse sei volte, e in seguito ricostruita nello stesso luogo. Per alcuni archeologi, si credeva che un’ultima inondazione che contribuì a inghiottire la città in un mare di fango portò all’abbandono del sito. Gregory Possehl fu il primo a teorizzare che le inondazioni furono causate dall’eccessivo sfruttamento e dall’espansione del territorio, e che l’inondazione di fango non fu la ragione per cui il sito fu abbandonato. Invece di un’inondazione di fango che spazzò via parte della città in un colpo solo, Possehl coniò la possibilità di mini-inondazioni costanti durante tutto l’anno, abbinate al fatto che il territorio era consumato da raccolti, pascoli e risorse per mattoni e ceramiche decretarono la caduta del sito.

Tutto ciò si aggiungeva ai danni arrecati dall’intensa deforestazione attuata per fini agricoli: la drastica riduzione delle risorse e dunque del commercio che sosteneva l’economia delle grandi città ne provocò il graduale spopolamento già a partire dal 2000 a.C. Quando le popolazioni arie provenienti dall’Iran o dall’Asia centrale penetrarono nel subcontinente indiano attraverso l’Hindukush, della cultura della valle dell’Indo restava poco o niente.

MOHENJO-DARO OGGI

Un accordo iniziale per finanziare il restauro è stato concordato tramite l’UNESCO a Parigi il 27 maggio 1980. I lavori di conservazione di Mohenjo-Daro furono sospesi nel dicembre 1996 dopo che i finanziamenti del governo pakistano e delle organizzazioni internazionali si erano fermati. I lavori di conservazione del sito ripresero nell’aprile 1997, utilizzando i fondi resi disponibili dall’UNESCO. Il piano di finanziamento ventennale prevedeva 10 milioni di dollari per proteggere il sito e le strutture in piedi dalle inondazioni. Nel 2011, la responsabilità della conservazione del sito fu trasferita al governo del Sindh.

Attualmente il sito è minacciato dalla salinità delle falde acquifere e da un restauro improprio. Mohenjo-Daro si sta sgretolando: dopo essere sopravvissuta per migliaia di anni, protetta dalla terra, l’antica città è ora esposta agli agenti atmosferici, alle piogge monsoniche, in un ambiente che raggiunge i 50 gradi centigradi d’estate e gela d’inverno. Molti muri sono già crollati, mentre altri stanno crollando. Mohenjo-Daro rischia di scomparire di nuovo, vittima, questa volta, della negligenza degli apparati governativi, la cronica mancanza di fondi pubblici, l’indifferenza dell’opinione pubblica e il degrado ambientale.

Nel 2012, gli archeologi pakistani hanno avvertito che, senza misure di conservazione migliorate, al ritmo attuale di degrado il sito potrebbe scomparire entro il 2030. Non si esclude che l’unico modo per salvare la città sia quello di seppellirla di nuovo, restituendola all’oscurità.

Nel prossimo episodio: un importante centro abitato di epoca neolitica dell’Anatolia dalla singolare caratteristica urbanistica: non aveva strade ed era composta da case ammassate l’una sull’altra, a scopo difensivo, a cui si accedeva tramite scale a pioli poggiate sui tetti. Le case potevano essere a più piani, avevano poche stanze, presentavano un’intelaiatura in legno ed un rivestimento, che veniva annualmente intonacato, costituito da mattoni, fatti di fango e paglia essiccati. Le abitazioni recano i resti archeologici di rituali, comprese le sepolture intramurali, con alcuni scheletri con tracce di coloranti e pitture murali. Benvenuti a Çatal Hüyük , la più antica città del mondo ad oggi conosciuta.

Catal Hoyuk.

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