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LEONID ROGOZOV: IL CHIRURGO CHE SI OPERO’ DA SOLO E SI SALVO’ LA VITA.

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martedì, Dicembre 3, 2024

Mi sento abbastanza sicuro nell’affermare che tutti coloro i quali stanno leggendo questo articolo hanno avuto a che fare con un’appendicite acuta, se non direttamente in prima persona, almeno come conoscenti di qualcuno che l’ha avuta.

Si tratta di una patologia molto comune, tanto da sembrare quasi una banalità, nonostante stiamo parlando di una vera urgenza chirurgica, con una possibilità evolutiva verso forme gravi e potenzialmente mortali.

Facciamo ora uno sforzo di immaginazione: avete febbre, dolore nel basso addome di destra; sembrerebbe un tipico esordio sintomatologico del quadro che stiamo descrivendo, ma c’è un “però”: non vi trovate nella comodità di casa vostra, a breve distanza da un ospedale, ma siete in una base scientifica in Antartide. Adesso si potrebbe iniziare a pensare di trovarci in una situazione scomoda: purtroppo non è finita qui, perché in quel luogo inospitale e distante migliaia di chilometri dalla civiltà e da un ospedale c’è un solo medico: e sei tu!

Facciamo un passo indietro.

Leonid Ivanovič Rogozov è un giovane medico, figlio di uno dei 25 milioni di sovietici caduti durante il Secondo Conflitto Mondiale. Si laurea a Leningrado nel 1959 e l’anno successivo a 26 anni decide di mettere in pausa il suo corso di specializzazione per diventare chirurgo, per unirsi alla VI Spedizione Antartica Sovietica. Fu così che partì nel settembre 1960 verso l’Antartide, dove fino all’ottobre 1962 lavorò come unico medico nella base scientifica Novolazarevskaya insieme a tredici ricercatori. Ed è proprio qui che accadde questa avventura, che ha dell’incredibile.

Il 29 aprile 1961 Rogozov, si sveglia, pensando che quella davanti a lui sarebbe stata una delle tante giornate di lavoro, ma si sbagliava. Già dalla mattina notò un’eccessiva stanchezza, associata a nausea; di per sé questo non avrebbe generato eccessiva preoccupazione se non fosse che Leonid si accorse di un lieve rialzo della temperatura, ma soprattutto, la comparsa di un dolore nella parte destra inferiore dell’addome: quell’area nota come Fossa Iliaca Destra. Da medico, pur non essendo presente, posso avere un’idea di quello che pensò inizialmente il mio collega: pur temendo il peggio avrà pensato (anzi, sperato), di essere di fronte ad un malessere passeggero, forse una gastroenterite. Me lo immagino a pensare: “Prenderò degli antibiotici: magari riesco a tenere sotto controllo l’infiammazione”.

Purtroppo ogni speranza si disciolse il giorno successivo: la sintomatologia non era regredita, bensì si era accentuata, rendendo evidente il quadro di una appendicite acuta franca.

Adesso facciamo un passo indietro e riprendiamo lo sforzo di immaginazione fatto poco fa: sei un medico, l’unico su quella Stazione Scientifica a mille miglia dalla stazione sovietica più vicina, la Mirny; non ci sono aerei a disposizione e, comunque, per uno scherzo del destino, le condizioni meteo sono comunque proibitive per un decollo. Hai un’appendicite acuta, sai che se non trattata l’infiammazione peggiorerà e inizierà a coinvolgere il peritoneo, fino a sfociare in una peritonite generalizzata; sai che a breve la tua appendice andrà in necrosi, i tessuti cederanno e il tuo colon si perforerà, permettendo alle feci di invadere la cavità addominale, peggiorando la peritonite e compromettendo il quadro clinico. Rogozov era un medico, era un chirurgo e sapeva che se non avesse fatto nulla sarebbe morto di shock settico e peritonite, tra atroci dolori.

Non c’è altra scelta: io ti operi da solo o muori.

Il medico sovietico si fece aiutare da un meccanico Zinovy Teplinsky, dal meteorologo, Alexandr Artemev e dal direttore della Stazione Vladislav Gerbovich, il quale riportò che gli assistenti improvvisati erano impalliditi e furono sul punto di svenire per quasi tutta la durata dell’intervento, ma fecero ogni sforzo possibile per non abbandonare Leonid, che in quel momento aveva bisogno di tutto l’aiuto possibile. Li istruì, spiegando cosa avrebbe fatto e cosa avrebbero dovuto fare loro: passargli gli strumenti chirurgici e reggergli uno specchio per permettergli di vedere.

Alle 22:00 del 30 Aprile, Leonid Rogozov iniziò ad operare sé stesso: si mise in posizione semiseduta, inclinandosi verso sinistra per replicare la posizione del letto operatorio in una normale appendicectomia e permettere alle anse intestinali di scivolare verso sinistra, lasciandogli libero il campo di destra; anestetizzò la parete addominale con un anestetico locale, poi incise.

Trovò il Colon Cieco e da lì l’appendice e, come scrisse nel suo diario, notò “con orrore che alla sua base c’era una macchia scura. Ciò significa che solo un altro giorno e sarebbe scoppiata”; quella macchia scura era segno che la necrosi era iniziata e che, se avesse aspettato ancora, forse non avrebbe più avuto tempo.

L’automanipolazione delle proprie viscere gli provocava debolezza e nausea, costringendolo a fermarsi per alcuni istanti ogni cinque minuti circa per riprendersi. Leonid si tolse i guanti, per aumentare la sensibilità delle proprie dita, in quanto lavorare al contrario, guardando le specchio gli creava confusione. Preparò il peduncolo della propria appendice, legò i vasi che la irroravano, legò la base e la sezionò: durante queste manovre lesionò per errore il Cieco, ma fu in grado di suturarlo; prima di chiudere somministrò degli antibiotici direttamente all’interno della cavità addominale. A mezzanotte. Minuto più, minuto meno, l’operazione era terminata.

Il peso di una scelta difficile, per quanto obbligata dallo spirito di conservazione, un gesto così carico di tensione, di paura e l’enorme complessità tecnica di eseguire un’appendicectomia su se stessi furono bilanciati da un decorso postoperatorio tranquillo e senza problematiche: dopo cinque giorni sparì la febbre e il medico riprese a lavorare dopo due settimane.

Questo fatto divenne subito noto in Unione Sovietica, tanto che Leonid al suo ritorno, venne premiato con l’Ordine della Bandiera rossa del Lavoro. Ritornò in URSS nel 1962, completando il suo percorso di specializzazione con una tesi sul cancro dell’esofago e proseguì la sua carriera negli ospedali di Leningrado fino a diventare direttore del Dipartimento di Chirurgia dell’Istituto di Ricerca per Tubercolosi e Pneumologia. Morì di cancro ai polmoni il 21 settembre 2000.

Questa vicenda mostra fin dove più spingersi l’istinto di conservazione e la voglia di sopravvivere, nel tentare il tutto per tutto, fino a lanciarsi nell’incertezza. Letta adesso, come la storia capitata a qualcun altro, sembra una decisione facile, in quanto obbligata, ma chi sarebbe riuscito a scegliere con serenità?

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