E’ andata male. Mourinho ha sfiorato il miracolo pur giocando con una rosa senza veri attaccanti, senza cambi e con Dybala a mezzo servizio. Più che con il Siviglia , formazione più strutturata ma non più forte, la sconfitta è maturata a causa di un arbitro indecente su cui, dicono i cattivi umoristi, sarebbe opportuno interpellare Lombroso. La palla ora passa ai Friedkin che saranno chiamati a scoprire le carte speriamo senza la solita accondiscendenza di certa stampa sportiva romana. Presto sapremo quali saranno i progetti futuri al di là dell’investimento che il magnate americano intende fare per arricchirsi con lo stadio. Chiunque ha buon senso si augura che si possa proseguire con Mourinho e con il suo progetto che implica l’arrivo di giocatori di livello. La Roma al di là di qualche elemento ha pochi calciatori che potrebbero giocare con una squadra veramente competitiva. Si salvano Dybala, Smalling, il giovane Bove , il vecchio ed esperto Matic per il resto perplessità. Sopravvalutati Pellegrini e Spinazola; imbarazzanti Abraham, Ibanez e Bellotti.
E’ brutto vedere i bambini con le maglie giallorosse e le bandiere in lacrime per la sconfitta. Dispiace pensare ad una città, sull’orlo di esplodere, rimasta muta.
Mourinho è stato lasciato solo dalla società anche nel dopo partita e ha dovuto gestire senza il supporto di nessuno le reazioni ad uno degli arbitraggi più indecenti di sempre. Il segnale non è bello.
I rischi che il lusitano, deluso dalla presidenza possa partire con un anno di anticipo, esistono. Il nuovo corso che poi sarebbe la nenia “ puntare sui giovani e vincere tra qualche anno” è stato troppo gettonato negli ultimi tempi per avere ancora consenso al di là del lavoro encomiabile e di grande zelo dei soliti prezzolati. Il latino Mourinho, che ha vinto ovunque e tutto, ha trovato in questa pazza e folle città probabilmente qualcosa che non ha sentito neanche nella ricca Milano. La piazza lo ha capito e lo adora. La simbiosi tra lui e la tifoseria è perfetta. Guai a sottovalutarla. Il fiuto del popolo giallorosso sa che il mister è uno dei pochi capace di rendere la squadra vincente. Spesso mediocre o poco più, con le bacheche prive di trofei, la Roma con gli americani probabilmente ha perso anche parte della sua anima ; quella di un popolo ruvido e generoso che vive con grande umanità le piccole cose della vita ma che sa amare in maniera passionale, unica e si sente comunque grande per diritto di nascita.
Ammettiamolo quando, sia pure con la nostra squadra di calcio, siamo tornati “ Impero” è stato bellissimo, proprio perché per noi, in considerazione del nostro nome e della nostra storia, la sensazione è naturale. Chi ha avuto 266 papi e circa 100 imperatori di cose ne ha viste però abbastanza per comprendere che nella vita non si nasce tanto per vincere ma per “amare”. A ricordarcelo le nostre canzoni, i cori, le bandiere che per il romanista sono sostanza, quanto coppe e gagliardetti lo sono per juventini e affini. Nella nostra città trionfi e allori si sono alternati a invasioni, soprusi e stupri. Roma che risorge con Mazzini e combatte a Villa Spada, il 20 settembre , i partigiani ; Roma che muore con gli sbirri del Papa Re o mentre “ de travertino si riveste de cartone”, è la stessa in cui gioca gioioso San Filippo Neri, scrive poesie il Belli e gli innamorati passeggiano tra i vicoli e ai bordi del Tevere. Il tempo non scalfisce l’Eterna. Successi e sconfitte sono nulla rispetto ” ar core grosso” che ha il giallo caldo e benigno del sole e del rosso del cuore generosità e gagliardia. Il romanista non ha scelto la sua squadra per ” interesse” ma da innamorato.
E’ proprio ciò rende i nostri colori belli anche quando si perde o si è in pochi o soli. Il vero “Impero”, per chi ha vissuto troppo come noi, non è più quello dei Cesari e dei Papi di cui conserviamo tombe e effigi, ma un impeto del cuore ricordato da un gioco che facevamo da bimbi.
Un’ altra finale è stata perduta ma Roma resta sempre se stessa e sa che il suo nome letto al contrario si scrive “Amor”.