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martedì, Dicembre 3, 2024
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L’INDIANO – Il fiume va, sa dove andare.

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martedì, Dicembre 3, 2024

Tutto è immenso. Il vasto cielo azzurro senza una nube. L’oceano d’erba che ondeggia al vento. Il fiume. Null’altro, fino a dove riesco a spingere lo sguardo. Solo lo spazio, assoluto e vuoto. Cammino lungo il fiume indugiando. Ci sono tante cose da guardare. Ogni piccola pianta, ogni insetto che ronza attira la mia attenzione. Ogni cosa è straordinariamente viva.
All’improvviso sento il rombo di un tuono lungo il promontorio.
Mi precipito a carponi su per il pendio. Superato il promontorio, mi trovo davanti uno spettacolo straordinario.
La frenetica corsa dei pony mentre si allontanano. I loro mantelli lucidi, le penne attaccate alle briglie, alla criniera e alla coda che svolazzano nel vento della corsa, le pitture sui posteriori. E gli uomini in groppa a loro, che cavalcano con la scioltezza di bambini che si dondolano sui cavallucci dei Luna Park. Le loro pelli scure e untuose, i capelli lucidi e intrecciati, l’arco, le frecce, le lance e fucili, con delle linee marcate dipinte sulla faccia e lungo le braccia. E tutto in un’armonia perfetta. Insieme, uomini e cavalli, sembrano la gloria celebrata della natura in un unico quadro vivente. Sono immerso in una profonda nebbia che adesso comincia a dissiparsi. Mi rendo conto che uno di loro sta tornando. L’uomo a cavallo arriva velocemente, galoppa direttamente su di me. Resto immobile, con lo sguardo fisso come in uno stato di trance sulle narici dilatate del pony. Adesso è a pochi metri da me, si ferma bruscamente, mi guarda, solleva il braccio in alto sopra la testa e grida alcune frasi. Sembra sentirsi improvvisamente soddisfatto, fa compiere una giravolta al suo pony, allenta le redini e parte al galoppo per raggiungere i suoi amici. Resto a guardare sbalordito mentre l’indiano si allontana. I suoni delle parole echeggiano ancora nella mia testa, come ruggiti di un leone. Sebbene non abbia alcuna idea del loro significato, i suoni erano sembrati un’affermazione. Il guerriero ha voluto dirmi qualcosa.
Ivano…ehi, Ivano…
La voce di Anita, di nuovo il presente.
“Stavi pensando di nuovo a quel sogno… vero?”
“Si “ammetto.
“Dovresti rincominciare a vivere, caro fratello, sono passati tanti giorni ormai. Ti sta ossessionando.”
“Lo so, ma…” Bevo dalla tazza, poi taccio.
Da qualche giorno il ricordo del sogno, che sembra più una visione, ha cominciato a perseguitarmi nei momenti più impensabili della giornata; affiora dagli abissi come relitto di un galeone fantasma.
Che diavolo mi succede?
Un raggio di sole batte sulla superficie dei tavoli del locale passando obliquamente attraverso la vetrina. Io e mia sorella Anita siamo seduti, stiamo pianificando il nostro viaggio nella capitale per cominciare la sfida di cui ho parlato nell’articolo precedente, I tempi stanno cambiando. Fissiamo le immagini del notiziario trasmesse dal televisore.
Arrivano filmati della guerra in Ucraina. Le persone spaventate che parlano e piangono davanti ai microfoni dei giornalisti, i feriti a terra, i morti, le auto e i camion di pompieri e forze dell’ordine scorrono davanti ai nostri occhi. Di colpo, tra le altre notizie di politica e di economia, viene mandato in onda un servizio per il 25° anniversario dall’uscita dell’album La fabbrica di plastica di Gianluca Grignani.
“Ma sono passati già venticinque anni?”
“Purtroppo sì cara sorella, il tempo vola maledettamente”.
“Ricordo ancora il vostro primo incontro”.
“Un giorno indimenticabile. La prima presa di contatto con un indiano”.
Ridiamo.
“Ero andato per la lezione privata di chitarra a casa di Lucio; musicista, insegnante di musica e zio di Gianluca Grignani. Ci incrociammo davanti al portone della sua abitazione. Io stavo arrivando, lui se ne stava andando. Scarpe da tennis, camicia fuori dai jeans consumati e di almeno tre taglie più grande, capelli folti e lucenti che arrivavano alle spalle. Gli occhi scuri e grandi, da rapace. Pelle del colore della luna. Lo avevo riconosciuto subito ma poteva trattarsi benissimo di un indiano comanci, non mi sarei mai aspettato niente di così selvaggio e diffidente. Quando sono apparso ebbe istintivamente la tentazione di evitarmi. Lo salutai, rompendo il silenzio come un secco accordo di chitarra elettrica. Quando si girò in direzione della mia voce che lo aveva disturbato, mi trovai faccia a faccia con la cosa più strana e imprevedibile che avessi mai visto. Una persona emozionalmente nuda. Un uomo nudo, che marciava deciso attraverso lo spiazzo con i pugni chiusi, la mascella serrata, in fuga dal mondo e probabilmente anche da sé stesso”.
Anita mi guarda con un’espressione di attesa.
Continuo.
“Ma l’incontro più surreale avvenne successivamente, quando raggiunse il picco della popolarità. Mi disse che Destinazione Paradiso sarebbe stato il suo primo e ultimo album, che era la fine di tutto e avrebbe smesso di fare questo mestiere. Rimasi di stucco!”
“Non è esattamente quello che ci si aspetta di sentire da uno che ha appena ottenuto un successo così fulminante”, commenta Anita.
“Già “mi limito a rispondere, anch’io ancora sorpreso dopo tanto tempo.
Perché in effetti Gianluca Grignani esordì con Destinazione Paradiso, considerato da molti una pietra miliare del pop/rock cantautorale italiano anni 90, nell’immediato raggiunse il record di vendite per un disco di debutto arrivando a circa 800.000 copie, che diventarono presto svariati milioni con le vendite all’estero. Il suo incredibile volo verso il successo cominciava passando le selezioni di Sanremo Giovani con La mia storia tra le dita e sull’onda del successo di oltre 100.000 copie vendute approdava al Sanremo ufficiale del 1995 tra le nuove proposte arrivando al sesto posto con Destinazione Paradiso. Ma la classifica finale del Festival ha un valore relativo perché apparve subito ben chiaro che qualcosa di straordinario era successo. Ragazzine urlanti, hotel sotto assedio, polemiche, storie d’amore vere o presunte con donne dello spettacolo sbandierate nelle pagine delle riviste di pettegolezzo più in voga. Sesso, droga & rock and roll insomma. E, giusto per rispettare alla lettera l’articolo 1 del codice degli artisti maledetti; era spuntata anche la voce della sua morte prematura.
“Sembra ieri quando apparve per la prima volta a Sanremo Giovani. Il suo esordio in Tv”, riprende Anita.
“Davvero. Aveva l’aria del giovane poeta, un po’ maledetto, un po’ nazional-popolare, nel senso gramsciano del termine, tanto per usare una definizione cara a Pippo Baudo. Le due canzoni, una sentimentale, La mia storia tra le dita, e l’altra, Destinazione Paradiso, apocalittica; descrivevano bene lo stato emozionale della nostra generazione dilaniata dalla minaccia dell’era della precarietà, dalla corruzione, e dalla decrescita economica, principali cause di alienazioni irrimediabili su giovani insidiati in tempo di pace da pericoli drammatici quanto quelli che li insidiavano in tempo di guerra. Era impossibile non notarlo”.
“E infatti, rapidamente, divenne una delle più importanti superstar. Una volta raggiunta la cima più alta, però, fece una scelta spiazzante e coraggiosa. Ma non tutti la pensano così” continua Anita.
“Vero. Per alcuni fu più un capriccio, un atto di presunzione che un urlo di libertà rivolto al sistema di omologazione discografico. Ma le sue intenzioni erano diverse. Mentre il mondo dello showbiz lo seduceva con lodi e promesse Gianluca continuava a rimuginare su un pensiero. E come un cercatore d’oro che improvvisamente trova il prezioso minerale, fece la sua scoperta. Si accorse di essere seduto in riva al fosso della grande fabbrica di plastica. Se fosse rimasto anche un solo giorno in più ad aspettare o a camminare sulle uova aspettando una guida, la fabbrica di plastica lo avrebbe usato fino all’ultimo e poi gettato tra i rifiuti dopo averlo fatto a pezzi. Non avrebbe aspettato oltre. Sarebbe passato all’iniziativa. E se lo avessero fatto a pezzi lo stesso, il diavolo si sarebbe preso pure gli avanzi. Ma lui non avrebbe più aspettato. Avrebbe mostrato al mondo la musica che aveva in mente di suonare senza condizionamenti di nessun tipo”.
“Ed ecco arrivare l’album La fabbrica di plastica”, riprende mia sorella Anita.
“Il disco ha sonorità ruvide, sperimentali e sfacciate per il pubblico medio del pop radiofonico italiano. Le canzoni sono rivestite da chitarre elettriche alla Radiohead con spruzzatine di post-grunge alla Bush e richiami sparsi di Battisti, Beatles e Oasis. La struttura melodica e dei testi, però, ripetono pressoché la stessa formula usata da Grignani per i brani dell’album precedente. Per raggiungere il suo obiettivo Gianluca si circonda di musicisti come il chitarrista Massimo Varini, il batterista Mario Riso, e del produttore e arrangiatore Greg Walsh. Ovviamente, al progetto inizialmente partecipa anche il padre artistico, e amico, Massimo Luca, che però ha delle riserve sulle tempistiche e sulle modalità della nuova rotta intrapresa dall’artista brianzolo. Secondo lui, infatti, Gianluca avrebbe dovuto proseguire ancora per un po’ sulla stessa rotta dell’album Destinazione Paradiso, e solo dopo aver consolidato il successo e il rapporto con il suo pubblico uscire con un album come La fabbrica di plastica”.
“Ma Gianluca Grignani non ci sta. Sente l’urgenza di rivelarsi istantaneamente. Senza calcoli”, interviene nuovamente Anita.
“Esatto. Credo sentisse il lavoro precedente ormai in qualche modo distaccato da lui; voleva che il nuovo album lo coinvolgesse in modo totale, anche come chitarrista: non ci doveva essere più un di qua e un di là, o si andava di là con i suoni, i volumi, gli strumenti, le parole, le immagini, insomma con tutto, oppure non c’era modo di continuare. Questa è la sensazione che mi sono fatto dopo averne parlato con un po’ di persone che gravitavano nell’orbita di Gianluca Grignani in quel periodo. Tra queste, ovviamente, c’è anche il nostro caro amico Massimo Luca “.
“Il nostro amico Max”, dice Anita facendo cenno di sì con la testa. Poi aggiunge:” indimenticabile il discorso sugli indiani durante la cena di fine anno passata insieme!”
Le parole di Anita mi colpiscono come una luminosa macchia di colore. Quelle che vedo ora sono le immagini vive di quella notte e si muovono come in un sogno mentre mi strofino gli occhi.
Eravamo allegri e soddisfatti e questo stato d’animo traspariva chiaramente dai nostri volti mentre chiacchieravamo amichevolmente tra noi, fumando (Massimo Luca, la sua mitica pipa), mangiando e scambiandoci delle storielle. Erano racconti di avventure musicali che coinvolgevano praticamente tutti i più grandi artisti della musica italiana, di vita quotidiana e di quelli che non si possono rivelare. Quando Massimo fu invitato a raccontare le sue storie, mimava con i gesti e gestiva le pause con una teatralità che ci faceva sbellicare dalle risate. Diventò anche il nostro saggio capo tribù indiano quando passò ad argomenti più profondi e filosofici. A massimo non dispiaceva. Anche a lui piaceva la parte del vecchio indiano con la pipa. E quando lo conobbi, mi disse di considerarsi un indiano a tutti gli effetti.
“Ora che siamo praticamente ubriachi, davanti alla terza o quarta bottiglia di bollicine, devi dirci come sono andate veramente le cose. Qual è il segreto di tutti questi grandi artisti che sono diventati immortali?”
E Max ci rispose: “Caro Ivano, in tutti questi anni ho lavorato con Fabrizio De Andrè, Zucchero, Paolo Conte, Lucio Dalla, Francesco Guccini, Quincy Jones, Phil Ramone, Tony Sheridan, Mina, Grignani, Battisti e molti altri. E sai qual è la differenza tra quelli che restano nei cuori della gente e quelli che invece spariscono? La differenza è che quelli che restano non giocano a fare gli indiani. Sono indiani”. Quelle parole mi sono entrate subito nella testa e non le ho più dimenticate.
Era quasi l’alba ed eravamo nel salotto di casa mia, con noi c’era anche una cara amica; Massimo Luca si allunga a prendere la sua storica chitarra classica dall’aspetto piuttosto malconcio e vi suona un paio di accordi, giusto per vedere se è accordata. “Ecco, ragazzi”, dice. “Datemi una mano anche voi con la voce”. La sua mano sinistra forma un accordo e la sua mano destra comincia a pizzicare le corde, dopo qualche battuta, inizia a suonare la leggendaria intro de I giardini di marzo di Lucio Battisti, apre la bocca per cantare i primi versi, ma potrebbe anche farne a meno: tutti noi lo battiamo sul tempo e cantiamo. Alla fine della canzone parte un applauso spontaneo da parte nostra e Massimo Luca ci ringrazia, e dopo che noi lo abbiamo ringraziato a nostra volta per la magia che ci ha regalato, attacca Yesterday dei Beatles. Poi esegue altre canzoni di Battisti, qualcuna di Grignani e di altri artisti che ama particolarmente. Terminato il miniconcerto acustico, Massimo appoggia le braccia sulla cassa della chitarra e dice:” Questo è quello che dovrebbe fare la vera musica, dovrebbe legare assieme le persone per mezzo di parole e di musica che in qualche modo si fondono per andare a toccare tutte le corde giuste dell’animo di noi tutti. Unirci in un solo essere per mezzo delle canzoni. E riuscire a ripetere l’incantesimo ogni volta. Senza badare solo ai freddi numeri. Un artista dovrebbe essere una specie di guaritore. E per farlo deve partire dalla strada, non dalla TV con programmi studiati ad arte da certe persone solo per catturare il più alto numero di spettatori. Ma questo modo di pensare ormai sta scomparendo anno dopo anno. È stata cancellata la memoria e quindi la cultura di questo mestiere”. Fa una pausa e, osservando le immagini trasmesse dal televisore, aggiunge:” I pochi che ancora resistono sono un po’ come il protagonista di quel film”.
Il canale satellitare stava trasmettendo L’ultimo dei Mohicani. Il film racconta attraverso le storie di un cacciatore bianco che ha rinnegato la civiltà per vivere a contatto con la natura e dei suoi due compagni indiani, superstiti di una razza tra le più antiche e rispettate, i Mohicani, la responsabilità degli europei nella corruzione degli indigeni e ha come sfondo la guerra franco-indiana. Il film non cataloga gli indiani come semplici vittime ma li divide in buoni e cattivi. I protagonisti si trovano a dover aiutare le due figlie di un generale inglese rapite dal comune nemico capo della tribù alleata dei francesi. La vittoria, alla fine, si deciderà con una guerra indiana tra le due tribù schierate dalle parti opposte tra i due grandi eserciti europei e finirà con la morte dell’ultimo dei Mohicani. Il film si chiude con un mesto presagio del capo più anziano dei Mohicani, che sente avvicinarsi la fine del suo popolo e di un’epoca.
“Sembra la metafora perfetta per descrivere quello che sta accadendo al mondo della musica”, riesco finalmente a rispondere a Max, quasi biascicando, alle 6 del mattino.
Dondolo leggermente la testa come per scuotermi dal torpore e guardo in giù sul tavolino del locale il display del mio smartphone. Sono di nuovo nel mese di ottobre dell’anno 2022.
“Alla fine Max ci aveva visto giusto con quel paragone”, esclama Anita mentre gioca con il sottobicchiere del locale.
“Sì, i suoi occhi vedono con una chiarezza che in pochi possono uguagliare. Proprio come un vero sapiente capo tribù indiano”.
“Lui ha vissuto un periodo felice, il rinascimento della musica leggera italiana. Ma una marea devastante, che nessuno poteva né vedere né sentire, si è abbattuta di colpo sulla discografia. Quel tempo è finito e forse se n’è andato per sempre”.
A queste parole di Anita l’espressione del mio volto muta di colpo. Diventa cupa.
In effetti, quando sul volgere degli anni Novanta è arrivata Napster e poi sono arrivati Emule, Torrent; ci siamo abituati a non pagare la musica, e la musica è diventata qualcosa di cui poter disporre gratuitamente. L’idea di pagare un file quando lo stesso file potevamo averlo gratuitamente è cominciata a diventarci naturale. Le vendite del supporto fisico sono iniziate a crollare fino quasi a scomparire. Le nuove generazioni non si sono mai affezionate a un supporto fisico per cui hanno iniziato a maturare l’idea che la musica fosse in effetti liquida e a disposizione di tutti senza possederla, farne un oggetto. Per questo motivo quando poi lo streaming è arrivato è sembrata una via di salvezza rispetto alla pirateria. Lo streaming era quantomeno legale grazie ad un accordo tra etichette discografiche e le società di streaming, Spotify in testa. Poco conta che in realtà questo accordo abbia letteralmente disintegrato i guadagni da parte degli artisti a causa delle royalties talmente esigue da essere calcolate in numeri decifrabili solo da supercalcolatori, svendendo, sostanzialmente, il loro catalogo. E poco importa anche che lo streaming abbia praticamente ucciso la musica stessa, perché la modalità di ascolto che ci consente ha spinto produttori e discografici a mettere in giro musica che per questa modalità fosse pensata. Come se di colpo la contemporaneità non equivalesse a una sonorità appoggiata su stilemi odierni, sia tecnologicamente parlando che per questioni di gusti e linguaggi, ma equivalesse semplicemente a quel che gira meglio in streaming, modo agghiacciante di adeguarsi alla bassa fedeltà laddove in passato si era cercato in tutti i modi di fare delle necessità virtù. Oggi sono in molti a pensare che l’avvento di Spotify e dei talent show, dove tutto è buttato lì per fare audience e creare promozione prima della produzione a discapito dei contenuti, abbia irreversibilmente cambiato e corrotto gli equilibri e le regole del gioco, portando alla fine della discografia e di un’epoca, esattamente come accadde agli indiani d’America con l’arrivo degli europei.
“Ma il rapporto tra Gianluca Grignani e Massimo Luca è cambiato ben prima dell’arrivo della marea devastante”, prosegue Anita.
“La produzione de La fabbrica di plastica travolse tutte le relazioni, personali e professionali, portandole sempre al limite. Gianluca, agli occhi degli altri, fingeva di essere proprio il tipo che era. Viveva sempre al massimo. Era uno di quelli destinati a finire in un incidente motociclistico o di overdose, e tutta quella roba di cui sono morti gli eroi americani…”
Ci guardiamo l’un l’altra, colpiti dallo stesso incredibile pensiero.
Gianluca Grignani ha dovuto sottostare per un po’ allo strapotere di un avversario, la vera fabbrica di plastica dello showbiz, più forte di lui, pur non condividendo i suoi ideali, la sua politica e la dottrina del suo sistema, di cui aveva più che una vaga idea, visto che anche lui era stato invitato a farne parte. Ma aveva risolutamente rifiutato l’invito. La conseguenza di quel rifiuto determinò anche una storica rottura tra il cantautore brianzolo e Massimo Luca, in contrasto sulla gestione di quel manifesto arrabbiato e disperato che era La fabbrica di plastica. Entrambi, però, oggi sono superstiti di un mondo che sta scomparendo. Ognuno pronto a combattere per proteggere la propria identità. Non si sono arresi neanche davanti al nuovo pericoloso nemico. Oggi Gianluca Grignani continua a fare la musica che vuole in barba a qualsiasi regola che lo condannerebbe all’omologazione diffusa, e Massimo Luca porta in giro ovunque, on the road, le canzoni senza età di Lucio Battisti insieme alla sua tribù di amici musicisti.
La suoneria dello smartphone di Anita rompe la tensione. Le sorrido mentre parla.
“Mm… Va bene, perfetto”.
“Novità?” chiedo a mia sorella che ha chiuso la telefonata e si è già alzata, in volto un’espressione entusiasta.
“Un problema risolto. Ora possiamo partire subito per Roma!”
“Finalmente!”
“Andiamo a prepararci. Sarà un viaggio importante. Probabilmente il più importante!”
La guardo divertito, poi la seguo a passi veloci fuori dal locale.
Il sole se ne va quasi nello stesso momento in cui il viso di Anita sparisce dalla vista dietro il portone di casa, e io rimango a lungo seduto dentro la mia auto nell’oscurità. Penso a molte cose. Mi chiedo quale sarà la mossa successiva da fare. Se capiterà qualcosa in questo viaggio. La risposta arriva con un effetto esilarante su di me. Succede sempre qualcosa a Roma.
Dopo un’ora di guida i muscoli irrigiditi cominciano a dolermi; parcheggio l’auto e mi dirigo faticosamente verso casa. Improvvisamente stanco, mi lascio cadere completamente vestito sul letto. Mi ritrovo, ancora una volta, fuori del tempo e dello spazio…
Non c’è niente.
Il fiume è scomparso nell’enorme foresta davanti a me. Batto gli occhi ripetutamente. A mano a mano che mi avvicino, lo spettro dei boschi assume maggior forza e mi sento all’improvviso piccolo. Mentre gli alberi si infittiscono attorno a me, percepisco qualcosa di strano. Non sento nessun suono.
C’è troppo silenzio.
Il silenzio diventa opprimente a mano a mano che mi addentro maggiormente. Improvvisamente il sentiero si allarga, rimango sbalordito di fronte alla bellezza di ciò che vedo. Davanti a me c’è un terreno aperto. Il sole crea larghi spazzi luminosi e caldi sul terreno della foresta. Non c’è nulla che l’uomo può costruire per uguagliare la portata e la bellezza di questa cattedrale all’aperto.
La mano dell’uomo, però, può distruggerla. E lo vedo già qui.
Il luogo è stato orrendamente profanato. Degli alberi di ogni dimensione sono stati abbattuti; alcuni giacciono gli uni sopra gli altri, come stuzzicadenti rovesciati sopra un tavolo. Percepisco uno strano ronzio. A mano a mano che procedo verso il centro della cattedrale, mi accorgo che a provocare il rumore è il battito d’ali di migliaia di mosche che banchettano. Dovunque volgo lo sguardo, vedo sul terreno delle carogne o dei pezzi smembrati di animali, orrende catapecchie sparse, numerose bottiglie di alcolici, lasciate cadere là dove sono state scolate. Ci sono una moltitudine di altre cose inutili e sento l’odore disgustoso dei rifiuti umani mescolati a qualsiasi altra cosa che marcisce. In un punto del terreno trovo corpi in decomposizione. Sembrano quelli dei guerrieri indiani del sogno che mi ha ossessionato nei giorni scorsi. Provo rabbia e vergogna. In lontananza, a Est e a Ovest, riesco a distinguere il colore e la forma dell’acqua. Il fiume continua a scorrere oltre questo inferno. Ma il ronzio delle mosche è così forte adesso. Mi sveglio da questa macabra visione. A poco a poco ritorno completamente in me. Riapro gli occhi. Sento il mio corpo tendersi e ho l’impressione di essere precipitato a capofitto lungo un interminabile tunnel spazio-temporale che mi ha riportato in una realtà molto simile alla visione appena avuta, in cui la brutalità si fa strada con sempre maggiore prepotenza. E io mi sento chiamato a contrastarla fino in fondo, inseguendo i miei sogni.
E proprio come Gianluca Grignani e Massimo Luca non ho nessuna intenzione di tornare indietro dopo l’incredibile ingiustizia subita di cui ho parlato nell’articolo precedente, I tempi stanno cambiando. Non posso ancora rivelare i contenuti pubblicamente. Ma, appena possibile, lo farò. Qualunque cosa succeda alla mia etichetta, devo proseguire seguendo il mio sentiero. Forse perderò tutto o forse i veri protagonisti della musica sono tutti morti. Forse ci sono dei sopravvissuti, soltanto a un’ora di distanza da qui, che cercano disperatamente di raggiungere un nuovo sogno. Io non mi fermo. Ma c’è un motivo più profondo per andare avanti, qualcosa che va al di là del mio stretto senso del dovere. Ci sono dei momenti in cui una persona desidera qualcosa così fortemente che il prezzo o la condizione per averla non rappresentano più un ostacolo. Avevo voluto essere me stesso e fuggire anch’io dal sistema di omologazione della fabbrica di plastica più di ogni altra cosa. E adesso sono qui. Come andrà a finire o qualsiasi cosa succederà e perché, a me non importa. È ciò che ho ardentemente desiderato da anni.
Vado in cucina, preparo il caffè. L’orologio segna le 6.13. Non c’è tempo per le riflessioni. È quasi l’ora di prepararmi per uscire e sbrigare le ultime faccende prima della partenza.
Due ore dopo.
Abbasso lo sguardo sulle punte delle mie scarpe. Riflettono la luce del sole. Sospiro brevemente e per una frazione di secondo sento il desiderio di un altro buon sorso di caffè. Apro la porta dell’auto e il taxi parte lentamente. Soffia un leggero vento e la voce di Lucio Battisti risuona nell’impianto audio dell’auto bianca:
Il fiume va, sa dove andare
Guardo più in là in cerca d’amore
Un’automobile corre, non ci son nuove terre
E lascia dietro sé
Del fumo grigio e me
E questo verde mondo nel quale mi confondo
Indifferente perché
Da troppo tempo, ormai
Apre le braccia a nessuno
Come me che ho bisogno
Di qualche cosa di più
Che non puoi darmi tu
Ma un’auto che va
Basta già a farmi chiedere se io vivo *

Già, il fiume sa dove andare. E io sto andando incontro a… non so a che cosa.
Ma ci sto andando.

Ivano Faraci
*L’aquila di Battisti/Mogol

https://www.instagram.com/ivanofaraci/
https://www.facebook.com/ifrecordsemanagement

https://youtu.be/VU01YTSs2h8 (Destinazione Paradiso di Gianluca Grignani)
https://youtu.be/U7cwXvZMfZk (La fabbrica di plastica di Gianluca Grignani)
https://youtu.be/UiE5tL73tQo (L’aquila di Lucio Battisti)

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12 COMMENTS

  1. un’altra perla meravigliosa! Ho atteso il nuovo episodio ( ormai per me è come un serial Tv) a lungo e ne è valsa la pena. Sempre più bello! Racconti la realtà con una formula incredibilmente attraente e stimolante

  2. Onirico, reale, travolgente, e così vero che arriva direttamente al cuore. La musica ha bisogno di questa magia e di queste emozioni per ritornare al centro della vita quotidiana. Basta algoritmi: viviamo intensamente e torniamo esseri umani!

  3. mi è venuta voglia di ascoltare la fabbrica di plastica di Grignani!!! Non l’ho mai ascoltato questo album ma lo farò subito. Articolo meraviglioso

  4. è proprio vero, ormai i veri artisti stanno scomparendo esattamente come è accaduto alla cultura e civiltà degli indiani d’America. Massimo Luca ha suonato con i più grandi di sempre e ora si è defilato dalla discografia per portare avanti la sua musica preferita insieme agli altri musicisti che hanno suonato con Lucio Battisti, resiste esattamente come l’ultimo dei Mohicani. Grignani ha avuto coraggio a pubblicare La fabbrica di plastica in una fase così importante della sua carriera, ha dimostrato anche lui coraggio e onestà artistica. Ci dicono, questi due esempi, che bisogna continuare a persistere nell’inseguire i nostri sogni, la nostra reale attitudine e non a seguire le mode. Bellissimo articolo! Poetico, illuminante e anche onirico. La continuity è intrigatissima e mi porta a desiderare con trepidazione l’uscita del prossimo articolo. Complimenti!

  5. Non sono mai stata un’ammiratrice di Grignani, non lo conoscevo molto se non per La mia storia tra le dita e Falco a metà, però devo ammettere che dopo aver letto L’ Indiano mi è venuta voglia di ascoltare La fabbrica di plastica. Mi sono fatta una cultura anche su Massimo Luca. Per concludere; ho riscoperto anche la bellezza di una canzone come L’aquila di Lucio Battisti e Mogol. Intramontabili! Ormai questo angolo Helter Skelter è diventato un appuntamento irrinunciabile per cullare le emozioni. Come un buon libro! A quando la prossima?

  6. Leggendo tutti gli articoli ho acquisito informazioni e goduto di emozioni e sensazioni che solo un metodo particolare come il tuo poteva regalare. Lo trovo molto originale e allo stesso tempo spiazzante perchè non si sa mai dove si arriva e cosa succederà. Devo dire che dopo la lettura dei tuoi articoli ho rivisto il mio giudizio sugli artisti che ne sono stati protagonisti. Bob Dylan, Beatles, Oasis, Grignani, Battisti; i musicisti e tecnici come George Martin, Massimo Luca e i film citati…tutti rivalutati con un occhio completamente diverso!
    Non è facile oggi fare cultura nel panorama pop. Grazie! Sono già in attesa del seguito. Rob

  7. La rubrica è un angolo fatato, magico, delle meraviglie! Ma pieno anche di informazioni precise e interessanti. Sono completamente d’accordo con la linea di questo’ultimo articolo e di quelli precedenti (ma forse dovrei dire capitoli); in effetti si dovrebbe tornare ad essere più umani di quel che stiamo sempre più diventando.Tornare alle cose semplici e fatte con l’anima e non pensare sempre e solo all’effimera popolarità istantanea o al guadagno facile. Le cose , tutte le cose, vanno fatte in quanto devono essere fatte, per piacere o per dovere, ma non solo per guadagno o cinismo e avidità. Questo mondo sempre più comandato dagli algoritmi e dalla facile e rapida popolarità figlia dei social e di trasmissioni tv sempre più becere non mi piace per niente e ci rende tutti più poveri e tristi. Stiamo perdendo il sogno purtroppo, quello genuino, il motore della nostra vita.

  8. Credo anch’io che Spotify e i talent stanno distruggendo la musica invece di salvarla. Rendono tutto quantitativo e non qualitativo. Gli artisti veri non parteciperebbero mai a un talent perchè si sentirebbero legati e imbavagliati nell’ eseguire quello che gli autori e lo show tv chiedono. Si chiama puro intrattenimento e non arte. Spotify invece invoglia solo ad aumentare gli ascolti su migliaia e milioni di canzoni con un supporto a bassissima qualità di ascolto. La musica deve essere ascoltata con attenzione e non solo n modo distratto mentre si corre o si fa altro. Manca la sacralità dell’ascolto. E’ tutto uso e getta in nome della Tv e delle piattaforme web gestite da algoritmi. Un mondo assurdo. La musica vera è destinata a fare la stessa fine degli indiani d’america. Bellissima rubrica che porta a stimolare cervello, cuore e anima

  9. Sei riuscito a inserire diversi argomenti con una disinvoltura disarmante. Geniale e emozionante. Bravo! Non vedo l’ora di leggere il nuovo capitolo di questa rubrica che sembra un racconto bellissimo! 🙂 VB

  10. all’inizio sono rimasto basito perchè non capivo di cosa si trattasse , se di un articolo, una storia, se di una storia vera o inventata. Ma poi mi ha travolto l’entusiasmo e da allora non riesco quasi più a trovare interessanti gli altri articoli che parlano di musica in modo didascalico. Poi, sul web gli articoli sono per la maggior parte scarni e di una semplicità miserevole. Qui invece trovo di tutto ma in modo calibrato e non caotico; tutto ha un fine uno scopo. E, ancora, c’è una storia di base una continuity, una forma di reality, come fosse un diario di bordo raccontato con cadenze da romanzo. Tradizione e modernità insieme, a sandwich. Un format unico, originale. Fantastico! Parlando di Grignani e La fabbrica di plastica, credo sia un album molto importante nel panorama italiano ma forse un po’ mitizzato nel tempo, non tanto per i suoni, gli arrangiamenti e la produzione, ma per le qualità della canzoni in sé. Grignani ha scritto molte più belle canzoni prima e successivamente secondo me. Ma nulla toglie l’importanze simbolica di questo album giustamente da celebrare da un punto di vista rappresentativo di un’epoca.

  11. La fabbrica di plastica è stato un album che ha cambiato le regole di produzione musicale in Italia . Per un periodo Milano è diventata Londra grazie al coraggio di Grignani. Sono convinto che questo coraggio lo abbia pagato nella sua carriera e che poi sia stato costretto a fare dei passi indietro per continuare a fare il suo mestiere. Ha rischiato grosso e forse non gli è stato totalmente riconosciuto questo merito, ma alla fine ci è riuscito. Oggi riscuote il meritato elogio e negli anni il riconoscimento adeguato arriverà in proporzioni sempre più grosse. Questo articolo è il contributo più appropriato secondo me. Geniale e fuori dalle regole

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