Un velo indossato male può essere una condanna a morte se sei in Iran. Lo è stato per la 22enne curda Mahsa Amini, torturata dalla “polizia morale” di Teheran fino a entrare in coma, lo scorso 16 settembre, e poco dopo morire. È stata la goccia definitiva: tutti gli anni di vessazioni, di privazioni di diritti, di annullamento delle libertà più essenziali della persona sono venuti a galla, e iraniane e iraniani sono insorti contro il regime teocratico di Khamenei e della “stortura” dell’Islam e delle sue leggi da parte del suo governo. Capelli sciolti e tagliati in pubblico, hijab bruciati e palazzi statali vandalizzati sono stati accompagnati da richieste di libertà, di crescita e di ascolto che hanno avuto rapida eco in tutto il mondo. La reazione, tuttavia, è stata virulenta: oltre alla soppressione della comunicazione e la chiusura dei social, si contano a decine i morti, centinaia gli arresti, le esecuzioni sommarie attuate dagli agenti di polizia iraniani per strada e nelle centrali (tutto ben documentato anche grazie ai social, TikTok in primis). A dare manforte ai persiani oppressi e uccisi, è arrivato lo schieramento degli artisti, che come allo scoppiare della guerra in Ucraina hanno espresso con forza la propria vicinanza alle vittime della violenza.
– Giulia Giaume