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L’Opera di Roma torna a Caracalla con “Mass” di Bernstein. Regia di Michieletto.

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Un muro color cemento calato sul palco tra le vestigia antiche delle Terme di Caracalla quale potente simbolo che reca in sé le immagini di tutte le barriere di separazione nel mondo. Comprese quelle della strage recentissima dei migranti morti nel tentativo di entrare in territorio spagnolo dal Marocco attraverso la barriera al confine con l’enclave di Melilla, aggiunte all’ultimo dal regista fra le altre, in questi giorni, nel montare alle prove uno spettacolo nato cinquant’anni fa a memoria dei Kennedy, tra sospetti e scalpore negli States del presidente Nixon, ma che in Italia a oggi non registra alcun precedente in forma scenica, per quanto eseguito per il Giubileo del 2000 in Vaticano per volontà di Giovanni Paolo II. È Mass: A Theatre Piece for Singers, Players, and Dancers (Messa: un’opera teatrale per cantanti, musicisti e ballerini) di Leonard Bernstein, su testo dello stesso compositore americano, con aggiunte in versi di Stephen Schwartz e del cantautore Paul Simon, su commissione di Jacqueline Kennedy, con prima esecuzione e taglio del nastro al Kennedy Center di Washington D.C., l’8 settembre del 1971, nonché grande sfida con cui il Teatro dell’Opera di Roma, impegnando tutte le compagini artistiche interne e affidandone la regia inedita a Damiano Michieletto, ha scelto per inaugurare il nuovo cartellone d’estate. Rientrando inoltre, dopo due anni trascorsi al Circo Massimo, alle Terme di Caracalla, venerdì 1° luglio con repliche domenica 3 e martedì 5, sempre alle ore 21.

«Tornare a Caracalla – ha dichiarato il sovrintendente Francesco Giambrone in apertura di conferenza-stampa, convocata nella sala grigia del Costanzi per presentare l’opera di Bernstein – mi sembra un bellissimo segnale. Ci saranno tutte le nostre risorse interne in campo e diverse prime volte: per il regista Michieletto, ormai da considerare “di casa” eppure al suo esordio alle Terme. E così per il direttore d’orchestra Diego Matheuz, per i coreografi e lo sarà, naturalmente, per il Bernstein di Mass. È una grande opera o, meglio, una grande partitura che, in virtù di alcune intuizioni registiche di Damiano molto forti, racconta molto della nostra contemporaneità. L’idea portante del muro – spiega Giambrone – ricorda i tanti muri che ci sono nel mondo. Di mattoni, di reti spinate o semplicemente metaforici ma che, in ogni caso, parimenti impediscono, separano, non accolgono. E le immagini di quei muri, comprese quelle rimbalzate nello spettacolo dalla cronaca di questi ultimissimi giorni quale urgenza artistica, restituiscono tra i diversi valori dell’Arte anche quello di testimonianza storica viva. Non è questo il mondo, l’Europa che vogliamo. Lo ha detto Mass di Bernstein cinquant’anni fa, lo dice oggi Michieletto con tutti gli artisti che concorrono in questa immensa produzione».

Dunque, opera globale e incredibilmente complessa per la moderna sintesi fra linguaggi eterogenei (latino, inglese e un Sanctus in ebraico), classica, pre-registrata, jazz e rock, stile polifonico, suggestioni tardo-romantiche e dorsale da musical. Inoltre, la danza più la performance del solista. Pertanto, in campo, un’orchestra da oltre cento elementi, una jazz band, un complesso di street singers, una marching band, un cantante-attore nel ruolo del Celebrante (il baritono Markus Werba), la compagine di ballerini, coro misto e coro di voci bianche. Accanto a Michieletto sono infatti impegnati Paolo Fantin per le scene, Carla Teti per i costumi, Alessandro Carletti per le luci e Filippo Rossi per i video, l’Orchestra del Teatro dell’Opera di Roma e il Coro istruito da Roberto Gabbiani, il Corpo di Ballo diretto da Eleonora Abbagnato, i coreografi – fra i più interessanti del nostro panorama contemporaneo d’ultima generazione –Sasha Riva e Simone Repele, uno Street People Chorus, composto da 21 performer italiani da musical selezionati su oltre 80 audizioni, gli allievi di “Fabbrica” Young Artist Program e della Scuola di Canto Corale della Fondazione.

Al di là della notorietà del musical per antonomasia, West Side Story, «Mass– ha aggiunto a seguire Alessio Vlad, direttore artistico della Fondazione capitolina– è forse è l’opera più significativa di Bernstein. Contrastata a suo tempo e, forse, neanche compresa. Credo che, al pari dell’era di Mahler, sia oggi venuto il momento di questo lavoro in grado di tirar fuori tutta la sua sorprendente contemporaneità. Ha l’energia travolgente di un musical ma non ha nulla dell’intrattenimento del genere».

In via analoga per il maestro Diego Matheuz, anch’egli presente al tavolo dell’incontro con la stampa, «tale titolo di Bernstein costituisce un singolare banco di unione fra i generi in pentagramma, ribadendo l’assenza tra i confini e attestando, piuttosto, la differenza tra buona musica o meno. E, soprattutto, Mass va a dimostrare quanto il compositore fosse avanti rispetto al suo tempo».

E poi naturalmente, in aggancio, le parole del regista Michieletto. «Fu un fiasco la prima volta? Ma chi se ne frega, anche Carmen e Barbiere, pure in locandina per Caracalla, furono contestati. Quel che conta, piuttosto, è la forza di coesione e d’impatto fra tanti tasselli eterogenei, strettamente connessi eppure sempre perfettamente riconoscibili per cifra, così come ben emerge dalla splendida identità coreografica di Sacha Riva e Simone Repele, artisti con i quali ho avuto la gioia di poter lavorare per la prima volta». Poi, illustra nel dettaglio la sua visione registica. «In qualche misura, nell’ottica di base dell’opera di Bernstein che non a caso sfugge a una precisa struttura e a una vera definizione di genere, il mio è stato un lavoro ecumenico con tante cose dentro. In sintesi, ecco la mia idea partita, naturalmente, dal buon segreto di un grande lavoro di squadra. Al centro c’è un muro che, in videoproiezione, mostra una mappa di tutti i muri che sono stati costruiti nel mondo per dividere i popoli: dal Messico alla Palestina, passando per l’Ungheria. Chi deve difendere la propria ricchezza erige muri. Ma i muri li portiamo anche dentro di noi: sono le nostre paure, i nostri pregiudizi, rappresentano l’impossibilità di comunicare, la volontà di sottrarre agli occhi quello che c’è dall’altra parte, per chiudersi nelle proprie sicurezze. Il muro, in questo caso, separa in concreto una comunità intenta a incarnare lo spirito di una messa. Non è una liturgia, secondo quanto d’altra parte inteso dallo stesso compositore, ma l’innesto di elementi liturgici per dare il senso di una comunità che cerca un Dio e non sa dove trovarlo. Come a cercare una spiritualità senza poterla più delegare a dei dogmi, a delle etichette. E quindi la domanda rimane scottante: dov’è Dio in un mondo che sembra aver rinunciato a Dio? Ossia, dove trovare una spiritualità in cui le coordinate sembrano essere tutte saltate?
Ecco che il muro divide, drammaticamente, quello che vorrebbe essere una condivisione. Sulle macerie di questo muro, tuttavia, c’è la prospettiva di una speranza. In termini drammaturgici – prosegue e conclude –gli street singers rappresentano dunque la contestazione nei confronti del celebrante, verso colui che lavora per l’unione e la condivisione di fede: lo deridono, lo provocano, lo mettono in crisi. Abbiamo quindi creato dei passaggi facendo rivivere fisicamente alcuni momenti della crocefissione di Cristo. Gli mettono una corona di spine, lo sfidano. Dotati di maschere e di costumi simbolici che ne rendono indistinguibile l’identità e l’umanità, sono cioè proprio i cantanti di strada a costituire la parte distruttiva del contesto. Dividono il tavolo dell’altare intorno al quale la comunità si ritrova e innalzano una barriera che, però, verrà infine distrutto dai corpi stessi dei ballerini.
Un finale quasi lieto? Diciamo che lo è, come può esserlo il momento in cui si tocca il fondo e si cerca di rialzarsi. Con Paolo Fantin abbiamo pensato a un’immagine dipinta, alla quale ci siamo ispirati e attenuti nella visione finale: La zattera della Medusa di Théodore Géricault, con il suo gruppo di uomini disperati, con qualche corpo già morto, in balìa del mare. Sul fondo s’intravede una piccola luce di speranza. È lontana, ma c’è all’orizzonte».

Connessi all’Opera. Paola De Simone.

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