Il Festival della Valle d’Itria di Martina Franca conclude la sua programmazione operistica con un titolo inedito, Opera italiana, di Nicola Campogrande, portando così a compimento un ideale itinerario temporale di cinque secoli, che parte dal Xerse di Cavalli e arriva all’oggi, passando per Salieri, Bellini e Prokof’ev. La storia dell’opera lirica, che sembra interrompersi con la morte di Liù – ovvero di Giacomo Puccini – in realtà prosegue, ma da quel momento in poi prende sempre più le distanze dal grande pubblico. Chi ama il melodramma sa bene che anche dopo Puccini ci sono stati grandissimi compositori d’opera (lo stesso Prokof’ev, ad esempio, di cui a Martina si è apprezzato Le joueur), che hanno scritto magnifici capolavori, ma sa anche che difficilmente questi titoli sono entrati nel cuore degli ascoltatori come accaduto con quelli del passato. Scelta dunque coraggiosa, quella del Festival martinese, diretto da Sebastian Schwarz, che riprende un progetto di Campogrande nato in realtà in occasione del 2011, 150° anniversario dell’Unità d’Italia e poi arenatosi. Il libretto è firmato da Piero Bodrato ed Elio (quello delle Storie Tese) e, come prevedibile, nella trama e nella scrittura porta in dote una componente di surreale ironia alla quale l’ispirazione musicale eclettica e cangiante di Campogrande conferisce ulteriore forza.
Il tutto trova compiuta espressione nel disegno registico di Tommaso Franchin, che coglie perfettamente lo spirito del lavoro e lo restituisce con mano delicata ed elegante, nel segno di quella leggerezza non scevra di poesia della quale parlava Italo Calvino nella sua celebre “Lezione americana”. Ha molto di calviniano, in effetti, quest’opera, che ha l’ambizione di raccontare l’Italia di ieri e di oggi e – come accade per ogni opera d’arte autenticamente tale – di porsi come momento di riflessione sull’universale dinamica di passioni, amori, contrasti, ambizioni che da sempre sono al centro della “commedia umana”. Proprio come ha fatto il melodramma nel corso del tempo.
Un’operazione dunque riuscita. Anzitutto per l’agile intreccio del libretto, ben costruito dal punto di vista drammaturgico (tre atti compatti e vari nelle situazioni) e gustoso nella lingua. Poi, per la musica di Campogrande, rispetto alla quale lasciamo la parola direttamente al compositore: “Per Opera Italiana ho composto una musica allegra e intensa, che alterna momenti di assoluto divertimento a pagine nelle quali dominano l’amore, la passione, in qualche caso il dramma. Una musica con melodie, armonie, ritmi e soluzioni strumentali che permettono agli interpreti di esprimersi, di divertirsi e di entrare in relazione con il pubblico. Continuo infatti a pensare che un compositore, oggi, possa andare oltre l’esperienza un po’ punitiva delle vecchie avanguardie e lavorare a un presente (e forse a un futuro) nel quale la musica torna a essere un piacere per le orecchie e per il cuore, oltre che per il cervello”. Significativo il riferimento all’esperienza “punitiva” delle “vecchie avanguardie”: si tratta infatti dell’unico linguaggio che non trova eco nell’ispirazione di Campogrande, che invece per il resto spazia dal barocco al cabaret, dal pop al rap, dalla polifonia antica al brano tardoromantico. I fondamentali sono solidissimi, lo stile leggero e la storia della musica per lui è come una sorta di grande vocabolario al quale attingere senza un’apparente gerarchia di valori. In questo, il musicista torinese è tipicamente postmoderno, per il piacere di accostare stili e riferimenti, perseguendo la logica del contrasto e trovando anche affinità tra linguaggi lontani.
Una musica che ha trovato apprezzabile esecuzione da parte dell’ensemble strumentale del Teatro Petruzzelli di Bari, con l’inconsueta presenza di percussioni, chitarra e basso elettrico, diretto con grande sensibilità e spiccato senso del teatro da Alessandro Cadario. Musica vivace, a tratti graffiante, ricca di citazioni, in una sorta di gioco a incastro molto divertente anche per il pubblico. L’unica sottolineatura critica riguarda la scrittura vocale, davvero impegnativa per i solisti, che tuttavia sono riusciti nell’impresa di un’esecuzione di pregio. Opera è anche un personaggio, un’italiana melodrammatica (non siamo in fondo un popolo melodrammatico?) ed è un soprano leggero, qui interpretato con gusto e precisione da Cristian Arsenova, mentre l’altra donna del cast si chiama Scellerata, una simpaticissima svalvolata, che ha la voce scura e corposa del contralto Candida Guida; peraltro, per questo personaggio Campogrande prevede anche la possibilità che sia affidata a una cantante jazz. Soldini, un imprenditore di pochi scrupoli, vanta la sicura presenza scenica e l’agile vocalità tenorile di Raffaele Abete, mentre Mario (nome crediamo non scelto a caso…) è un ottimo baritono, Gurgen Baveyan, tanto incisivo come amante appassionato quanto convincente nei panni di bizzarro inventore (il suo sogno è diventare qualcuno portando ovunque l’elettricità). Completano il cast il custode del condominio dove si finge l’azione (Balconi, portinaio opportunista ma di buon cuore), che ha la bella voce scura del basso Yuri Guerra e un personaggio che parla con le mani, dal significativo nome “Quello che suona”, il bravo pianista Claudio Bonfiglio, la cui presenza aggiunge un ulteriore tocco onirico all’intreccio.
I fatti si dispiegano attraverso tre fasi essenziali della storia italiana: gli anni Sessanta e Settanta, gli anni Ottanta e l’inizio del nuovo millennio. Il regista Tommaso Franchin racconta la vicenda con il tono della fiaba, preferendo suggerire piuttosto che illustrare. Siamo in un grande palazzone popolare di periferia, evocato in modo simbolico dalla scenografia geometrica e funzionale di Fabio Carpene, illuminata sempre con grande proprietà e suggestione da Alessandro Carletti. Contribuiscono in maniera significativa alla riuscita del disegno registico i bellissimi costumi di Giada Masi, elegantemente in linea con l’evoluzione temporale del racconto. La presenza di due bambini che compaiono nei momenti chiave dell’opera aiuta a dispiegare la dimensione favolistica e incantata di una storia a tratti surreale, che si conclude con il trionfo dell’amore: un’energia che si accende nei cuori dei personaggi grazie a un’esplosione che farà di Mario un astro brillante nel cielo notturno. Perché, in fondo, siamo fatti della stessa sostanza delle stelle.
Festival della Valle d’Itria 2022
OPERA ITALIANA
Libretto di Elio e Piero Bodrato
Musica di Nicola Campogrande
Prima rappresentazione assoluta
Opera Cristian Arsenova
Scellerata Candida Guida
Soldini Raffaele Abete
Mario Gurgen Baveyan
Balconi Yuri Guerra
Quello che suona Claudio Bonfiglio
Orchestra del Teatro Petruzzelli di Bari
Direttore Alessandro Cadario
Regia Tommaso Franchin
Scene Fabio Carpene
Costumi Giada Masi
Luci Alessandro Carletti