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Mons. Crociata sulla pastorale carceraria

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carcereIQ.22/10/2013 – Oggi pomeriggio, alle ore 16.00, S.E. Mons. Mariano Crociata, Segretario Generale della CEI, è intervenuto al Convegno Nazionale dei Cappellani delle Carceri Italiane, in corso a Sacrofano (RM), presso la Fraterna Domus (via Sacrofanese, 25), dal 21 al 23 ottobre, sul tema “Giustizia: pena o riconciliazione”.

Titolo dell’intervento di Mons. Crociata, è stato: “Educare alla vita buona in Cristo: i volti nella giustizia”

Orientamenti pastorali e pastorale carceraria

Educare alla vita buona in Cristo: i volti nella giustizia

 

 

Convegno nazionale dei cappellani delle carceri italiane

Sacrofano – 22 ottobre 2013

 

Il Convegno che si svolge in questi giorni, e al quale volentieri prendiamo par-te, tocca un ambito significativo della pastorale ecclesiale, quello dell’assistenza spirituale di alcune tra le persone più bisognose della solidarietà umana e cristiana. A esse deve essere prestato l’aiuto necessario a sopportare la pena loro inflitta, vivendola come un periodo di ravvedimento e di ripresa. Il tempo del carcere può e deve essere impostato come un tempo educativo e rieducativo, nel quale la detenzione e la pena subita si integrino in un percorso complessivo di crescita della persona, dal punto di vista umano e cristiano. È questa la prospettiva che assumerò nel mio intervento.

Saluto tutti voi, cappellani, che dedicate una parte importante del vostro mini-stero sacerdotale a questo servizio e siete impegnati in una missione così preziosa e delicata. Questi giorni di incontro, di riflessione e condivisione vi sostengano nel compito che vi siete assunti in obbedienza alla Chiesa, e vi rafforzino nel proposito di servire con zelo e dedizione le persone a voi affidate. Saluto anche tutti gli operatori del settore e gli altri responsabili, ringraziandoli per l’opera che svolgono e invitandoli a riflettere sull’importante missione educativa loro affidata.

La delicata situazione delle carceri e dei carcerati

Tutti conosciamo la situazione delle carceri nel nostro Paese: da troppi anni in esse si vivono gravi problematiche, prima fra tutte quella del sovraffollamento, che determina condizioni di vita disagiate e spesso ai limiti della sopportazione umana. Si ha l’impressione che la questione della condizione di vita dei detenuti, oltre a quella dei progetti di recupero e di reinserimento e dei relativi investimenti, non venga mai affrontata con la necessaria determinazione e progettualità. Sembra che si tratti di problemi marginali, che non toccano la società nel suo insieme, ma solo alcune persone che, obbligate a vivere nei luoghi di detenzione, non ne sono più parte. A esse, per il loro particolare stato, legato ai reati commessi, non sarebbero da assicurare condizioni di vita dignitose e realmente riabilitanti. Eppure non si tratta di persone “di serie B”, ma sovente di uomini e donne che, pur essendosi macchiati di crimini più o meno gravi, hanno vissuto sofferenze e difficoltà, e ora hanno bisogno di comprensione e dell’appoggio della società per potersi rialzare e reinserire nelle normali relazioni sociali. Non è ammissibile che migliaia di persone vivano quasi dimenticate per lunghi periodi, abbandonate a una sofferenza che potrebbe in parte essere alleviata e che non è certo il fine della detenzione.

Il dovere della carità verso i fratelli più deboli

La Chiesa e i singoli credenti sentono il dovere primario, frutto del comando del Signore, di vivere la carità, in particolare verso i più deboli. Ciò rappresenta al tempo stesso la più autentica testimonianza al Vangelo e ha un forte valore missio-nario, contribuendo all’opera di evangelizzazione (cf. Mt 25,31-46). Chi è raggiunto dalla carità dei credenti fa sempre esperienza della vicinanza del Signore e della presenza della Chiesa. Ci sprona in tal senso la parola della Scrittura che, nella Lettera agli Ebrei, invita a perseverare nell’amore fraterno e nell’accoglienza (cf. Eb 13,1). Il testo continua esortando: «Ricordatevi dei carcerati» e precisa il modo in cui farlo: «come se foste loro compagni di carcere» (Eb 13,3a). Con questo breve accenno si delinea lo stile con cui ci si deve accostare a chi è in stato di reclusione: come se ci si trovasse nella sua stessa situazione, a condividere la sua medesima sorte. Fin qui si spinge la carità cristiana, che non si riduce a un aiuto materiale o all’espletazione di servizi, pure utili o necessari, ma è condivisione profonda della condizione dell’altro. Essa trova il suo modello nel Signore che, passando accanto all’uomo ferito dal peccato e sentendone compassione, come buon Samaritano si china su di lui e se ne prende cura. Chi visita i fratelli che si trovano in carcere deve essere mosso da questo stesso sentimento divino, cioè dalla compassione che il Signore ha avuto e ha per noi, dal sentire ciò che lui stesso prova, in modo da far percepire a colui che si visita la propria compagnia e la propria empatia. Quando raggiunge questa profondità, la solidarietà con l’altro diventa un balsamo che ne allevia il dolore, o un vino che ne guarisce le ferite. Essa è paragonabile al bicchiere di acqua offerto a chi ha sete, che non perderà la sua ricompensa (cf. Mt 10,42). La visita a chi è in carcere non risolve i suoi problemi, ma come un po’d’acqua allevia le fatiche e permette di procedere nel cammino.

La pastorale carceraria secondo le tre dimensioni della vita ecclesiale

L’opera di assistenza ai detenuti, svolta dai cappellani e dai volontari, si articola secondo i tre ambiti fondamentali di tutta l’azione della Chiesa: il compito profetico, quello sacerdotale e quello regale. La funzione profetica ha come suo centro l’annuncio della parola di Dio e di quanto egli ha compiuto a favore degli uomini nella storia della salvezza. Tale annuncio, in carcere ancor più che nella pastorale ordinaria, non può che partire dall’instaurazione di un sincero rapporto umano, fatto di ascolto e di comprensione. È un ascolto che fa proprio l’intreccio di problematiche, speranze, sbagli e sofferenze che il detenuto porta in sé e che trasmette incontrandoci. Non è un mero esercizio interiore, ma l’offerta all’altro di ospitalità, di un luogo di riparo, simile a quello che gli uccelli del cielo, stando alla parabola evangelica, trovano sul grande albero che è il regno di Dio: esso è come un piccolo seme che, una volta cresciuto, fa ombra e diventa un luogo di riparo. Analogamente, il dialogo solidale è un piccolo gesto, ma offre un grande sollievo e fa percepire il conforto stesso di Dio. Chi è visitato, riconoscendo che l’amicizia ricevuta non è motivata da ragionamenti umani, né è mossa da qualche interesse, è misticamente posto in contatto con l’amicizia stessa di Dio. Il Vangelo allora gli viene trasmesso prima di tutto con i gesti, con il sorriso e un ascolto attento.

Solo all’interno di un simile contesto di fiducia potrà innestarsi e attecchire la trasmissione del lieto messaggio annunciato ai poveri da Gesù, venuto a portare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista, a rimettere in libertà gli oppressi e a proclamare l’anno di grazia del Signore (cf. Lc 4,18). La predilezione di Gesù per i poveri, la sua misericordia per chi ha peccato e la sua vicinanza agli ultimi, agli ammalati e agli emarginati, stanno al centro del messaggio evangelico e rappresen-tano una buona notizia per chi sperimenta più intensamente la debolezza e la pri-vazione forzata della libertà. Da un certo punto di vista, chi vive in tale stato, se sperimenta l’afflizione o ha fatto una viva esperienza delle proprie colpe, è predi-sposto ad avvertire con maggiore intensità il bisogno del perdono e della misericordia di Dio, che del messaggio evangelico costituiscono il fulcro.

Uno dei tentativi più importanti di trasmettere la fede passa dalla lettura e dal commento della Parola di Dio. «La fede – insegna l’enciclica Lumen Fidei – è la ri-sposta a una Parola che interpella personalmente, a un Tu che ci chiama per nome» . I gruppi di lettura del Vangelo, pur se spesso coinvolgono solo pochi detenuti, offrono la possibilità di commentare le letture domenicali o altri testi della Sacra Scrittura, confrontando la propria vita con la Parola rivelata. Tale iniziativa ha un grande valore pastorale e educativo; va pertanto incoraggiata e incentivata, soprattutto attraverso la collaborazione di laici competenti. Illuminato dal Vangelo, chi è in carcere, come ogni credente, può porre in atto un esercizio di rilettura della propria vita, sulla scia dell’esempio di Gesù e della sua parola.

L’ascolto della Parola tende alla celebrazione dei sacramenti e confluisce in es-sa. In questo è centrale il compito insostituibile del cappellano, aiutato dai volontari, che invitino i detenuti ai momenti di preghiera e ne predispongano lo svolgimento. La celebrazione del sacramento della penitenza, in particolare in preparazione al Natale e alla Pasqua, rappresenta un momento forte e un punto di riferimento. Lo scorrere dell’anno liturgico, infatti, contribuisce a caratterizzare il tempo, che nel carcere pare fluire senza tappe o momenti significativi. Al contrario, l’appuntamento della messa domenicale e l’alternarsi dei periodi liturgici e delle feste contribuiscono fortemente a qualificarlo e renderlo significativo, facendo percepire che il tempo non è tutto uguale, ma è formato da tappe che tendono a una pienezza. L’anno liturgico insegna che il trascorrere dei giorni e degli anni non è, come può sembrare in carcere, un flusso indefinito privo di senso, ma un itinerario verso un compimento. Esso smette così di essere qualificato solo quantitativamente e acquisisce una connotazione qualitativa, perché carico di senso e attraversato dalla presenza salvifica della grazia divina.

L’Eucaristia domenicale deve connotarsi anche in carcere come la fonte e il culmine della propria vita. Anche chi vive in carcere deve essere aiutato a fare di essa il fulcro della settimana, portandovi il proprio ringraziamento, le proprie richieste, la domanda di perdono e di intercessione. La Messa non può ridursi a mera celebrazione del rito, ma acquista un carattere formativo, consolatorio ed educativo, quanto più è svolta con la partecipazione di religiosi, di volontari o di gruppi giovanili che animano il canto. Se vissuta in modo intenso e come un vero momento di preghiera e incontro con Dio, il tempo della Messa domenicale diventa un importante riferimento per tutta la settimana.

Il terzo compito nel quale si esplica la pastorale carceraria è il munus regale, l’ambito più ampio della carità, da esercitare in innumerevoli forme e situazioni. Si tratta dell’accompagnamento quotidiano nei confronti dei carcerati, il porsi a loro fianco come pastori e come fratelli. Questo servizio è sintetizzato nel gesto di Gesù che, chinatosi sui discepoli, lava loro i piedi in segno di totale dedizione. È il gesto compiuto in modo estremamente significativo da papa Francesco all’inizio del suo pontificato, quando nella Messa in coena Domini del Giovedì santo scorso ha lavato i piedi ai ragazzi dell’Istituto penale per minori Casal del Marmo di Roma.

Risuona ancora nella nostra mente la vibrante esortazione del Papa ai pastori, la mattina di quello stesso giorno, ad avere l’odore delle pecore, cioè a condividere realmente la condizione delle persone affidate al loro ministero . Voi lo fate. Dovete però vegliare al fine di farlo sempre, restando pastori e non divenendo mercenari, trasformando la vostra missione in abitudine o riducendola a funzioni da svolgere. Il rimanere pastori comporta una fatica più grande, alla quale però è legato un frutto più abbondante.

Tutti gli aspetti finora visti, legati alla proclamazione del messaggio evangelico, alla celebrazione dei sacramenti e all’esercizio della carità, convergono nell’unica missione educativa, svolta dai cappellani, dai volontari e da quanti contribuiscono alla pastorale carceraria, ciascuno secondo il suo ruolo specifico. Essa mira a formare persone adulte e responsabili dal punto di vista umano e cristiano. La Chiesa ha sempre avvertito che queste due dimensioni dell’educazione sono inscindibili, anzi si richiamano a vicenda, così che non può esservi un’autentica vita cristiana se non a partire da una personalità matura e adulta; al tempo stesso non si dà una vita pienamente realizzata dal punto di vista umano se non grazie all’incontro con Cristo, in virtù del quale l’uomo comprende la verità della sua stessa persona, perché si riconosce amato, perdonato e orientato a beni più grandi di quelli terreni.

Educare alla vita buona nella libertà e nella giustizia

La pastorale carceraria nel suo insieme va compresa come una missione educativa. Essa deve trasmettere e fare crescere la vita buona del Vangelo, nella linea di quanto indicato dagli Orientamenti pastorali dei vescovi italiani per il decennio in corso.

All’importante tema dell’educazione, la Chiesa italiana dedica un tempo pro-lungato al fine di attuare un’analisi attenta e un profondo discernimento sull’impatto educativo della nostra pastorale. Da tale verifica non è esclusa la pastorale carceraria, avente anch’essa come fine la crescita umana e cristiana degli uomini e delle donne. La pena da scontare non è mai una violenza, ma mira al ripristino dei principi che il delitto ha offeso e a un’effettiva rieducazione. Nell’anno 2000, in occasione del giubileo dei carcerati, Giovanni Paolo II affermava che «il carcere non dev’essere un luogo di diseducazione, di ozio e forse di vizio, ma di redenzione» . La pastorale deve accompagnare il “trattamento rieducativo”, offrendo il suo apporto specifico e contribuendo a generare, nelle persone di cui si prende cura, la vita buona che nasce dal Vangelo.

Purtroppo, le condizioni di vita all’interno del carcere rendono spesso molto difficoltosa l’attuazione di percorsi realmente rieducativi. In questo senso, chi opera nei penitenziari è chiamato a vigilare sull’ambiente di vita dei detenuti e, quando necessario, a sollecitare le autorità competenti. Nell’ambiente chiuso del carcere, le relazioni sono spesso caratterizzate da conflittualità di vario tipo, tra i detenuti o con gli stessi agenti; una conflittualità legata talora alla razza, alla fede religiosa o semplicemente alle difficoltà di una convivenza forzata in spazi ristretti. Il ministero del cappellano e degli altri addetti deve avere una funzione per quanto possibile pacificatrice, essi dovranno mostrarsi come esempio di pazienza e capacità di prestare a tutti la stessa attenzione, senza fare preferenze e senza tenere conto dell’eventuale rifiuto ricevuto. Questo stile di accoglienza e disponibilità può incrinare una modalità di rapporto umano tra i detenuti caratterizzata da pesanti discriminazioni dovute a motivi etnici, culturali, economici, sessuali, politici e religiosi. La difficoltà che affligge chi dispone di minori mezzi economici genera il perverso meccanismo del ricatto, instaurando dinamiche viziose, che accentuano il degrado invece che contribuire a risolverlo, con la conseguenza che il detenuto se ne sente vittima ed è impedito nel suo cammino di recupero. L’educazione nel contesto del carcere deve diventare la via per apprendere nuovi principi e nuove modalità di comportamento. Purtroppo, l’alto tasso di recidività rivela l’incapacità di raggiungere efficacemente questo fine e sollecita tutti gli operatori pastorali a un impegno ancora più generoso. A questo è di grande giovamento la narrazione di percorsi di vita luminosi, quali quelli dei santi. Sovente, infatti, il racconto di esperienze virtuose genera immedesimazione e spinge all’imitazione in modo più efficace di quanto riesca a fare solo un indottrinamento teorico.

Il punto centrale del nostro ragionamento è questo principio: che l’educazione all’interno del carcere integri il periodo di detenzione e la necessità di scontare la pena all’interno del cammino umano complessivo della persona. L’obiettivo della pastorale carceraria, in altre parole, sta dentro l’esigenza dell’integrazione di queste due prospettive, operazione che si riassume nella capacità di inserire, in modo costruttivo e positivo, l’errore commesso e il tempo di punizione nell’intero percorso della vita, sullo sfondo di una avvertita coscienza credente o di una apertura a essa. Le due prospettive non si integrano facilmente; perché ciò avvenga è necessaria un’elaborazione della colpa e della pena che si sta scontando, oltre alla prosecuzione del cammino personale di vita nella direzione di una crescita personale. Tale obiettivo ha una dimensione antropologica generale che vale al di là della coscienza e della apertura alla fede e, in ogni caso, incontra nella fede l’orizzonte adeguato per essere compreso e perseguito in maniera piena.

La pastorale carceraria non può dirsi adeguata se non assume quella mediazione antropologica all’interno della proposta cristiana specifica, sia in ordine alla catechesi che in ordine alla preparazione e celebrazione dei sacramenti. L’accompagnamento nella crescita verso la pienezza della vita buona si realizza, anche nei confronti di chi è in carcere, secondo le due linee della crescita nella vita di fede e in quella umana. La funzione dell’assistente spirituale si svolge su entram-bi i fronti, sempre intrecciati tra loro. Infatti, se da un lato l’essere discepoli del Si-gnore non può prescindere da un’umanità matura, che faccia da sfondo e ne favorisca lo sviluppo, d’altra parte è nell’incontro con Cristo che la crescita umana trova la sua vera pienezza. Così affermava già il Concilio Vaticano II, di cui celebriamo l’anniversario e del quale vogliamo rivivere lo spirito:

La santa madre Chiesa, nell’adempimento del mandato ricevuto dal suo divin Fondatore, che è quello di annunciare il mistero della salvezza a tutti gli uomini e di edificare tutto in Cristo, ha il dovere di occuparsi dell’intera vita dell’uomo, anche di quella terrena, in quanto connessa con la vocazione soprannaturale; essa perciò ha un suo compito specifico in ordine al progresso e allo sviluppo dell’educazione .

Sviluppo antropologico e vita di fede non sono dunque contrapposti né indi-pendenti, ma profondamente legati e interconnessi, così che dall’uno dipende anche l’altro. Il vivere in carcere, per chi accoglie il Vangelo oppure lo riscopre e lo fa proprio con maggiore intensità, può venire radicalmente trasformato, perché supportato da una più alta idealità, dalla grazia divina, dalla consapevolezza di non essere solo e di avere una meta ultraterrena per la propria esistenza.

Il percorso educativo o rieducativo di cui si incarica la pastorale carceraria ha dunque come obiettivo, attraverso l’annuncio del Vangelo e la promozione umana, di generare la vita buona, nell’integrazione della pena all’interno del cammino completo di sviluppo umano del detenuto. Educare è fare emergere ciò che di buono c’è nella persona, in quanto è creata a immagine di Dio e reca in sé i segni della somiglianza con Lui. In ogni uomo, grazie alla somiglianza con il Creatore, il desiderio della felicità che anima ogni sua azione è al contempo un desiderio di compiere il bene. Educare è fare percepire che il desiderio di felicità non può realizzarsi in qualunque modo, ma va realizzato bene. In questo senso va superata una visione edonistica della vita, che in carcere può accentuarsi, a causa della scarsa disponibilità o della totale assenza di comodità o divertimenti.

Costruire una vita buona è comprendere che vi sono ricchezze che vanno oltre le comodità materiali e il benessere fisico; questi costituiscono spesso un ideale che attrae desideri e ispira azioni, senza sapere mantenere le proprie promesse di felici-tà. Anche per i detenuti questi ideali possono rappresentare degli idoli, tanto più attraenti quanto più sfuggono alle loro possibilità. In tal senso, notano gli Orientamenti dei vescovi italiani, «siamo nel mondo con la consapevolezza di essere portatori di una visione della persona che, esaltandone la verità, la bontà e la bellezza, è davvero alternativa al sentire comune» . La vera ricchezza da fare scoprire è una positiva progettualità, nell’amicizia con Dio e nella carità verso i fratelli. Anche in carcere il comandamento della carità va vissuto nella tensione verso la sua pienezza, e comporta certo difficoltà non piccole. L’accoglienza dell’altro, del diverso, è tema scottante in un luogo dove non ci si può scegliere le persone con cui vivere e dove si è forzati a condividere un tempo prolungato, anche se proprio esso può divenire il spazio e occasione per costruire itinerari di educazione e crescita spirituale. Infatti, è solo nella relazionalità e nell’incontro con il tu che l’io diventa realmente se stesso.

Le tappe del cammino rieducativo

La «verifica dell’azione educativa della Chiesa» auspicata dagli Orientamenti deve interessare tutti gli ambiti della pastorale, compresa quella carceraria. Anch’essa deve vivere quella docilità allo Spirito che le consenta di comprendere come meglio esplicitare la missione educativa, quali iniziative proporre e quale spirito trasmettere. Il cammino rieducativo prevede varie tappe, differenti a seconda dei diversi percorsi di vita, ma caratterizzate da alcuni tratti comuni. Imprescindibile, per realizzare l’integrazione tra il percorso detentivo e quello umano, è l’accettazione costruttiva della propria vicenda personale e della propria attuale condizione. È necessario, a questo scopo, che vi sia una presa di coscienza della propria situazione secondo criteri di obiettività razionale e di lettura credente della propria vita. In questo percorso il dialogo interpersonale è essenziale: un dialogo fatto di comprensione e di fermezza, di accoglienza dell’altro e di aiuto a superarsi.

Di fondamentale importanza è anche l’elaborazione del senso della giustizia e della virtù nella vita umana, in riferimento alla coscienza morale e alla responsabilità interpersonale e sociale. Il riconoscimento del reato commesso, cioè, deve diventare percezione del danno inflitto ad altre persone e a tutto il corpo sociale. Il senso di colpa e la coscienza del peccato, poi, devono generare un’assunzione di responsabilità, insieme al desiderio di riscattarsi. Se si compiono interiormente questi passaggi, la condizione del carcere può divenire una fase positiva e costruttiva, premessa di un futuro migliore per sé e per gli altri. Perché ciò avvenga, non ci si può limitare a incontri sporadici o a un’assistenza superficiale, ma si deve «promuovere un’autentica vita spirituale» .

L’educare ha bisogno di continuità, di coerenza, di determinazione, necessarie nel perseguire quello stile che permette di raggiungere il pentimento e poi la modificazione della personalità di chi si è reso responsabile di un reato. Ciò è indispensabile nella delicata ricostruzione della propria autostima, attraverso un’attenta rilettura del passato; esso non può essere semplicemente accantonato, ma va rivisitato, con verità e con misericordia, imparando a non nascondersi e – talvolta molto più difficile – a perdonarsi. Solo così si può divenire, con gradualità ed esercizio, più padroni dei propri atti e del proprio futuro. Chi non riesce a compiere questo itinerario interiore è spinto a non accettare la propria condizione o a vederla solo in modo negativo e a rifiutarla, fino alla tentazione, molto forte per tanti detenuti, di togliersi la vita. Si devono invece offrire percorsi di speranza, che consentano di amare la vita anche se non è come la si desidera; infatti, «anima dell’educazione, come dell’intera vita, può essere solo una speranza affidabile» .

Chi è in carcere deve essere aiutato anche a educare e allenare la propria volon-tà, senza abbandonarsi in maniera incontrollata a ogni piccola comodità o soddi-sfazione possibili, col pretesto che ciò rappresenta l’unico motivo di conforto. L’agere contra, la capacità di non cedere sempre alla propria volontà e di non concedersi tutto, deve essere acquisita nel tempo del carcere, contrapponendosi a un «modello della spontaneità, che porta ad assolutizzare emozioni e pulsioni, [per il quale] tutto ciò che “piace” e si può ottenere, diventa buono» .

Sempre più viva, nel nostro tempo, è poi l’esigenza della libertà; l’abbiamo scritto noi vescovi italiani negli Orientamenti: «un segno dei tempi è senza dubbio costituito dall’accresciuta sensibilità per la libertà in tutti gli ambiti dell’esistenza» . Per queste ragioni è ancora più difficile, oggi, vivere in stato di reclusione; può generarsi nel detenuto l’impressione, peraltro non del tutto falsa, che il mondo fuori nel periodo della propria “assenza” si trasformi, vada avanti e cambi radicalmente, senza poter prendere parte attiva a questa trasformazione. A tale desiderio di libertà, che può divenire estremamente doloroso e pungente, deve essere accordata una particolare attenzione nel percorso educativo, tenuto anche conto del fatto che esso «rappresenta un terreno d’incontro tra l’anelito dell’uomo e il messaggio cristiano» .

Per una pastorale integrale e integrata

La pastorale carceraria richiede un’attenzione alle diverse situazioni di debo-lezza e di bisogno vissuto dalle varie tipologie di detenuti. Un caso particolare è quello delle donne, specialmente se – come avviene nella maggioranza dei casi – sono madri. Queste situazioni presentano caratteristiche diverse e per vari aspetti problematiche, se la prole ha pochi anni di vita o se vive insieme alla madre, come si verifica in svariate decine di casi nel nostro paese. Tali situazioni meritano una particolare attenzione pastorale, oltre a richiedere una soluzione più adeguata sul piano legislativo, organizzativo e logistico.

Un peculiare contesto è anche quello delle carceri minorili che, per la delicata missione di accompagnare e rieducare dei ragazzi, dovrebbero essere dotate di strutture e progetti più adeguati. La pastorale carceraria dovrà profondere, in questo caso, energie ancora maggiori, per far sì che le giovani vite dei detenuti possano orientarsi secondo percorsi buoni e costruttivi. A loro in particolare papa Francesco ha ripetuto a più riprese: «Non lasciatevi rubare la speranza!» , lasciando intendere che il loro desiderio di migliorarsi può diventare un enorme potenziale di crescita e sviluppo personale, trasformandosi in un sano desiderio di riscatto.

Un altro elemento in gioco è la crescente presenza nelle carceri di persone pro-venienti da paesi stranieri (ormai più del 35% del totale dei detenuti), la cui situa-zione è particolarmente dura a causa della lontananza dalla famiglia e dalla patria, oltre che dalle esigue risorse economiche. Contestualmente, vi è una maggiore pre-senza di non cristiani, e soprattutto di musulmani, ai quali si deve assicurare un’assistenza non inferiore a quella riservata ai battezzati, senza scoraggiarsi davanti al rifiuto, ma cercando comunque di testimoniare disinteressatamente la buona notizia del Vangelo.

Il cappellano gode in genere di una maggiore possibilità di accesso ai luoghi dove vivono i detenuti, rispetto gli altri operatori. Per questo, oltre che per il ruolo affidatogli dal vescovo, egli è chiamato a prendersi a cuore non solo i singoli dete-nuti, ma tutta la pastorale carceraria nel suo insieme. Egli rappresenta il raccordo tra la pastorale carceraria e il cammino della Chiesa e della diocesi, al quale sempre deve fare riferimento. La prospettiva in cui operare deve essere nella logica di una pastorale d’insieme, nella quale incrociare altri ambiti pastorali e rendendo così più fecondo il campo specifico di azione. Si pensi all’importanza di dialogare con la pastorale ordinaria delle parrocchie, luogo nel quale vivono le famiglie dei detenuti e nel quale questi dovrebbero reinserirsi una volta usciti dal carcere; o anche alla pastorale delle migrazioni, dal momento che molti detenuti provengono da Paesi stranieri e commettono reati perché non riescono a integrarsi nel tessuto sociale; o ancora alla pastorale giovanile e scolastica, soprattutto in riferimento ai detenuti nelle carceri minorili, nei confronti dei quali il compito educativo è di assoluta evidenza.

È importante, dunque, stabilire un nesso più forte e stabile tra la pastorale ordinaria e quella carceraria, così che le parrocchie, le comunità religiose e i movimenti ecclesiali si ricordino delle persone che sono detenute e non dimentichino di visitarle. I sacerdoti facciano visita ai loro parrocchiani carcerati, tenendo conto che anch’essi sono loro pecore. Sollecitati dai cappellani, colgano l’occasione dei permessi dati ai detenuti di trascorrere alcune ore all’esterno del carcere, per farli partecipare ad alcuni momenti della vita della comunità. Così facendo, i detenuti si prepareranno al successivo processo di riabilitazione e reinserimento.

Tale sensibilizzazione, a opera dei cappellani, ha anche l’obiettivo di coinvol-gere nuovi volontari che si prendano attivamente a cuore la condizione dei detenu-ti, dedicando loro una parte del loro tempo e delle loro energie. Una volta reclutati, i volontari devono essere preparati e seguiti. Anche tale compito, seppure non vada svolto necessariamente dal cappellano in prima persona, lo vede responsabile ultimo. Egli deve riferire al vescovo la situazione della pastorale carceraria e dei detenuti, invitandolo a partecipare ad alcuni momenti significativi, prima fra tutti la celebrazione eucaristica, soprattutto nei tempi forti dell’anno liturgico. Compito della pastorale carceraria, infine, è di richiamare, secondo le vie possibili e nei modi più consoni, la necessità da parte dei pubblici poteri di far sì che il carcere diventi un luogo realmente educativo e si realizzi «un sistema di ordine pubblico e di carcerazione efficiente nel rispetto dei diritti umani» .

Generare alla speranza e proporre percorsi di santità

Nel difficile tempo che trascorrono in carcere, talvolta breve e talaltra lungo o addirittura definitivo, ai detenuti deve essere data l’opportunità di vivere nell’operosità e di non sentirsi inutili, bensì di impiegare il tempo e le proprie ener-gie per apprendere nozioni o abilità manuali, per acquisire doti umane e spirituali più mature. Solo così la pena avrà il carattere medicinale che la giustifica e la inse-risce nel processo rieducativo. Il lavoro, all’interno o all’esterno del carcere, è un diritto anche per chi è in stato di detenzione; anzi per lui ancora di più, perché senza di esso gli è difficile nobilitarsi e impossibile rialzarsi. Se fuori il tempo non basta, dentro è sempre troppo. Per questa ragione, chi si trova nella detenzione deve essere aiutato a non vivere «come se il tempo del carcere gli fosse irrimediabilmente sottratto: anche il tempo trascorso in carcere è tempo di Dio e come tale va vissuto; è tempo che va offerto a Dio come occasione di verità, di umiltà, di espiazione e anche di fede» . Anche quello del carcere è un tempo da sfruttare e che non ritornerà.

Pur vivendo in carcere, è importante tenersi aperti ai problemi del mondo, nella prospettiva di contribuire, pur se “da lontano” o forse solo in modo indiretto, alla loro soluzione. Chi vive in stato di detenzione, in virtù della consapevolezza di avere nuociuto alla società e al suo sviluppo, sia aiutato ad aspirare a dare il proprio benefico apporto, in riparazione di quanto ha fatto mancare e come conferma del proprio interiore risanamento. Curare la conoscenza e l’interesse per le più urgenti questioni sociali è, in questo senso, un’importante scuola di crescita umana e una via necessaria a un’educazione integrale e a un positivo futuro reinserimento.

L’uscita dal carcere è un altro momento di grande difficoltà e incertezza, a causa di svariati fattori. Chi “esce” affronta la diffidenza di chi può offrire un lavoro, dei conoscenti e a volte anche degli stessi parenti o familiari. Spesso, dopo lunghe degenze, non si è più abituati ai ritmi della vita della società, alla sua velocità e alle sue logiche, e si fatica a reinserirsi e a evitare di ritornare sugli errori commessi

in passato. Per questo la pastorale carceraria si estende anche al tempo seguen-te: senza abbandonare a se stesso chi lascia il penitenziario, chi vi è impegnato deve seguirlo e facilitarne la ripresa nella vita normale.

Vi aiuti in quest’opera l’esempio di san Giovanni da Capestrano, vostro patrono. Vi insegni a dedicarvi sempre volentieri all’assistenza dei nostri fratelli carcerati, offrendo loro, attraverso la vostra amicizia in Cristo, una visione di speranza. Solo se si guarda l’altro con speranza lo si aiuta a risollevarsi; solo con uno sguardo di speranza chi vive in carcere può superare gli “orizzonti ristretti” del suo stato attuale, aprendosi alla possibilità di una vita buona.

 

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