In cinque non fanno la popolazione dell’Italia, contano per un decimo di quella dell’Unione europea e un sesto del suo reddito. Eppure sono l’ostacolo più grande nella più grande delle tragedie. Olanda, Austria, Danimarca, Finlandia e Svezia, in ordine di sprezzante intransigenza, sono emerse in queste settimane a Bruxelles come le grandi riduttrici: schierate a colpi di veti per rendere il più piccolo e inutile possibile ciò che va sotto il nome di Recovery Initiative, in realtà un arcipelago di programmi che dovrebbero formare la risposta europea alla più profonda e imprevedibile recessione in tempo di pace.
Non solo questi cinque Paesi riescono a contenere e sfilacciare i contorni di questo pacchetto per l’Unione europea che, ormai è chiaro, sarà un bel po’ sotto i mille miliardi. Tornano anche a scucire quanto già tessuto. In questi giorni sono intenti a ridurre il celebrato programma di garanzie per 200 miliardi della Banca europea degli investimenti in un piano che in realtà ne vale appena cinque, in un’economia da 13 mila miliardi: esigono che le garanzie effettive della Bei (di fatto per 25 miliardi su 200 di investimenti) non possano essere intaccati che in minima parte.
Si può pensare che sia incredibilmente miope picconare la coesione e tenuta dell’Unione europea per cinque piccoli Paesi che, in media, devono all’export il 57% del loro reddito. Specie in un mondo che ha già visto crollare gli scambi con Cina e Stati Uniti. Ciascuno sega il ramo su cui è seduto a proprio modo. Ma i risultati si vedono, uno dopo l’altro, nella Recovery Initiative che la presidente della Commissione Ursula von der Leyen svelerà il 27 maggio – tre settimane in ritardo – per proporla ai leader nazionali. Questi poi per accordarsi avranno bisogno di almeno due vertici, di cui il primo il 18 giugno.