Dopo aver visto due tra i più noti siti archeologici del Molise, proseguiamo il nostro viaggio nella regione, alternandoci tra le province di Isernia e Campobasso, per scoprire altre straordinarie testimonianze del suo passato. L’orgoglio sannita, in queste terre, è ancora molto vivo come è ancora molto sentito il ricordo della sconfitta romana delle Forche Caudine che, seppur per certi versi un po’ divisivo (l’Autore, romano, ne sa qualcosa), rappresenta ad ogni modo il senso di identità di un popolo in fondo indomabile e fiero di discendere da una raffinata civiltà e da guerrieri che hanno comunque insegnato moltissimo ai Romani: basti pensare le formazioni legionarie che tutti noi abbiamo imparato a conoscere e che sono entrate nel nostro immaginario collettivo discendono direttamente dai Sanniti: l’esercito romano, prima di incrociarli, era ancora organizzato alla maniera ellenistica, a falange, una formazione poco efficace contro manipoli e coorti. Ma di questo ne parleremo in un prossimo articolo, dedicato proprio alle Guerre Sannitiche. Oggi, invece, andremo a conoscere siti perlopiù sconosciuti al grande pubblico, in questa seconda ed ultima parte per La Stele di Rosetta, in esclusiva per IQ, sempre con la preziosa consulenza storico-archeologica della Professoressa Angela Bernardo, grazie alla quale la versione ultima e più accurata di questo articolo ha potuto vedere la luce.
TABELLA DEI CONTENUTI
IL SANTUARIO SANNITICO (TEMPIO ITALICO) DI SAN GIOVANNI IN GALDO
IL SITO ARCHEOLOGICO DI MONTE VAIRANO A BARANELLO E BUSSO
AREA ARCHEOLOGICA DI ROCCAVIVARA – LOCALITA’ SANTA MARIA DEL CANNETO
IL TEMPIO ITALICO DI VASTOGIRARDI
IL SANTUARIO DI ERCOLE A CAMPOCHIARO
LARINO
Cominciamo con Larino, in provincia di Campobasso, dove trova un tesoro nascosto: un anfiteatro romano ben conservato che offre una testimonianza straordinaria dell’antica vita nella regione. La cittadina vide la sua fondazione per mano degli Etruschi intorno al XII secolo a.C. e, data la sua posizione strategica, sopraelevata sulle colline e non distante dal mare e dunque vantaggiosa per i commerci, fu poi abitata dai popoli osco umbri e di ceppo sannitico.
Tra le molte popolazioni italiche a Larino si riconoscono in particolare i Frentani, che ebbero in questa città uno dei loro centri principali. In un primo momento questa popolazione fu strettamente legata ai Sanniti, a causa della vicina origine, ed ebbe un rapporto conflittuale con Roma, in particolare nel periodo delle guerre sannitiche tra il IV e il III secolo a.C. Dopo l’umiliante sconfitta nella battaglia delle Forche Caudine subita nel 321 a.C. i Romani tentarono una serie di alleanze con diverse popolazioni sannite (Livio,X,3,1), seguendo una precisa strategia, quella di disarticolare la solida coscienza nazionale di quel popolo, garantendosi la fedeltà di alcune tribù. Nel 304 a.C. i Frentani, già debellati nel 319 a.C. dai Romani, chiesero e ottennero, insieme ad altre tribù, la pace con Roma, stringendo con essa un foedus, un patto di alleanza (Livio, IX, 45, 18) ed ottenendo in cambio maggiori spazi di autonomia. È probabile che proprio per effetto del trattato la comunità frentana di Larinum abbia ottenuto quello status di autonomia di civitas foederata. Secondo gli storici proprio il conseguimento di questa particolare condizione già all’inizio del III secolo a.C. avrebbe favorito lo sviluppo economico e la precoce urbanizzazione e latinizzazione di Larinum, con il definitivo passaggio dalla primitiva forma di insediamenti rurali sparsi a una forma propriamente urbana.
In questo periodo Larino fu particolarmente splendente, ricca di eventi culturali, spettacoli, giochi pubblici ed ebbe un legame molto stretto, non solo dal punto di vista commerciale, con Roma, divenendo un luogo frequentato da esponenti dell’aristocrazia e della classe dirigente della capitale. Contemporaneamente però risentì anche dei disordini delle guerre civili, e della precarietà politica che caratterizzò il I secolo a.C.
La città mantenne il proprio rilievo nei primi secoli dell’impero, ma cominciò il suo declino nel III secolo, a causa della crisi economica, e in seguito nel 346 d.C. fu fortemente danneggiata da un terremoto e progressivamente perse la sua importanza ed autonomia, devastata dai sempre più frequenti saccheggi da parte delle popolazioni barbariche.
L’Anfiteatro romano
Tra gli edifici antichi della Larinum romana conservati e arrivati fino a noi, il più monumentale è, senza dubbio, l’anfiteatro romano. Esso risale alla fine del I – inizi del II d.C., costruito per volere di Capito, un illustre personaggio larinate che aveva fatto carriera politica a Roma. Lo sappiamo grazie all’epigrafe rinvenuta presso porta ovest (dove oggi è possibile ammirarla rimontata), iscrizione, che molto probabilmente, doveva essere riportata su tutte e quattro le porte.
L’anfiteatro, di forma ellittica, è stato per metà scavato nel banco naturale di arenaria, e per la restante parte costruito in elevato, con il materiale di cava. Le due porte principali, dette convenzionalmente porta nord e porta sud, erano riservate, la prima, all’ingresso o all’uscita trionfante dei gladiatori, mentre la seconda all’uscita degli sconfitti. Ai lati di entrambe, quattro vani di servizio, gli spoliaria.
Della struttura originaria, oggi completamente restaurata, si conservano, oltre alle porte, anche parte di ima e di media cavea. Il pubblico poteva accedere ai posti a sedere attraverso 12 vomitoria verticali e corridoi esterni, detti ambulacra, e assistere allo spettacolo riparati dal sole o dalla pioggia grazie al velarium, un sistema di copertura mobile costituito da tende azionate da corde.
La struttura è realizzata in opus mixtum, in cui si alterna l’opus quasi reticolata, con cubilia realizzati in pietra tufacea locale, e l’opus in laterizio, in mattoncini. In base alla sua grandezza, è stato possibile stimare che potesse contenere circa dieci mila spettatori, rientrando così nella categoria degli anfiteatri di medie dimensioni.
Le Terme
Nelle immediate vicinanze dell’anfiteatro, è possibile ammirare i resti delle sontuose terme, ricche di mosaici policromi, con rappresentazioni di animali fantastici e marini, e di figure geometriche; attualmente è possibile visitare due vasche destinate ai bagni in acqua calda, tiepida e fredda (calidarium, tepidarium, frigidarium), il vano in cui si produceva con il fuoco il riscaldamento dell’acqua (praefurnium), un vano con le suspensurae (cioè con le colonnine che reggevano il pavimento rialzato in cui passava l’aria calda), un grande pilastro pertinente ai portici, un accurato sistema di scarico delle acque, costituito da una poderosa fognatura, coperta da tegole disposte a cappuccina. La particolarità di questo ritrovamento archeologico è che esso conserva ancora l’impianto dell’ipocausto, cioè degli ambienti sotterranei in cui erano ubicati i forni ed altri locali di servizio. Si è provveduto ad assicurare una dovuta protezione a quanto è stato portato alla luce, mediante l’installazione di un’opportuna struttura di copertura; inoltre, una passerella metallica consente di visionare il mosaico dall’alto senza calpestarlo.
Il Foro
Questa parte della città antica conobbe due successive fasi edilizie: dopo la sua costruzione, avvenuta tra la seconda metà del II secolo a.C. e la prima metà del I secolo a.C., fu pesantemente ristrutturata nel IV secolo d.C., quando il governatore della Provincia Samnii, appena istituita, dovette avviare i restauri, dopo il disastroso terremoto che colpì la zona nell’anno 346 d.C. La vita della città continuò anche successivamente, ma in modo stentato: lentamente gli edifici, ormai abbandonati, cominciarono a essere oggetto di sistematiche spoliazioni, per un riuso dei materiali. Qua e là, probabilmente, spuntarono modeste casupole, costruite con materiali di spoglio.
L’area del foro conserva poco del suo antico splendore, infatti, rimangono poche tracce degli edifici pubblici, ma possiamo trovare una domus il cui atrio conserva delle decorazioni pavimentali policrome. Intorno ad esso si distribuivano gli altri ambienti, di cui possiamo riconoscere il perimetro. In questa domus, nel giardino interno vi era una vasca dell’impluvium particolare, decorata con un mosaico a soggetto marino, raffigurante un polipo e quattro cernie, conservato sul luogo, a differenza degli altri mosaici ritrovati nel sito di Larino e provenienti da altre domus collocate nell’area intorno al foro o all’anfiteatro che hanno uno stato di conservazione più precario. Si ha, infatti, l’impressione di un luogo depredato di quanto era possibile portare via e abbandonato perché inutile.
La Domus
La domus ubicata vicino al Foro, per dimensioni, ricchezza decorativa, impegno economico profuso nella sua realizzazione, certamente apparteneva a una delle famiglie dell’aristocrazia agraria larinese, la cui ascesa, iniziata nel III secolo a.C. proseguirà senza interruzione. Difatti, agli inizi del I secolo a.C. la domus subì dei rifacimenti nell’area dell’impluvio e modificazioni dello stato precedente. Poi, dopo circa un secolo, la sua vita fu interrotta bruscamente per sopravvenute esigenze pubbliche: infatti, la zona fu destinata a ospitare edifici monumentali, che delimitavano il lato orientale del Foro, posizionati su una grande struttura a pianta quadrangolare, realizzata in opera reticolata e laterizi. Il lato che dava sul Foro si apriva sui portici mediante tre vani, quello opposto si articolava in una serie di esedre con abside centrale, che a loro volta si aprivano su uno spazio interno porticato.
IL SANTUARIO SANNITICO (TEMPIO ITALICO) DI SAN GIOVANNI IN GALDO
Rimanendo nella provincia di Campobasso, nascosto tra le colline del Molise, il Tempio Italico di San Giovanni in Galdo è un gioiello archeologico che racconta l’antica storia della regione. Costruito durante la dominazione dei Sanniti nel III secolo a.C., questo tempio offre uno sguardo affascinante sulla vita e le tradizioni di un tempo passato. Con le sue strutture ben conservate e i reperti ritrovati sul sito, è un luogo imperdibile per gli amanti dell’antichità.
Sorto intorno al III secolo a.C. durante la dominazione dei Sanniti in un’area chiamata oggi Colle Rimontato, il tempio divenne centro di importanza dell’abitato dopo la guerra sociale nel I secolo a.C.. L’area fu abitata fino al III secolo d.C. quando tutto fu abbandonato, e il nuovo centro medievale di San Giovanni ricostruito più a valle.
Il tempio è stato scoperto negli anni ’90.
Si tratta di tempio prostilo con pronao e una sola fila di colonne, che attorniano la cella sacra. Il pavimento è rosso con tessere bianche avorio. Il podio rialzato presenta due entrate, e decorazioni a dentelli, con colonne circolari e scanalate attorno. Probabilmente al tempio si accedeva con una scalinata di legno.
La pianta è quadrangolare, così come anche il recinto sacro.
Quel che resta dell’antico sito è l’alto podio, dal pavimento rosso con tessere bianche avorio, le sue cornici e resti di colonne che dovevano trovarsi all’inizio del tempio. Nella parte posteriore era presente una zona chiusa, nel cui sottosuolo sono state ritrovate monete di diverse epoche, la prova che in quel punto doveva trovarsi una statua da venerare.
Gli oggetti sacri che venivano utilizzati durante le cerimonie sono stati ritrovati in grande quantità nella parte più̀ periferica del tempio, ma anche nei loggiati e nella parte posteriore delle mura, in modo che fosse protetto e non esposto ad eventuali sacrilegi; si tratta soprattutto di ceramica a vernice nera, di monete e di lucerne; queste ultime aiutano a definire la frequentazione del sito almeno fino al II secolo d.C. Oltre al materiale cerimoniale sono state riportate alla luce delle parti di muro del podio e delle pavimentazioni.
Al di sotto del pavimento è stato trovato un gruppo di monete che, essendo state deposte all’atto della costruzione del pavimento, definiscono la cronologia dell’edificio: le monete più antiche risalgono alla prima metà del III secolo a.C., la moneta più recente è un denario d’argento dell’anno 104 a.C. termine che definisce la costruzione del tempio.
Gli archeologi stanno ancora lavorando al sito del Tempio Italico di San Giovanni in Galdo, e la squadra vede le forze condivise dell’Università̀ di Leiden, de La Sapienza di Roma e altre realtà̀. Ad oggi sono stati ritrovati numerosi blocchi lavorati in calcare grigio, sono stati rimessi in luce i setti murari interni al podio del tempio e resti dei vari livelli di preparazione pavimentale all’interno del santuario. Infine, è stato possibile rintracciare parte del muro di contenimento lungo il perimetro esterno del santuario.
IL SITO ARCHEOLOGICO DI MONTE VAIRANO A BARANELLO E BUSSO
Sempre in provincia di Campobasso, situato su un’ampia area tra i comuni di Baranello e Busso, il sito archeologico di Monte Vairano offre una visione unica della vita quotidiana nell’antica città sannita. Con le sue mura imponenti e le rovine delle abitazioni, questo sito permette ai visitatori di immergersi nell’atmosfera di un tempo lontano. Scoperte recenti hanno rivelato dettagli sorprendenti sulla società e l’economia dei Sanniti, rendendo questo sito una tappa fondamentale per comprendere la storia del Molise. La città sannita di Monte Vairano costituisce un unicum che permette di indagare sul modo di vivere dei sanniti e sulle loro modalità di insediamento. Gli scavi hanno permesso di identificare una struttura urbana pianificata. Le mura, in opera poligonale, si estendono per tre chilometri e insieme alle tre porte di accesso alla città possono essere datate nel IV sec. a.C.
Le caratteristiche
Questo abitato era dotato di un impianto viario ortogonale, nel quale le vie (ne sono state rinvenute quattro con rispettivi marciapiedi ai lati) si intersecavano ad angolo retto. Gli edifici pubblici e privati sorgevano su ampie aree pianeggianti artificiali (terrazzamenti), delimitati da muri lungo il perimetro. Sono state rinvenute abitazioni private, edifici pubblici come un horreum (magazzino per la conservazione di derrate alimentari) e più cisterne (per la conservazione dell’acqua, elemento che evidenzia un elaborato sistema di approvvigionamento idrico in una città sprovvista di risorse idriche al suo interno) ed anche luoghi di lavoro come una fornace e dei mulini.
Tutto fa pensare ad un abitato variegato e ben strutturato. Uno degli aspetti senz’altro più interessanti è legato all’economia della città. I reperti rinvenuti, infatti, testimoniano la presenza di diverse e diversificate attività lavorative: agricoltori, barbieri, venditori d’unguenti e profumi, fornai, medici, architetti, pittori, muratori e pavimentisti, pescatori, macellai, vasai, scribi, fabbri e vinai.
Ancora più sorprendente è il quadro delineato dai ritrovamenti monetali e ceramici: sono state rinvenute monete ed anfore provenienti da tutto il mondo italico e mediterraneo, dalla Turchia a Marsiglia, le isole Baleari e Cartagine. Ciò induce ad inserire a buon diritto anche il Sannio nelle grandi rotte commerciali dell’antichità.
La distruzione
Le ultime ricerche confermano la fine brusca della vita di questa comunità a seguito di un evento traumatico che si può individuare negli eventi bellici legati alla Guerra Sociale del 91-88 a.C. ed in particolare nell’intervento dei Romani guidati da Lucio Cornelio Silla nell’89 a.C. nella piana di Bojano. La distruzione è testimoniata dalle numerose tracce d’incendio sui materiali rinvenuti e soprattutto dalla copertura dei tessuti stradali e il riempimento delle cisterne (in una di queste verrà scoperto il corredo intero di un’abitazione) con le macerie degli edifici distrutti.
È più che lampante che all’esercito nemico non interessava solo la distruzione di questa città ma soprattutto l’impossibilità per i superstiti di tornarci a vivere grazie alla manomissione definitiva di strutture fondamentali come l’impianto viario e quelle legate all’approvvigionamento idrico.
A differenza di altri insediamenti sanniti che furono romanizzati, quello di Monte Vairano (di cui ignoriamo financo il nome sannita) rimarrà abbandonato e sigillato nei primi decenni dell’ultimo secolo prima di Cristo. Ed è proprio questo l’aspetto più interessante: oggi questo sito archeologico può davvero fornire informazioni inedite sulla vita quotidiana dei sanniti, sulla loro organizzazione urbana e sul loro rapporto con il resto del mondo antico, informazioni incredibilmente quasi ignote fino a pochissimo tempo fa.
L’insediamento di Monte Vairano, con i suoi edifici, le sue strade ed i suoi santuari, ci racconta di una società organizzata e strutturata all’insegna di una dimensione mediterranea della vita sociale ed economica, smentendo categoricamente la schiera di coloro che, in chiave romanocentrica, hanno cercato di dipingere i Sanniti come un popolo rude e bellicoso.
AREA ARCHEOLOGICA DI ROCCAVIVARA – LOCALITA’ SANTA MARIA DEL CANNETO
Il sito è posto sulla sponda destra del fiume Trigno, a valle rispetto all’abitato di Roccavivara, nei pressi del tratturo Celano – Foggia.
Alle spalle del Santuario Medievale, è stata rinvenuta e scavata da parte della Soprintendenza Archeologia alle Belle Arti e Paesaggio del Molise una villa rustica di età romana. La sua fondazione risale al I secolo a.C., momento in cui il Sannio entra a far parte dell’Impero Romano e, con tutta probabilità, faceva parte della giurisdizione del municipio di Terventum, l’attuale Trivento.
La villa era composta da tre parti. La parte padronale (pars urbana) che comprendeva l’abitazione del padrone, la parte rustica (pars rustica) che comprendeva le stanze dei pastori, degli schiavi, le stalle per gli animali e la pars fructuaria per conservare i prodotti delle attività agricole. La parte padronale e la parte rustica erano divise tra loro dalla cella, o cantina, dove attualmente si trovano i resti di botti in terracotta. Nella villa si svolgevano attività agricole per la produzione di olio e vino fin dal I secolo d.C. La parte padronale e la parte rustica erano divise tra loro dalla cella, o cantina, dove attualmente si trovano i resti di botti in terracotta.
Il pavimento della pars urbana, originariamente di cocciopesto, era ricoperto da mosaici di tessere policrome raffiguranti animali e piante, fu realizzato un ambiente termale e ristrutturata la pars rustica. Queste opere risalgono al III secolo a.C. Oltre alla produzione di olio e vino, documentata dalle botti in terracotta, dal torchio e dalla vasca per la raccolta della spremitura dei liquidi, sono stati rinvenuti una fornace per la ceramica e un forno per il pane di difficile datazione, entrambi ubicati nella pars rustica. La fine del periodo di vita nella pars urbana è attribuita ad un incendio che distrusse questa parte della villa, mentre la pars rustica continuò ad essere utilizzata e modificata. Dopo il III secolo la villa cominciò a vivere il declino fino al definitivo abbandono.
IL TEMPIO ITALICO DI VASTOGIRARDI
Torniamo in provincia di Isernia. A poche centinaia di metri dal centro storico di Vastogirardi, troviamo un tempio italico risalente alla seconda metà del II secolo a.C. è stato riscoperto negli anni grazie agli scavi archeologici. Costruito su di un podio, il tempio conserva frammenti di colonne e architravi, testimoniando l’importanza del culto italico in questa regione.
Al podio sono stati tolti tutti i blocchi in pietra che lo pavimentavano per costruire la torre di guardia del Castello di Vastogirardi, che ha anche la funzione di torre campanaria della parrocchiale di San Nicola. I saggi sul terreno antistante il tempio hanno rilevato un’attività che si protrasse non oltre la prima epoca imperiale, quando oltre al precedente spopolamento dovuto alle distruzioni di Silla, incombevano le distruzioni delle guerre gotiche.
Le dimensioni del tempio sono identiche a quelle del “Tempio A” di Pietrabbondante, seguendo quel rapporto lunghezza/larghezza dell’edificio che corrisponde al numero magico di 1,6 che ricorre in tante altre costruzioni, di tutte le epoche, ampiamente riportate dalla letteratura.
L’ara del tempio, di forma quadrata, recante una cornice laterale, dove su tutti e quattro i lati figurano alternativamente una ruota e la testa di un toro, troppo preziosa per lasciarla allo scoperto e alle tentazioni di tombaroli, viene ora custodita sottochiave in ambienti museali presso l’area sacra di Pietrabbondante.
La presenza del tempio, unitamente alla presenza dell’acqua abbondante, che in determinati periodi può creare aree paludose, può far pensare che il tempio, anziché dedicato ad Ercole o a Diana, come ipotizzato in un primo momento, potrebbe essere invece legato al culto della dea Mephiti, di origine osca, legata alle acque, invocata per la fertilità dei campi e per la fecondità femminile.
IL TEATRO ROMANO DI VENAFRO
L’area archeologica del teatro romano di Venafro (in provincia di Isernia), seppur in stato di abbandono, conserva tracce suggestive della grandezza dell’antica città romana. Risalente al I secolo a.C., il teatro testimonia l’importanza di Venafro come centro culturale e sociale in epoca romana, nonostante le difficoltà incontrate durante le guerre e i saccheggi.
Il teatro di Venafro nasce, a differenza di altri teatri dell’epoca, utilizzando la pendenza naturale del terreno, in un’area particolarmente protetta dai venti, sulle pendici del monte S. Croce, in posizione dominante sulla città. Il primo impianto dell’edificio non è certamente posteriore alla prima età augustea: esso venne costruito con una gradinata addossata al pendio della montagna e comprendeva l’ima e la media cavea, le parti inferiori della gradinata, separate da un passaggio semicircolare (praecinctio); la scena, non ancora completamente riportata in luce, doveva essere rettilinea mentre, come coronamento. l’edificio doveva avere un portico. La struttura è in opera reticolata con testate dei muri e ghiere degli archi in blocchetti di calcare, secondo una tradizione tardo-repubblicana; la decorazione architettonica, in parte recuperata grazie al ritrovamento dalle vicine terme di S. Aniello, era in marmo bianco; le pareti, affrescate o rivestite di marmi policromi. Lo scavo ha restituito anche diversi frammenti di sculture, tra cui due statue con testa ritratto, sulla cui collocazione non c’è, però, attualmente, la possibilità di avanzare ipotesi.
Dagli elementi visibili si riconosce l’applicazione dei metodi canonici indicati anche da Vitruvio per la realizzazione dei teatri:
La gran parte dei sedili è stata utilizzata in altre costruzioni di importanti edifici per tutta l’epoca medioevale e la presenza di molti blocchi lapidei subito fuori del semicerchio della cavea lascia intendere che il prelievo sia stato interrotto per un motivo che si sconosce quando ancora molte pietre erano ancora nel luogo.
La presenza di una grande cisterna collegata ad un ambiente situato al livello dell’orchestra da un varco e munita di scanalature per reggere una paratia in legno, fa immaginare che il teatro potesse essere utilizzato anche per spettacoli acquatici.
Il gravissimo terremoto che devastò Campania e Sannio nel 346 d.C. dovette essere una causa determinante dell’abbandono del teatro: fu probabilmente in seguito a questo evento che venne smantellata una parte della decorazione architettonica e scultorea, certo con l’intenzione di procedere al più presto a un restauro. Questo, però, non fu più possibile per il consolidarsi della crisi del mondo antico: il teatro perse rapidamente la sua funzione già intorno al V secolo e alcune parti del monumento vennero riadattate per essere utilizzate come ricoveri e abitazioni private.
IL SANTUARIO DI ERCOLE A CAMPOCHIARO
Alle pendici del Matese, il santuario di Ercole a Campochiaro, in provincia di Campobasso, rappresenta un luogo sacro legato al culto italico dei Sanniti. Distrutto da un terremoto nel III secolo a.C., il santuario fu ricostruito con un tempio ionico nel II secolo a.C., mantenendo la sua importanza fino ai primi secoli dell’Impero Romano.
Se oggi il Santuario sembra essere nascosto sul fianco boscoso della montagna, in antico era un luogo particolarmente noto e frequentato dalle comunità italiche della zona. È uno dei pochi edifici antichi del Molise, infatti, segnalato dalla Tavola Peutingeriana con il toponimo Hercul(is) Rani, che ha portato all’attribuzione sicura della divinità titolare.
La documentazione archeologica dimostra che il santuario perdette ogni importanza e cadde in abbandono dopo la guerra sociale, per tutto il primo secolo d.C. Ciò è da mettere in connessione non tanto con le vicende della guerra sociale e con i danni che ne potettero derivare, quanto con la cessazione ufficiale del culto, fino a quel momento sostenuto dallo stato sannitico. Il riordinamento amministrativo del territorio, dopo la sua annessione allo stato romano, condusse al declassamento di tutti quegli insediamenti, compresi i santuari, ai quali non venne attribuita la costituzione municipale. Il culto che si praticava nel santuario, in quanto fonte di ricchezza (decime, donazioni) e oggetto di investimenti pubblici e privati per il potenziamento edilizio, dovette essere soppresso e trasferito nel municipio più vicino, a Bovianum.
Caratteristiche
Il santuario occupa un’area di forma quasi triangolare, ampia circa mt. 150×125, sostenuta da un muraglione in opera poligonale che, sul lato occidentale, prosegue a monte per alcune centinaia di metri in modo da impedire ogni accesso dall’alto. Il muro che delimita il lato orientale dell’area sacra, dove si doveva trovare l’ingresso principale, è formato con grossi blocchi poligonali lavorati con tecnica raffinata e con intento di decoro monumentale. Del tempio resta solamente la parte inferiore del basamento, che misura mt. 15,30 di larghezza e mt. 21,30 di lunghezza, a cui è da aggiungere un’ampia gradinata frontale di cui sono riconoscibili le fondazioni. Dinanzi alla gradinata sono i resti di una piattaforma, destinata a sostenere un’ara.
La particolarità di questo santuario è che è il solo ad essere munito di una cinta fortificata, come se fosse un insediamento.
Agli inizi del III secolo a.C. il complesso viene distrutto da un violento terremoto e si procede quindi alla ricostruzione realizzando porticati lignei e realizzando interventi migliorativi della statica degli edifici.
Una nuova sistemazione si ha nella seconda metà del II secolo a.C. con la costruzione di un tempio, con colonne ioniche, al centro della terrazza superiore. Il complesso è frequentato fino ai primi secoli dell’impero, poi il culto sembra estinguersi definitivamente.
CONCLUSIONI
Si conclude questo viaggio attraverso i siti archeologici molisani. Come abbiamo potuto vedere, la maggior parte di essi (tranne alcune eccezioni) è praticamente sconosciuta perché poco valorizzata dalle amministrazioni locali. Se per mancanza di fondi o per mancanza di una adeguata educazione storica, non è dato sapere. Tuttavia, una maggior consapevolezza del proprio passato sarebbe auspicabile da parte dei politici, i quali sembrano ridestarsi a nuove sensibilità solo in vista di imminenti elezioni, per poi ripiombare nell’amnesia quando queste si sono concluse. Se proprio il concetto di sensibilità è ostico, si faccia almeno un discorso di carattere pratico: valorizzare i siti archeologici, attraverso la creazione di adeguate infrastrutture che ne facilitino l’accesso, la loro fruizione con percorsi e testi esplicativi, la realizzazione di strutture gradevoli ricettive che rispettino la sacralità degli antichi luoghi (vedi il sito Facebook di Vindolanda, in Gran Bretagna), rappresenta una fonte di enorme guadagno generato dal maggiore afflusso di turisti, con conseguente beneficio delle casse locali e maggior benessere della comunità, che potrebbe essere alleggerita da una pressione fiscale sempre più invadente e distruttiva.
La valorizzazione dei siti archeologici passa anche attraverso la loro pubblicizzazione, con una diffusione sempre più capillare. Molte notizie riguardo ad essi sono ancora per la maggior parte circoscritti a blog e siti web “locali”. In pochissimi casi le grandi testate nazionali ne fanno menzione. IQ, come testata nazionale ed internazionale, nella persona dell’Autore del presente articolo, ha voluto fare la sua parte, contribuendo alla diffusione della conoscenza di autentici gioielli della terra molisana.