Il Teatro Regio di Torino sta affrontando coraggiosamente uno dei maggiori sforzi produttivi e culturali degli ultimi anni; un progetto che, a memoria, credo nessuno teatro italiano abbia fino a oggi mai realizzato: quello di proporre le tre Manon operistiche, quelle di Auber, Massenet e Puccini, tutte basate sul comune modello letterario de l’Histoire du chevalier Des Grieux et de Manon Lescaut dall’abate Prévost, uno dei romanzi settecenteschi che, per la forza eversiva del suo soggetto, ebbe al suo inizio problemi a circolare liberamente, ma che, forse proprio per questo, fu fonte di ispirazione nel tempo anche per i musicisti che vi si sono avvicinati. Ovviamente, a seconda degli autori, il personaggio della protagonista cambia, assume la sfumature diverse ben note a tutti, soprattutto se si pensa alle opere di Massenet e Puccini, scritte a neanche una decina d’anni di distanza l’una dall’altra. Accostare a queste ultime, ben più famose, quella di Auber, offre un quadro definito dell’idea di Manon vista – è il regista stesso del progetto a ricordarlo – come una donna libera e ribelle in Puccini, torturata e alla ricerca di se stessa in Massenet o semplicemente frivola in Auber. Altro atto di coraggio del progetto torinese, intitolato “Manon, Manon, Manon”, è proprio quello di affidare le tre opere a un unico regista, il francese Arnaud Bernard, già affermato a livello internazionale, noto in Italia ai più per aver realizzato all’Arena di Verona un allestimento di Nabucco in veste “risorgimentale” visivamente poco convenzionale eppure assai apprezzato dal pubblico. Oggi, alla ricerca di un fil rouge che dia continuità alla realizzazione registica delle tre opere da lui firmate per le scene del Regio, Bernard ne sceglie uno assai stimolante, sviluppato dando vita a tutte le componenti che il soggetto del romanzo di Prévost suggerisce, dal libertinaggio alla corruzione, dal vizio alla passione amorosa, fino al piacere incline a consumarsi nella rovina delle anime verso un orizzonte capace di accomunare queste come tante altre inclinazioni evidenti e riassunte, seppur in modo diverso, nelle tre opere. Lo trova, con geniale intuito, nel cinema francese, in quello del “realismo poetico” degli anni Trenta e Quaranta per l’opera di Puccini, in quello anticonformista della emancipazione femminile degli anni Sessanta, con chiari riferimenti a Brigitte Bardot per quella di Massenet e infine in quello muto che rimanda alle radici della sua nascita e forse anche alla circostanza che l’opera di Auber, la più antica delle tre, guarda ancora al modello dell’opéra comique nel suo pieno fulgore. Se l’espediente dell’omaggio al cinema è in qualche modo anche un ideale collegamento al fatto che proprio a Torino nacquero i primi studi e le prime esperienze di sale cinematografiche, oltre al fatto che il capoluogo torinese ospita uno dei più bei musei del cinema d’Europa, questo denominatore comune è un mezzo che il regista trova per legare fra di loro opere dissimili, seppur appunto ispirate al medesimo romanzo e alla stessa protagonista, facendole convogliare su un eguale polo di attrattiva.
Solo dopo averle viste tutte e tre, in scena a pochi giorni di distanza l’una dall’altra, si potrà dire se l’idea di Bernard abbia ottenuto gli esiti sperati, ma se il buongiorno si vede dal mattino, si può affermare da subito che, col primo spettacolo, Manon Lescaut di Puccini, abbia felicemente raggiunto il suo scopo. Il riferimento esplicito, come già accennato, è quello di pellicole come Les Enfants du paradis (Amanti perduti) e Le Quai des brumes (Il porto delle nebbie), entrambi di Marcel Carné, La Bête humaine (L’angelo del male) di Jean Renoir e Manon di Henri-George Clouzot, quel cinema che, nelle chiare citazioni che lo spettacolo fa proprie in volti di attori celebri come Jean Gabin e Michèle Morgan, romanticizza in modo evidente alcune situazioni drammatiche dell’opera di Puccini.
L’impianto scenico di Alessandro Camera e i costumi di Carla Ricotti, così come i movimenti coreografici di Tiziana Colombo, le luci di Fiammetta Baldisseri e i video di Marcello Alongi, in equilibrato bilanciamento fra richiami al grande schermo cinematografico e immagini di set che ne preparano le riprese in presa diretta, è assai accurato, talvolta addirittura sofisticato. Dominano il bianco e nero, le ombre soffuse e misteriose che talvolta ne evocano le sfumature narrative drammatiche con un’estetica assai ricercata, ma nel primo atto prevale la grandeur visiva. Ed ecco, ad apertura di sipario, il piazzale e l’osteria con porticato presso la Porta di Parigi che diviene un arioso ed elegante locale di ristoro e attesa attiguo a una stazione ferroviaria, in un affollatissimo andirivieni di viaggiatori che arrivano o attendono seduti ai tavoli l’ora della loro partenza sorseggiando bibite e caffè, giocando a carte o guardandosi attorno incuriositi su quanto avviene. La scena è animatissima e ha un sapore vagamente zeffirelliano tanto è attenta ai singoli particolari; tutti si muovono, coro compreso, con cura certosina, cinematograficamente calati nel contesto e compito che a loro compete. Più lo spettacolo procede, maggiormente il richiamo al cinema di quegli anni si fa evidente. Il secondo atto è un vero set che si prepara nella casa di Geronte, fra pareti a fregi bianchi di un ricco salotto disposto ad angolo, con una maschera della commedia dell’arte e un Pierrot che, oltre ad essere un citazione diretta alla suddetta pellicola Les Enfants du paradis, sembrano far riflettere sul fatto che Manon, annoiata da questo mondo di ricchezze, assume le fattezze di una statuina, lei stessa vestita con un abito a rombi bianchi e grigi, come una maschera della commedia costretta, per pura convenienza, a recitare la parte della mantenuta di lusso. I fotogrammi cinematografici divengono sempre più essenziali nel dare sostanza drammaturgica alla vicenda, non sono solo più citazioni bensì compartecipano alla narrazione, donando sostanza visiva all’Intermezzo musicale che precede la scena del porto, con la sequela di baci appassionati che addirittura potenziano la passione travolgente che ha travolto i due amanti; passione addirittura omicida, perché il regista sceglie di rendere assassina Manon nel momento in cui tenta la fuga con Des Grieux e, mentre viene arrestata, fredda Geronte con un colpo di rivoltella sul finire del secondo atto. Le immagini dei baci che scorrono durante l’Intermezzo non sono quindi altro che il ricordo di una passione fatale, mentre la scene filmiche di tempesta che precedono l’apertura di sipario sull’ultimo quadro, simulando il viaggio verso le Americhe, servono ad aprirci la visione di dune desertiche che accompagnano l’agonia dei due amanti doppiata dalle scene finali del film di Clouzot proiettate alle loro spalle; prima ancora, alcuni spezzoni dello stesso film rievocano, durante l’aria di Manon, i suoi errori passati e il rimorso che affiora come in sogno sul procinto di appropinquarsi alla morte per stenti. Tutto questo viene visivamente declinato con sintesi perfetta e una naturalezza narrativa che rende lo spettacolo chiaro, lineare e a suo modo grandioso nell’unire armoniosamente ciò che avviene sul palcoscenico alle suddette memorie cinematografiche.
Anche musicalmente questa Manon Lescaut regala ottime impressioni. Sul podio di una Orchestra del Teatro Regio in forma smagliante e di un Coro, istruito da Ulisse Trabacchin che si conferma compagine di altissimo livello, la bacchetta di Renato Palumbo offre un’avvincente lettura musicale dell’opera, capace di aperture sinfoniche che danno rilievo a una concertazione animata nel quadro del primo atto, ma anche carica di pathos nel secondo atto, quando il passaggio alla ciprie salottiere cede il passo all’appassionato incontro fra i due amanti, risolto senza mai perderne di vista l’involo sensuale, eppure rendendolo concreto e incalzante rinunciando a inutili sentimentalismi o a volute orchestrali marcatamente decadenti. Lo stesso Intermezzo e la scena del porto, diretta con teatrale evidenza, depongono a favore di una direzione sempre attenta alla scena, di compatta tenuta drammatica, pur marcando talvolta un po’ troppo il pedale delle sonorità.
Il cast vocale funziona bene e, anche nelle parti di contorno o minori, regala belle sorprese. Carlo Lepore è infatti un Geronte di Ravoir di vero lusso, così come lo è Alessandro Luongo nei panni di Lescaut. Giuseppe Infantino è un Edmondo fresco e puntuale anche se la voce è di volume contenuto, Didier Pieri un maestro di ballo e un lampionaio da manuale, Janusz Nosek, artista del Regio Ensemble, un ottimo Sergente degli arcieri e L’oste, così come il Comandante di marina di Lorenzo Battagion, benemerito artista del Coro del Regio, e il musico di Reut Ventorero contribuiscono al buon risultato di un insieme tanto affiatato.
Veniamo ai protagonisti. Erika Grimaldi è una solida professionista, oltre a possedere una figura scenica adatta alla parte di Manon, che risolve al meglio delle sue possibilità. Il canto, plasmato su un lirismo luminoso e lucente che pare aver ascendenze timbriche con quello di Mirella Freni, la vede vocalmente sempre presente a se stessa. Non teme affanni in acuto, dove riesce anche a superare indenne le leggerezze de “L’ora, o Tirsi”, con un do acuto emesso con sicurezza e slancio. Ciò che le manca è l’anima del vero canto di conversazione, necessario ad andare al di là di una puntuale prova vocale, dandole quel significato di fraseggio che sia capace di cogliere il personaggio nelle innocenze giovanili del primo atto e poi nelle frivolezze e appassionate perorazioni del secondo (le “trine morbide” difettano del richiesto ardente involo voluttuoso vestito di nostalgia), dove appare fredda e distaccata, poco sensuale e volitiva, pur se puntuale nella resa scenica, così come poco coinvolgente, nell’ultimo, in un “Sola…perduta…abbandonata!” che scivola via senza palpiti emozionali e alcun dato espressivo degno di nota. Segno che una eccellente resa vocale non basta per questa parte se non la si accompagna al temperamento della grande interprete.
Apparentemente più coinvolto è il Des Grieux di Roberto Aronica, che si conferma tenore di buona tenuta e bella proiezione sonora. E non è poco dinanzi a una parte tanto difficile, per la quale si sforza di trovare le leggerezze giuste al canto d’amore seduttivo del primo atto, o di abbandonarsi alla passione in un secondo atto dove fatica a rendere il suo canto attrattivo, anche in un “Ah! Manon, mi tradisce il tuo folle pensier” che manca di straziante emozionalità, vuoi per rugosità timbrica, vuoi per un canto tutto giocato su un monocromatico mezzoforte poco morbido e attrattivo. Nella temibile scena del porto, mano a mano che il canto richiede una declamazione drammaticamente incisiva, trova il giusto slancio e la veemenza senza per questo eccedere, così come nello straziante finale dell’opera sa come dosare le forze e dare solidità a una linea canto appunto arida di tinte sfumate, ma grazie all’esperienza e alla tecnica supera ogni ostacolo lasciando in chi ascolta una impressione nell’insieme positiva.
Serata elegante, con quel filo di garbata mondanità torinese un po’ vecchio stile, con un pubblico pronto a festeggiare tutti gli interpreti nella conclusiva passerella degli applausi, ma anche a regalare alla protagonista i dovuti apprezzamenti dopo le sue più importanti pagine solistiche.
Alessandro Mormile
Fonte: connessiallopera.it