Il mito come racconto e risposta ai quesiti e fenomeni che accompagnano e circondano l’uomo dall’origine dei tempi e, pertanto, per sua stessa definizione, al di fuori del tempo, ma, anche, di uno spazio reale: per quanto siano reali Creta o la grotta Coricia, non lo sono il labrinto in cui fu rinchiuso il Minotauro o il luogo in cui le Muse apparvero a Esiodo; ovvero, al contrario, esistono tanti possibili labirinti e grotte sacre a Pan, in quanto i caratteri con cui furono descritti sono talmente indeterminati da adeguarsi a infiniti ambienti reali.
La lettura che di Orfeo ed Euridice di Chrisoph Willibald Gluck propone al Teatro Verdi di Trieste il regista triestino Igor Pison, coadiuvato da Nicola Reicher per le scene e, per i costumi, da Manuela Paladin, posa, pertanto, su premesse solidissime, alle quali possiamo aggiungere quanto anche ricordato dal comunicato stampa del Teatro Verdi, che la musica barocca è forma musicale considerata più vicina alla contemporaneità. Orfeo, che grazie al suono della sua cetra era in grado di muovere gli animali e viaggiare negli Inferi, diventa, dunque, l’archetipo del musicista pop contemporaneo ed Euridice una sorta di Amy Winehouse, citata da Pison nelle note di regia, “imprigionata in un mondo di mostri e incubi”. Ma basta tutto ciò a far funzionare lo spettacolo? Forse no, a sentire, caso inconsueto nella sobria sala tergestina, le sequele di fischi e buh che hanno accolto regista, costumista e scenografa alla fine dello spettacolo; o forse sì, se ascoltiamo l’altra parte della platea, altrettanto agguerrita nel tributare applausi convinti ai tre.
Comunque la si veda, entrambe le fazioni hanno ragione. Lo spettacolo funziona: è coerente perché solida la riflessione che trova ulteriori puntelli nel libretto di Calzabigi e ha il pregio di eliminare gli intervalli a favore di una narrazione drammaturgicamente coesa. Durante l’ouverture, oltre un velario, i due protagonisti, in passeggiata serale, vengono sorpresi da fotografi che causano la fuga di Euridice. Veniamo poi trasportati immediatamente in casa di Orfeo. L’impianto scenico è fisso: una sala a pianta trapeziodale irregolare, dominata dal colore rosa, su cui si aprono due porte ai lati del proscenio e due sul fondo; una chaise longue al centro con appoggiata a lato una chitarra elettrica, un pianoforte verticale sulla destra e un lungo divano sulla parte, dominata da una grande finestra; sulle pareti i segni di alcuni quadri mancanti rendono visibile l’assenza di Euridice. Gli amici di Orfeo, convenuti per consolarlo, contribuiscono a quest’immagine un po’ da Factory newyorkese di Andy Wahrol: alcuni passeggiano, leggono le partiture lasciate sul pianoforte, stringono la mano al divo, pantaloni in pelle capelli lunghi eccessivamente neri, occhiali Ray-ban gialli, più simile a un cantante un po’ fané, di quelli di cui si ricordano talora le televisioni, essi stessi ormai figure mitiche di un mondo lanciato in troppo rapida corsa, che a Kurt Cobain. Entra Amore con un cappottino rosso e paillettes, palloncino a forma di cuore rosso in mano, che rivediamo far capolino poi dipinto su una parte, citazione forse di Banksy? Quando Orfeo giunge agli inferi, i colori cangiano e virano al grigio, un grande talamo/feretro prende il posto della chaise longue e le furie vestite di nero accompagnano Euridice, che della cantante rock dannata ha, a dire il vero, assai poco così ben vestita in verde, capelli folti raccolti in treccine. Qualche pasticca ci lascia intuire quale sia il problema. Finale nuovamente tutti a casa della coppia finalmente riunita a festeggiare con le musiche, supponiamo, scritte da Orfeo.
Tutto sembra funzionare, ma a ben considerare mancano, in parte, una più sicura gestione dei movimenti delle masse e una compiuta resa del gusto per lo spettacolo tipica del barocco. Va detto che in ciò Calzabigi è il maggior nemico del regista, perché il libretto è anti-drammatico nella sua staticità; bisognava, a mio pare, andare un po’ oltre, ricordarsi che Orfeo è padre dell’orfismo, dei riti misterici e che ben potevano legarsi a questa lettura per completarla: pensiamo all’isteria di massa che si accompagna a certi eventi musicali; Orfeo non è solo il musicista, è l’artista, imparentato con Dioniso e con i Titani, simbolo della doppia natura umana, spirituale e carnale, che resta qui, tuttavia, in secondo piano, intuita appena. Si doveva, giunti a questo punto, osare di più, provocare, per fare di questo racconto e di questo Orfeo la chiave di lettura dei nostri giorni, della crisi dell’artista e del mondo che lo circonda. Perché tradurre, ad esempio, la scena fra Orfeo ed Euridice agli inferi in un banale litigio fra due coniugi – tratto che sicuramente è presente nel libretto “e un dolce sfogo del tenero amor mio (…) t’annoia, Orfeo!”; “Dimmi son bella ancora qual era un dì?”; “Qual vita è questa mai, che a vivere incomincio” – senza la giusta dose di ironia, o privandolo di quella ieraticità che è insita nel mito, equivale, a mio avviso, scivolare verso il Kitsch, sul cui confine sta un po’ tutto lo spettacolo. Le danze, coreografate da Lukas Zuschlag e affidate a due solisti del corpo di ballo della SNG Opera in Balet di Ljubljana, non offrono inoltre un sostanziale contributo allo spettacolo, per quanto si apprezzi la preparazione degli artisti solisti.
La direzione e concertazione sono affidate al giovanissimo Maestro Enrico Pagano, che offre un’interessante lettura della partitura, più orientata al classicismo verso cui Gluck con la sua riforma si avvia e parzialmente prepara, che al barocco in cui affonda le proprie radici e a cui ancora, tuttavia, appartiene. Il suono che riesce a ottenere dall’orchestra è bello, pieno, ma forse eccessivo, specie nel primo atto, dove i cantanti sono costretti a spingere, o nell’introduzione a “Che puro ciel”. Il fraseggio risulta, tuttavia, curato, nobile nella sua sobria cantabilità, giusti i tempi, con alcune pagine eseguite ottimamente, come la danza delle furie o il celebre compianto di Orfeo, in cui ottiene una varietà dinamica di grande ricchezza, che avremmo voluto riscontrare maggiormente in tutta la sua lettura.
Ottimo il trio vocale, a partire da Daniela Barcellona che ritorna nella sua città natale e giustamente trionfa nel ruolo del protagonista in virtù di un’intelligenza e sensibilità musicale sorrette da una solida tecnica e da un bel timbro caldo e vellutato. Nel suo canto si realizza compiutamente quel recitar cantando che Gluck si sforza di rinnovare: lo si ascolta nel fraseggio ampio, nella scansione delle parole, nei colori che sa trovare nel corso di tutta l’esecuzione, a partire da “Piango il mio ben così” sino alla pagina più universalmente nota, “Che farò senza Euridice” che le vale un caloroso, meritatissimo applauso del pubblico, per avere saputo rendere in modo stilisticamente ineccepibile il mutevole stato d’animo del protagonista, consegnato dal compositore a un inusuale Do Maggiore.
Ruth Iniesta convince pienamente nel ruolo di Euridice, confermandosi come sempre, nelle occasioni in cui l’abbiamo ascoltata, artista preparata e dotata di buoni mezzi. La sua Euridice sposa appieno la lettura di Pison e ne scaturisce un personaggio estremamente umano di donna che vuole ritornare alla vita e subito ne è schiacciata, vittima delle sue stesse paure e dubbi. Ottima la resa dell’aria “Qual fiero momento” e anche per lei un meritato a convinto successo.
Completa degnamente il trio di solisti Olga Dyadiv, bel timbro morbido, che, nel ruolo di Amore, disegna un personaggio sbarazzino, autentica icona di sé stesso, e rende con giusta leggerezza e ironia l’aria “Gli sguardi trattieni”. Il Coro del Teatro Verdi, diretto dal Maestro Paolo Longo si presenta come sempre preparato all’ennesima e, in questo caso, importante prova contribuendo, al netto di qualche piccola asincronia all’inizio, al successo – parziale – della serata.
Forse, il Mito rimane, ancora oggi, lettura misterica e misteriosa, e, pertanto, sfuggente, della condizione umana: o lo si affronta con coraggio eroico sino alle conseguenze estreme e, come Ulisse nel secondo viaggio, si passano le colonne d’Ercole, oppure, forse, meglio accoglierlo come tale.
Teatro Lirico Giuseppe Verdi
ORFEO ED EURIDICE
Azione teatrale per musica in tre atti di Ranieri de’ Calzabigi
Musica di Christoph Willibald Gluck
Versione “Vienna 1762”
Orfeo Daniela Barcellona
Euridice Ruth Iniesta
Amore Olga Dyadiv
Orchestra, Coro e Tecnici della
Fondazione Teatro Lirico Giuseppe Verdi di Trieste
Direttore Enrico Pagano
Maestro del coro Paolo Longo
Regia Igor Pison
Scene Nicola Reichert
Costumi Manuela Paladin
Coreografie Lukas Zuschlag
Solisti del Corpo di ballo della SNG Opera in Balet Ljubljana
Nuovo allestimento della Fondazione Teatro Lirico Giuseppe Verdi di Trieste
Trieste, 14 aprile 2023