Babilonia, 13 giugno 323 a.C. Nel palazzo reale che fu di Nabucodonosor II si spegne a nemmeno 33 anni il più grande condottiero dell’antichità: Alessandro III di Macedonia, detto il Grande. In 12 anni era riuscito a conquistare il gigantesco Impero Persiano, un territorio immenso che si estendeva dall’Asia Minore all’Egitto fino agli attuali Pakistan, Afghanistan e India settentrionale e progettava di invadere l’Arabia attaccando i domini cartaginesi. La sua dipartita, proprio per la natura prematurale che l’ha caratterizzata, fu da subito oggetto di ogni tipo di speculazioni che generarono le più disparate teorie: assassinato da una congiura di palazzo tramite avvelenamento o colpito da una malattia dovuta allo smodato consumo di alcool unito agli strapazzi di una vita condotta all’eccesso sono tra quelle più gettonate. In realtà, il mistero che circonda la morte del re macedone (divenuto poi più simile ad un monarca orientale) è abbastanza fitto e non è facile districarsi tra le fonti che ne raccontano gli ultimi giorni.
Babilonia, l’ultima dimora
Nel 324 a.C., dopo aver congedato 10.000 veterani, ossia quelli che avevano partecipato a tutta la guerra, rimandandoli in patria carichi di doni e di onori, per Alessandro sembrava giunto il momento di godersi un po’ in pace il conquistato impero. All’uso dei re persiani, che la usavano come residenza estiva, nell’agosto di quell’anno trasferì la corte ad Ectabana (antica capitale della satrapia achemenide di Media), dove solennizzò il proprio arrivo con grandi feste ginniche e teatrali, presto però funestate da un gravissimo lutto: proprio in quei giorni Efestione si ammalò. Cresciuto insieme ad Alessandro, il nobile generale macedone era il più caro dei suoi amici nonchè custode dei suoi segreti. Il loro intenso rapporto, per diverse fonti un vero e proprio amore, durò tutta la vita e fu paragonato a quello tra Achille e Patroclo. Giovane com’era, e per di più un soldato, Efestione non seppe osservare la dieta prescritta dal medico. Infatti, non appena questi si assentò per recarsi a teatro, lo sciagurato ne approfittò per mangiarsi un gallo bollito, bevendoci sopra un gran boccale di vino. Naturalmente si sentì male e poco dopo morì. Alessandro, disperato per la perdita dell’amico prediletto, ordinò il lutto in tutto l’impero e fece crocifiggere lo sventurato medico.
In autunno, il Macedone porta la residenza a Babilonia, non trascurando, lungo il tragitto, di compiere un’incursione tra le tribù cassite dello Zagros. Ne fa una carneficina, definendola “un olocausto funebre in onore di Efestione”. Abbiamo scelto di narrare l’episodio perché è indicativo del fatto che stava cominciando ad apparire chiaro a molti del suo entourage che qualcosa non funzionava del tutto bene nella mente del grande conquistatore: i suoi nervi, che già parecchie volte egli non era riuscito a dominare, stavano saltando del tutto mostrando i chiari segni di ciò che oggi chiameremmo esaurimento nervoso. Anni di ininterrotte tensioni, eccessi e strapazzi di ogni genere, affrontati a volte con troppa spavalderia, avevano lasciato il segno. A Babilonia, libero da impegni pressanti, dominatore indiscusso e sicuro ai confini, avrebbe potuto regnare in pace e ristabilirsi in breve tempo. Invece, scoprendo la città in sfacelo, la corruzione e il malcostume dilaganti, prodigò tutte le sue energie per ridare alla capitale l’antico lustro. Oltre al teatro, che forse era già pronto, volle ripristinare anche la famosa e diroccata torre. Al suo posto sarebbe dovuto sorgere un imponente edificio costruito a regola d’arte, progettato verosimilmente da architetti greci. Fece quindi abbattere quanto ne restava e scavare le nuove enormi fondamenta; nello sterro s’infiltrò, nei secoli, l’Eufrate e la Torre di Babele, quale la vediamo oggi, è appunto quel gran buco pieno d’acqua.
In un momento definito da molti di megalomania, Alessandro pretese che ora anche i Macedoni, come tutti, si prosternassero in sua presenza, alla maniera orientale. Anche in questo caso, il primo che rise non la passò liscia, come accadde a Cassandro, figlio del reggente di Macedonia Antipatro, che, arrivato da poco a corte, la prima volta che vide alcuni persiani inginocchiarsi davanti ad Alessandro in stato di adorazione, scoppiò a ridere un po’ troppo di gusto: essendo stato allevato secondo i costumi ellenici, non aveva mai visto nulla di simile. Il Macedone andò su tutte le furie e, afferratolo per i capelli con entrambe le mani, gli batté la testa contro il muro.
Babilonia visse il suo estremo momento di splendore quando le ambascerie di tutto il mondo (compresa quella di Roma, allora una piccola Repubblica) vennero a rendere omaggio al nuovo Re dei Re. Ma il Re dei Re, non contento, già pregustava ben maggiori glorie: aveva incaricato l’ammiraglio Nearco di stendergli i piani per l’immediata conquista dell’Arabia e forse dell’Africa.
La malattia
La frenetica attività diede il colpo di grazia al già precario stato mentale di Alessandro: sopravvennero manie di persecuzione e mistiche; non si fidava più di nessuno e il palazzo pullulava di esorcisti e sacerdoti, sempre intenti a compiere sacrifici e scongiuri. Trovandosi sempre più solo e soffrendo disperatamente la perdita di Efestione, il Macedone beveva forsennatamente, si dice anche sei o sette litri di vino ogni sera. Perennemente ubriaco, dormiva tutto il giorno e al risveglio riprendeva a farneticare su nuove e stravaganti imprese.
Alla fine, oltre alla mente, crollò anche il corpo. Una sera, il principe tessalo Medio di Larissa lo pregò di onorare con la sua presenza un pranzo da lui offerto. Non potendo resistere alla prospettiva di un còmos, Alessandro accettò. È bene sapere che presso i Macedoni, il còmos degenerava presto in orgia, e una delle pratiche più familiari a questi semi-barbari consisteva nel bere in un solo sorso la famosa “Coppa di Ercole” (più di cinque litri di vino schietto, ossia non diluito con l’acqua). Per quanto grande fosse la resistenza dei bevitori, il vuotare così questa coppa ricolma causava una pesante ubriachezza tanto che più di uno, in simili casi, si abbatteva sfinito sotto l’azione del vino. Alessandro non ne fu esente, e alla fine di questo torneo bacchico accusò un forte dolore alla schiena, una fitta lancinante, come se fosse stato trafitto da una lancia, seguita da vomito.
Quella notte di stravizi depresse profondamente il re. Rientrato nel palazzo, fece un bagno in acqua fredda per sopportare meglio la febbre che nel frattempo era subentrata. Tuttavia, la sera Alessandro partecipò nuovamente ad un simposio da Medio, ubriacandosi, anche per cercare di placare la sete che lo tormentava. La malattia era ormai manifesta. A partire dal 18 Desio (nel calendario macedone corrisponde circa al 3 giugno) essa andò sempre aggravandosi per mancanza di cure adatte.
Il bollettino ufficiale
Per seguire l’implacabile corso del male, disponiamo di un estratto delle Efemeridi reali, dove furono annotate giorno per giorno le fasi della crisi. Questo bollettino ufficiale, redatto indubbiamente dal segretario-cancelliere dell’Impero, Eumene di Cardia, è, nella sua aridità impersonale e laconica, di una tragica eloquenza. Abbiamo scelto di trascriverlo proprio per la sua natura di straordinaria unicità, una testimonianza storica di valore incalcolabile. Eccolo: “Facendosi trasportare in lettiga agli altari, Alessandro vi offre il sacrificio, come giornalmente si usa. Dopo il sacrificio, si ritira nella sala degli uomini, e vi rimane coricato fino al crepuscolo. Indi impartisce agli ufficiali le istruzioni del duplice viaggio per terra e per acqua; fissa la data della partenza, che dovrà avvenire fra quattro giorni per la fanteria, e tra cinque per la flotta, con la quale intende egli stesso partire. Di là, la sua lettiga viene portata al fiume, che egli attraversa in barca, per tornare poi al palazzo reale, ove riposa dopo il bagno.
Il giorno dopo (19 Desio), nuovo bagno e nuovo sacrificio agli dèi. Poi, in letto, nella camera a volta, ascolta i discorsi di Medio e gioca con lui ai dadi. Fa chiamare per l’alba seguente i capitani. Quindi, preso il bagno serale e compiuto il sacrificio agli dèi, rientra, dopo un pranzo leggero, nella camera a volta, dove la febbre lo tormenta per tutta la notte.
Il giorno dopo (20 Desio), dopo il bagno e il sacrificio, conferisce con Nearco e gli altri capi della flotta, ai quali ordina di apprestarsi fra tre giorni a levare le ancore; e si distrae ascoltando, nella camera da bagno ove è coricato, i racconti dell’ammiraglio sulla sua navigazione nel Grande Oceano.
Il giorno dopo (21 Desio), durante il bagno e il sacrificio, la febbre non gli dà tregua. Convoca tuttavia i comandanti delle navi, e insiste perché completino i preparativi della partenza. La sera si bagna ancora; ma la febbre continua a salire, e già il suo stato è grave.
Il giorno dopo (22 Desio) la febbre raddoppia di violenza. Lo si trasporta nell’edificio vicino alla grande piscina. Vi celebra il sacrificio e, benché gravemente infermo, riunisce gli ufficiali meglio considerati, per provvedere ai posti vacanti nell’esercito e dare gli ultimi ordini per la campagna navale.
Il giorno dopo (23 Desio) viene trasportato con grande fatica per la celebrazione del sacrificio. Lo compie; ma non dà più alcun ordine ai comandanti.
Il giorno dopo (24 Desio), nonostante l’estrema debolezza, compie ancora il consueto sacrificio. Ordina poi agli strateghi di rimanere nel vestibolo del palazzo reale, mentre i capi delle falangi, dei reggimenti e delle compagnie monteranno la guardia notturna alle porte.
Il giorno dopo (25 Desio) è agli estremi. Lo si conduce dai giardini del castello, ove sono introdotti i suoi generali. Li riconosce, ma non può rivolgere loro la parola, avendo perduto l’uso della voce. La notte è in preda a una febbre violentissima.
Il giorno dopo (26 Desio) la febbre intensa persiste. I soldati macedoni, gli uni nella speranza di trovare ancora vivo il loro re, gli altri persuasi che si celi loro la notizia della sua morte, accorrono all’entrata del palazzo, e a furia di grida e di minacce ottengono di vederlo. Si aprono le porte, e tutti, ad uno ad uno, senz’armi, con la semplice tunica, sfilano innanzi al letto, ove giace, muto, Alessandro. Al passaggio di ciascuno, solleva penosamente il capo, e saluta con lo sguardo.
Al crepuscolo del 28 Desio, (13 giugno), Alessandro il Grande muore. Aveva 32 anni.
Le cause della morte
Si sono susseguite numerose teorie nel corso degli anni sulle cause della morte del grande condottiero. Tutte sembrano avere un pizzico di verità ma nessuna è mai riuscita a convincere tutti e a consolidarsi come verità assoluta. Purtroppo, le fonti storiche pervenute fino ai nostri giorni sono poche e di difficile decifrazione. Le linee guida sono alcune pagine dei diari di Plutarco e di Arriano, due storici greci rimasti al fianco di Alessandro durante gli agonizzanti 14 giorni che lo portarono alla morte. Non tutte le pagine dei diari sono sopravvissute; il che rende ancora più difficile investigare a fondo. Una cosa certa però c’è: un sintomo comune di cui soffrì il re, ossia la febbre alta da cui tutte le teorie partono e iniziano a ragionare.
La teoria dell’avvelenamento
È la più classica, anche perché si presta a ricostruzioni romanzate. Ed è anche la più antica. Ricordate il simposio organizzato da Medo? Ebbene il vino fu versato da un giovane coppiere, Iolao, figlio di Antipatro (il reggente di Macedonia) e fratello di Cassandro (quest’ultimo fu colui che anni dopo sterminò la famiglia degli Argeadi: la regina madre Olimpiade, la vedova Roxane col figlioletto Alessandro IV, il figlio naturale Eracle ed il fratellastro del re Filippo Arrideo). Il coppiere Iolao fu subito sospettato di aver avvelenato il sovrano. Da notare che i resti del giovane, dopo la sua morte, furono dispersi nel 317 a.C. ad opera di Olimpiade che infatti lo riteneva l’esecutore materiale del crimine. Il movente? Gli storici riportarono le voci che si rincorsero a Babilonia fra i cortigiani e i compagni del re: che egli fosse stato avvelenato dal coppiere per ordine del reggente Antipatro che, in disaccordo con lui e con la madre Olimpiade, era stato chiamato il Persia per un chiarimento, il che, considerato il carattere sospettoso e vendicativo del re, avrebbe portato certamente alla sua eliminazione. Meglio quindi giocare d’anticipo e ordire una congiura. Tuttavia, va considerato che tra i possibili sospettati vanno inseriti anche altri soggetti. Sappiamo, ad esempio, che i veterani erano scontenti del trattamento da loro considerato ingiusto che il re aveva riservato loro: dopo anni di guerra e vite umane perse, non accettavano di essere soppiantati da soldati persiani. Anche sua moglie Roxane, che aspettava di lì a poco la nascita dell’erede, si sentiva minacciata dai nuovi matrimoni del marito con le principesse Parisatide e Statira, che si diceva fosse già incinta. Si mormorava anche che Aristotele, l’antico maestro di Alessandro, rancoroso per l’eliminazione del nipote Callistene, storico della spedizione macedone, fosse l’ispiratore della congiura. Tutti avevano motivi di risentimento contro il re. Dunque, il Macedone scomparve al momento giusto e al posto giusto, nell’atmosfera complice della corte di Babilonia, quando non si trovava in guerra, circondato e difeso dai suoi fedelissimi. La teoria dell’avvelenamento supporta l’uso dell’arsenico, che può provocare sintomi simili a quelli descritti dalle fonti. L’arsenico era un veleno già noto nell’antichità in Persia col nome di “Zarnik” ed era conosciuto anche dai Greci che lo chiamavano “Arsenikon”. Inodore e insapore potrebbe essere stato facilmente mescolato ad un vino puro e dal sapore aromatico come quello contenuto nella famigerata “Coppa di Eracle”.
La teoria della morte naturale
Secondo questa teoria, il veleno che uccise Alessandro fu invece la malaria. Contratta dal Macedone già nel 336 a.C., potrebbe essere stata aggravata dal clima di una Babilonia già torrido all’avvicinarsi dell’estate: gli effluvi deleteri degli acquitrini, i miasmi insalubri esalanti dalle terre umide in cui era stato scavato il bacino di oltre mille triremi, le punture velenose di miriadi di insetti, moltiplicantisi sulla superficie di acque stagnanti, offrivano riunite tutte le condizioni tipiche del paludismo. Per evitare la febbre perniciosa, sarebbe occorsa una vita sobria e per guarirla, un’igiene oculata. Si ebbe invece il contrario: orgie incessanti, mostruosi eccessi nel bere, fatiche sovrumane, tensione continua del pensiero in un organismo affaticato. Nulla di misterioso, quindi. Tuttavia, accade in rarissimi casi la malaria uccida nel giro di pochi giorni, come nel caso di Alessandro.
La sindrome di Guillain-Barrè
Arriano e Plutarco riferiscono che dopo la morte di Alessandro, “essendo stati i generali per parecchi giorni in disaccordo, il corpo rimase in luoghi caldi e umidi senza che lo si sottoponesse a trattamento…ma rimase incorrotto e fresco”. Lo storico romano Curzio Rufo scrisse nel I secolo d.C.: “quando finalmente gli amici ebbero modo di dedicare le loro cure al corpo esanime, quelli che gli si erano avvicinati non lo notarono per nulla alterato dalla decomposizione e neppure dalla benché minima lividezza”. Un fatto veramente sorprendente considerato il caldo-umido dell’estate mesopotamica, che raggiunge una temperatura massima di circa 42 gradi a giugno. Gli antichi greci pensavano che ciò provasse che Alessandro era un dio. Ma recentemente una nuova interessante teoria ha provato a spiegare questo fatto. Katherine Hall, ricercatrice dell’Università neozelandese di Otago, ha concluso che il Macedone potrebbe essere stato colpito dalla Sindrome di Guillain-Barrè (GBS), un disturbo neurologico raro autoimmune che si evolve con la paralisi degli arti e un’insufficienza cardio-respiratoria. La malattia potrebbe essere insorta a causa di un’infezione da Campylobacter pylori, che all’epoca era molto frequente e spesso portava alla GBS. L’evidenza che il corpo del re non abbia mostrato segni di decomposizione per sei giorni dopo la morte, che abbia avuto una febbre, poi dolore addominale e una paralisi progressiva e simmetrica, oltre al fatto che sarebbe rimasto con la capacità di intendere e di volere fino a poco prima della morte sarebbero elementi che indicherebbero, secondo la Hall, proprio la diagnosi della GBS. Gli studi sulle cause della morte di Alessandro si sono sempre concentrati sulla febbre e sul dolore addominale: in base alla nuova analisi, invece, sarebbe stato sottovalutato proprio il ruolo dell’attività del cervello. Si sarebbe trattato, dunque, di una variante acuta della malattia che ha prodotto la paralisi ma non ha portato confusione o incoscienza.
Morte apparente?
La paralisi, un respiro quasi impercettibile, una probabile mancanza di autoregolazione della temperatura corporea e forse la fissità delle pupille, indussero a credere che Alessandro fosse morto, ma in realtà forse era solo in coma; per questo il suo corpo non subì alcuna degenerazione. Poichè l’accertamento della morte nei tempi antichi si basava sulla assenza di respiro, piuttosto che sul sentire il polso, i medici dell’epoca furono tratti in inganno e dichiararono la morte di Alessandro quando in realtà era ancora vivo. Il decesso sarebbe verosimilmente sopraggiunto dopo quei sei giorni di morte apparente. Se tutto ciò fosse vero, potrebbe essere il caso più famoso di falsa diagnosi di morte mai accertata, detta pseudothanatos. Quindi il corpo del re non si sarebbe decomposto perchè era un dio, ma perchè non era ancora morto. Di sicuro era deceduto quando gli imbalsamatori lo prepararono alla maniera egizia, altrimenti avrebbero operato su un uomo ancora vivo, cosa della quale si sarebbero sicuramente accorti.
Ma non tutti sono d’accordo
La teoria della dottoressa Hall venne però smentita da alcune controprove fornite dall’Università Aristotele di Salonicco. Un gruppo di ricercatori con a capo il Dottor Thomas Gerasimidis sottolineò come gli scritti di Plutarco e Arriano puntassero il dito contro sintomi quali febbre, dolori addominali e difficoltà respiratorie, sintomatologia, questa, estranea al decorso della GBS. I già citati sintomi invece portarono, più probabilmente, ai calcoli biliari che in un secondo momento causarono una grave necrosi pancreatica dovuta ai problemi di eccessivo alcolismo mostrati da Alessandro. Ma ciò non spiega l’importante particolare della mancata decomposizione.
Un mistero lungo 2300 anni
E’ fuor di dubbio che è impossibile capire cosa causò la morte del Macedone senza esaminare i suoi resti. Se un giorno verrà ritrovata la sua tomba, la cui ubicazione è un ulteriore mistero, forse tanti enigmi verranno sciolti. Ciò che è sicuro è il fatto che il grande conquistatore era divenuto un personaggio scomodo, la cui morte fece tirare un sospiro di sollievo a molti. È fuori di dubbio l’esistenza di un conflitto sotterraneo che divideva in modo drammatico Alessandro dalla nobiltà macedone, la quale si sentiva tradita, sfruttata e spodestata da un re che aveva conquistato due corone con il valore e il sangue dei Macedoni e che ora voleva togliere loro quei diritti sovrani di autogoverno che da anni Alessandro mal sopportava. In tutta la sua vita, la situazione del condottiero argeade ebbe realtà assai diverse dal mito che gli storici antichi hanno tramandato. La grande spedizione macedone venne iniziata accettando gli ideali della cultura attica: la ripresa della tradizione del dovere, verso gli dèi greci, di punire i Persiani per le devastazioni di edifici sacri durante le guerre Mediche nell’Ellade. Quando Alessandro si dichiara discendente di Achille, è ancora legato ai princìpi della Lega di Corinto. Ma quando taglia il nodo di Gordio, visita l’Oasi di Siwa, assume la corona dei Faraoni e chiede al dio Marduk la restaurazione totale della monarchia universale di Babilonia, il re entra in conflitto con i Greci e soprattutto con gli stessi Macedoni, i quali erano soltanto in cerca di feudi e di grandi incarichi di potere, non certo per condividerlo con coloro che avevano combattuto, e men che meno importava loro la creazione di un impero multietnico. L’alienazione dell’Occidente macedone e greco verso Alessandro non era semplice gelosia per incarichi e privilegi riconosciuti a Babilonesi ed Egiziani, non era semplice disgusto per l’inevitabile adozione dell’etichetta cultuale-monarchica della Mesopotamia o dei Faraoni. Vi era molto di più: con il nuovo impero asiatico era comparsa una nuova supremazia, destinata a prevalere sulle aspirazioni di dominio occidentali. L’Oriente egizio-asiatico poteva essere altrettanto forte, competitivo e temibile quanto era stato con i suoi grandi imperi del passato, e l’Occidente macedone si era sentito tradito, oltre che sfruttato per finalità nelle quali non si identificava più. Ecco, forse bisogna partire da queste considerazioni per iniziare a capire quali furono le circostanze politiche e il contesto nel quale si consumò il dramma di uno dei personaggi più importanti per la storia dell’umanità.