SOCIETA’ DEL PASSATO-ROMA.
Senza alcuna base costituzionale, derivante dalla tradizionale avversione dei Romani verso qualsiasi forma di monarchia, tale forma di governo fu sdoganata grazie alle abili manovre di Augusto.
I Cesari vivevano la loro proclamazione una sola volta, ma le condizioni stesse in cui questa avveniva incidevano sulla loro vita quotidiana e persino sulla loro stessa esistenza fisica: dal III secolo d.C. l’imperatore viveva come il sacerdote di Nemi (il Rex Nemorensis di cui abbiamo già parlato nel precedente articolo), ossia costantemente minacciato dal colpo fatale di un eventuale successore.
Basi costituzionali?
A differenza dei passati regimi napoleonici, l’Impero Romano non aveva alcuna base costituzionale e soprattutto questo regime, straordinario dal punto di vista giuridico, non aveva alcuna legge di successione. Augusto lo instaurò facendo credere di aver restaurato la Repubblica, con le sue magistrature ordinarie e un Senato che votava delle leggi. Ma l’Imperatore era al di sopra dei magistrati e delle leggi, era una specie di Legge vivente, benché temporanea.
Tentativi dinastici
I Cesari avevano ovviamente cercato di fondare una dinastia: ed in effetti, da Augusto a Nerone, il potere era rimasto all’interno della famiglia Giulio-Claudia.
Vespasiano inaugurò poi una corta dinastia, quella Flavia (69-96), ma quella dei Severi durò una quarantina d’anni, dal 193 al 235. A farci caso, nell’arco di quasi un secolo, da Traiano a Commodo l’Impero, grazie al meccanismo della successione rimase nelle mani di una sola grande famiglia, anche se in realtà un figlio è succeduto al padre soltanto una volta. Ma nessuna norma stretta e costante ha mai regolato la designazione dell’erede imperiale. La nascita di un figlio o la procedura dell’adozione poteva assicurare l’avvenire. Dal momento in cui un individuo, sia esso figlio legittimo, naturale o adottivo, portava il titolo di “Cesare”, diveniva il principe ereditario, e la successione era teoricamente risolta. Ma ciò non era scritto nelle leggi.
Un “bizzarro” vuoto legislativo
Viene da chiedersi come mai una civiltà nota anche per aver concepito e codificato un diritto tra i più avanzati della storia umana, non abbia anche regolato la figura più importante delle sue istituzioni, lasciando che la successione venisse decisa da intrighi di Palazzo, dalla Guardia Pretoriana, dalle legioni di stanza nelle remote provincie o da guerre civili. La ragione di questo vuoto legislativo va ricercata nelle lontane origini di Roma, quando la città era governata dai re. Secondo quanto riferisce Tito Livio, allorché l’ultimo di essi, Tarquinio il Superbo venne cacciato, il popolo, guidato da Bruto e da Collatino, divenuti i primi due consoli del nuovo governo, giurò che non si sarebbe più fatto comandare da un re. Fu l’origine del lungo periodo della storia romana conosciuto come Repubblica e che durò quasi cinque secoli. Quando Augusto vi pose fine, instaurando un governo dalla chiara impronta monarchica, fu molto cauto nel non usare mai la parola rex, ma il termine princeps. Il principato era indubbiamente un’abile sintesi di forme repubblicane e di sostanza monarchiche. Lo stesso Augusto era un magistrato che nella sua stessa persona cumulava più magistrature e più poteri di quanto mai avessero fatto altri prima di lui. Va poi sottolineato come l’auctoritas in sé poneva Augusto al di sopra degli altri magistrati dello Stato romano da un punto di vista meramente costituzionale. Fu proprio questa mistificazione, questa apparenza di forma, questo non voler ammettere di essere divenuto un monarca a tutti gli effetti per non urtare la sensibilità repubblicana, che impedì ad Augusto di codificare una rigida legge di successione. Perché la sua codifica avrebbe di fatto spezzato le antiche tradizioni. Fu quindi ritenuto più comodo far credere di essere ancora nella Repubblica, e far credere al Senato di contare ancora qualcosa. Non a caso, il termine scelto da Augusto era, come abbiamo detto, Princeps, ossia un primo tra i pari, e l’imperium era una carica prettamente militare.
Quando vi era una vacanza di successione, il potere imperiale che emanava dal Populus Romanus (di cui il principe era il delegato assoluto) avrebbe dovuto scegliere dal Senato chi, in qualità di custode della tradizione ancestrale e fondamentale (mos maiorum), deteneva tutte le prerogative del popolo romano.
Il ruolo dell’esercito
Dal I al III secolo il Senato era tenuto a legittimare il principe votando una legge di investitura di cui conosciamo il testo relativo all’avvento di Vespasiano, la famosa Lex de Imperio Vespasiani. In tale legge si definiva il potere e le prerogative del princeps rispetto a quelle del Senato stesso, si rendeva stabile il nuovo ordinamento dello Stato che si era determinato con i poteri, formalmente straordinari, conferiti ad Augusto e ai suoi successori. Vespasiano era stato nominato imperator dall’esercito mentre combatteva in Giudea. E in effetti, era l’esercito che faceva gli imperatori, in qualità di Populus in armi e in virtù dell’essenza militare stessa della carica. Secondo la tradizione, erano i soldati che proclamavano l’imperator “generale vittorioso” e “generale in capo” allo stesso tempo. In caso di crisi, in mancanza di successori designati o designabili, l’esercito affermava i suoi diritti: come nel 69, nel 193, nel 235, ma anche tante altre volte. Da ciò derivava la pluralità degli avventi possibili. Non esisteva alcun cerimoniale fisso di intronizzazione, nessuna “consacrazione” dell’imperatore: tutto dipendeva dalle circostanze e dal momento storico. Ma comunque il principe era investito con la Lex regia de Imperio e i suoi sudditi gli prestavano giuramento di fedeltà.
Accorgimenti e precauzioni
Per facilitare la successione, l’erede designato viene dotato dall’imperatore in carica del potere tribunizio e dell’imperium proconsolare. Allorché l’imperatore defunto avesse designato chiaramente il suo erede, il Senato avrebbe confermato quest’ultimo dopo aver ascoltato e verificato il testamento: tecnicamente si trattava del testamento di un cittadino romano che lasciava in eredità i suoi averi e i suoi poteri, quindi non era una procedura di successione politica e monarchica in senso stretto.
Proprio tale ambiguità spingeva l’erede a prendere alcune misure di sicurezza. Si divulgava la morte del principe solo dopo aver ben preparato il dispositivo che permetteva l’effettiva presa del potere e dopo aver accertato la fedeltà dell’esercito e dei Pretoriani: è il caso di Tiberio che, dopo la morte di Augusto, comunicò la parola d’ordine alla Guardia Pretoriana e in contemporanea rivolse alle legioni un messaggio da capo e da imperator.
Nei casi in cui la situazione si presentava incerta, gli agenti della “polizia segreta” e personale del nuovo principe si incaricavano di sopprimere un certo membro della famiglia che avrebbe potuto avere in animo di prendere il potere: ne fece le spese lo sventurato nipote di Augusto, Agrippa Postumo, un giovane con problemi mentali che per qualche tempo preoccupò i servizi di sicurezza di Tiberio.
Il ruolo delle donne di Palazzo
A volte erano le energiche donne di potere a muoversi per prime quando il futuro era incerto. Ad esempio, Agrippina fece adottare Nerone da Claudio, che aveva però un figlio, Britannico, e che avrebbe ovviamente voluto come erede. Ma Claudio, così bene intenzionato, venne avvelenato tempestivamente e Agrippina fece ritardare l’annuncio del decesso per poter preparare la scena della proclamazione ad imperator di suo figlio Nerone in questo modo: fece venire a palazzo degli attori per far credere che Claudio fosse ancora vivo, dopodichè, scrive Tacito negli Annales, il 13 ottobre del 54, a mezzogiorno, “le porte del Palatino si aprono improvvisamente, Nerone scortato da Burro, prefetto del pretorio, avanza verso la coorte di guardia. Su invito del prefetto, viene salutato imperatore con auguri ed evviva”. Alcuni soldati si interrogarono e cercarono invano di scorgere Britannico, ma Nerone, portato in lettiga fino al campo dei pretoriani, fece un’arringa alle truppe prima di recarsi in Senato che, come di consueto, avrebbe ratificato.
Nel 117 Plotina fece designare Adriano da un Traiano morente il quale, in realtà, dieci anni prima gli aveva dato l’anello di Nerva, segno di un’eventuale adozione, di fiducia personale e di una scelta preliminare poiché nell’anello era incastonata la gemma del sigillo imperiale.
Un secolo dopo, Giulia Mesa organizzò contro Macrino un’operazione che culminò con l’avvento di suo nipote, il discusso Eliogabalo e in seguito aiutò sua figlia Giulia Mamea a sbarazzarsi dello stesso Eliogabalo in favore di Severo Alessandro: una conseguenza della mancanza di regole certe.
L’adventus Augusti
Quando l’imperatore proclamato non si trovava proprio a Roma, il grande momento dell’avvento era il suo arrivo nella capitale: si trattava dell’adventus Augusti. Sinistro e cruento fu quello di Galba, che fece caricare dalla sua cavalleria una folla di coscritti che gli erano contrari.
Alcuni mesi dopo, nel luglio del 69, arrivò Vitellio al suono di tromba e con la spada al fianco. Come ci racconta Svetonio, era scortato, tra insegne e stendardi, dai temibili legionari di Germania, che marciavano su Roma con le armi alla mano, contrariamente agli usi (fatta eccezione per la celebrazione di un trionfo).
Ben diverso fu l’ingresso che Traiano fece a piedi, verso la fine della primavera del 99: giovani e vecchi, donne e bambini, persino i malati trascinati fuori per vedere il nuovo princeps e tutti lo acclamavano freneticamente. Erano tutti felici, ci dice Plinio il Giovane. Fu un bagno di folla che valeva un plebiscito: fu la consacrazione popolare.
In occasione della sua incoronazione e del suo adventus, Adriano rinunciò a far riscuotere le imposte arretrate e fece bruciare nel Foro i registri del Fisco: un atto raro che ci fa immancabilmente sognare…
Connotazioni sacre
Verso la fine del II secolo, l’accoglienza del nuovo imperatore diventò un evento dai caratteri sacri, anche se non vi era alcuna forma di “consacrazione”. Ad esempio Commodo, dopo aver concluso una pace raffazzonata con i barbari del Danubio, si avvicinò a Roma; il Senato gli andò incontro in processione con i cittadini carichi di fiori e di alloro, così come successivamente anche per Caracalla e Geta.
Nel luglio 219, Eliogabalo (si, sempre lui) non fece un ingresso di tipo militare ma sacerdotale, vestito da grande sacerdote orientale del sole: calzoni alla persiana, tunica lunga fino ai piedi, di porpora ricamata d’oro con maniche lunghe, tiara costellata di pietre preziose. Il popolo ebbe diritto a spettacoli vari e a generosi compensi. Con Eliogabalo arrivò a Roma il carro che portava la pietra nera di Emesa, una specie di betilo che l’imperatore fece introdurre nel Palatino, in un tempio costruito appositamente: ci troviamo di fronte all’avvento di un culto.
Fine di un’epoca
L’adventus Augusti si svuotò di ogni significato dal giorno in cui Roma perse la sua condizione di capitale, sotto la Tetrarchia e soprattutto dopo la fondazione di Costantinopoli. Per concludere, possiamo dire che lo stile, il protocollo e le modalità dell’adventus dell’imperatore variarono quindi in maniera più o meno considerevole a seconda delle circostanze, della congiuntura storica e della personalità dei diversi principi. Ma tutte queste varianti restarono tutte più o meno coerenti con il fondamento militare di questo potere personale spesso legittimato dalla vittoria e ratificato ineluttabilmente dal Senato, facciata fittiziamente civile del regime imperiale.