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Dieci anni fa i musei statali diventavano autonomi. Cos’è l’autonomia e cosa ha comportato.

Dieci anni fa, nel luglio 2014, l’allora ministro dei beni culturali Dario Franceschini annunciava l’arrivo dell’autonomia dei musei statali, entrata in vigore nel 2014. Ecco cos’è l’autonomia, perché è stata introdotta, cos’ha comportato.

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La Reggia di Caserta.

Una “rivoluzione”: questo il termine che, dieci anni fa, nel luglio del 2014, l’allora ministro dei beni culturali Dario Franceschini utilizzava per presentare la riforma del ministero, che sarebbe entrata in vigore il 10 dicembre dello stesso anno, con il decreto del presidente del consiglio dei ministri (dpcm) numero 17/2014, contenente il “Regolamento di organizzazione del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, degli uffici della diretta collaborazione del Ministro e dell’Organismo indipendente di valutazione della performance”. La novità che ebbe più impatto fu sicuramente l’autonomia dei musei statali, in tutto circa 450 sugli oltre 4.000 che compongono il tessuto museale del nostro paese: prima di allora, i musei erano uffici delle soprintendenze, ed erano dunque fortemente legati ai loro territori, ma non avevano un proprio bilancio, non avevano statuti propri, non avevano un proprio comitato scientifico né tanto meno un consiglio d’amministrazione e non avevano ovviamente quell’indipendenza che veniva allora ritenuta indispensabile per trasformarli in istituti al passo coi tempi. La gestione dei musei era infatti considerata troppo lenta e troppo frenata da ostacoli burocratici per poter proiettare i nostri istituti in una società caratterizzata da forti cambiamenti: flussi turistici in crescita, nuovi modi di guardare alle collezioni e al pubblico, la rapida evoluzione delle tecnologie. Occorreva una struttura più efficace, più svelta, meglio organizzata, più in grado di rispondere ai cambiamenti.

La necessità della riforma era, anzitutto, quella di operare una spending review che reagisse al meglio alla non facile congiuntura economica che l’Italia stava attraversando in quel periodo, oltre che quella di snellire l’apparato burocratico e, per quanto riguarda i musei, di metterli nelle condizioni di lavorare al meglio nei confronti sia delle loro collezioni, sia del loro pubblico, oltre che di renderli più efficienti e di garantire che i direttori avessero autonomia decisionale e gestionale. Ci furono numerose critiche, perché si riteneva che il nuovo assetto comportasse una cesura tra musei e territorio, che gli istituti, resi autonomi, sarebbero stati gestiti più con piglio aziendalistico che come istituti della cultura, e che l’autonomia avrebbe reso i musei grandi molto più forti rispetto a quelli piccoli.

Gli Uffizi.

Tuttavia, la riforma andò avanti spedita: “Non si tratta di piccoli cambiamenti”, disse allora il ministro Franceschini: “gli italiani si aspettano da questo governo riforme importanti e la riorganizzazione del Mibact è una grande rivoluzione che ci consentirà di investire sull’incredibile patrimonio culturale che possediamo”. Il nuovo assetto comportò, intanto, la creazione di una direzione generale per i musei, che avrebbe sovrainteso al sistema museale nazionale e avrebbe coordinato i musei statali, e alla quale venivano attribuite funzioni di indirizzo, coordinamento, controllo sui musei. I musei venivano divisi in due tipi: venti istituti, quelli giudicati di rilevante interesse nazionale, diventavano musei dotati di autonomia speciale (è a questi che ci si riferisce comunemente quando si parla di “musei autonomi”) e venivano elevati a uffici di livello dirigenziale. Si trattava di diciotto musei e due parchi archeologici: il complesso Colosseo-Museo Nazionale Romano-area archeologica di Roma, il complesso Pompei-Ercolano-Stabia, la Galleria Borghese, la Galleria degli Uffizi, la Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma, le Gallerie dell’Accademia di Venezia, il Museo di Capodimonte, la Pinacoteca di Brera, la Reggia di Caserta, la Galleria dell’Accademia di Firenze, la Galleria Estense di Modena, la Galleria Nazionale d’arte antica di Roma, il Polo Reale di Torino, il Museo Nazionale del Bargello, il Museo Archeologico Nazionale di Napoli, il Museo Archeologico Nazionale di Reggio Calabria, il Museo Archeologico Nazionale di Taranto, Paestum, il Palazzo Ducale di Mantova e il Palazzo Reale di Genova. Questi musei erano stati scelti sulla base di diversi criteri, tra cui l’importanza delle collezioni, l’ampiezza della superficie espositiva, il numero di visitatori.

Tutti gli altri venivano raggruppati in poli museali regionali, anch’essi elevati al rango di uffici di livello dirigenziale, e organizzati come articolazioni periferiche della Direzione generale musei al fine di assicurare sul territorio l’espletamento del servizio pubblico di fruizione e di valorizzazione degli istituti e dei luoghi della cultura in consegna allo Stato. I musei con autonomia speciale, diversamente rispetto ai musei che afferiscono ai poli regionali, sarebbero stati dotati di autonomia scientifica, finanziaria, contabile e organizzativa, e avrebbero avuto un proprio consiglio d’amministrazione (deputato a determinare le linee di ricerca e gli indirizzi tecnici in coerenza con le direttive del ministero, e inoltre avrebbe adottato lo statuto e approvato il bilancio di previsione, il consuntivo e gli strumenti di verifica dei servizi), un comitato scientifico (organo consultivo che avrebbe supportato il direttore su questioni di carattere, appunto, scientifico) e un collegio dei revisori dei conti. Oltre, ovviamente, a un direttore, individuato come il responsabile della gestione del museo nel suo complesso. Questo significa che, per esempio, qualora un museo non dovesse raggiungere i propri obiettivi, ne risponderebbe il direttore.

La riforma prevedeva che ogni museo si sarebbe dotato di uno statutoun bilancio chiare forme di gestione. Gli statuti sarebbero stati adottati dal consiglio di amministrazione del singolo museo autonomo e approvato dal ministro nel caso dei musei autonomi, mentre per i poli regionali sarebbe stato adottato dal direttore del polo e approvato dal direttore generale dei musei. Il bilancio avrebbe dovuto evidenziare la pianificazione e i risultati della gestione finanziaria e contabile delle risorse economiche a disposizione del singolo istituto. Ancora, l’organizzazione dei musei veniva suddivisa in cinque aree funzionali, ognuna delle quali avrebbe avuto almeno un responsabile: la direzione; la cura e gestione delle collezioni, lo studio, la didattica e la ricerca; il marketing, il fundraising, i servizi e i rapporti col pubblico, le pubbliche relazioni; l’amministrazione, le finanze e la gestione delle risorse umane; le strutture, gli allestimenti e la sicurezza. Per la selezione dei direttori il ministero bandiva un concorso internazionale che avrebbe portato di lì a poco alla nomina dei primi venti direttori, molti dei quali stranieri, rimasti per due mandati alla guida dei loro istituti, e nel frattempo diventati anche personaggi pubblici di rilievo (uno su tutti: Eike Schmidt, direttore degli Uffizi).

La Pinacoteca di Brera. Foto: James O’Mara.

Si trattava di una riforma epocale che ha costituito un vero spartiacque nella gestione dei musei statali. Come ha scritto Daniele Jalla, presidente dell’ICOM, la riforma Franceschini ha sancito la fine di un’era, quella dei “musei-ufficio incorporati nelle Soprintendenze, privi di un direttore, di un regolamento d’organizzazione, di un proprio bilancio, di una qualsivoglia autonomia tecnico-scientifica e organizzativa. Delle ‘universitas rerum’, delle ‘collezioni aperte al pubblico’, e non delle ‘universitas rerum et bonorum’, cioè degli istituti, come ovunque nel mondo e come erano stati riconosciuti dalla legislazione nazionale sui musei non statali e dalle leggi regionali dagli anni Settanta in poi”. La riforma sanciva inoltre la separazione tra tutela e valorizzazione, con la prima che rimaneva in mano alle soprintendenze e la seconda in capo ai musei: era la fine di un modello pluridecennale, tanto che causò molte preoccupazioni, poiché il ministro veniva accusato d’indebolire le soprintendenze e, di conseguenza, la tutela a scapito della valorizzazione. I sostenitori della riforma, al contrario, argomentavano affermando che la separazione dei ruoli li avrebbe rafforzati, consentendo una gestione più semplice, efficace ed efficiente.

Altri musei avrebbero poi ottenuto, negli anni a venire, l’autonomia speciale: dieci nel 2016 (il Complesso monumentale della Pilotta di Parma, il Museo delle Civiltà di Roma, il Museo nazionale etrusco di Villa Giulia di Roma, il Museo nazionale romano, il Museo storico e il Parco del Castello di Miramare di Trieste, il Parco archeologico dell’Appia Antica di Roma, il Parco archeologico dei Campi Flegrei, il Parco archeologico di Ercolano, il Parco archeologico di Ostia Antica, Villa Adriana e Villa d’Este a Tivoli), sette nel 2019 (Vittoriano e Palazzo Venezia, la Pinacoteca nazionale di Bologna, il Museo nazionale di Matera, Palazzo Reale di Napoli, il Museo archeologico nazionale di Cagliari, il Museo nazionale d’Abruzzo e il Parco archeologico di Sibari), quattro nel 2021 (il Parco archeologico di Cerveteri e Tarquinia, la Pinacoteca nazionale di Siena, il Parco archeologico di Sepino e il Museo nazionale dell’arte digitale). Altri diciassette infine sono stati aggiunti nel 2023. Nel frattempo, i poli museali regionali hanno cambiato nome diventando, nel 2019, “Direzioni territoriali delle reti museali” e infine, nel 2020, hanno assunto l’attuale denominazione di “Direzioni regionali musei”.

Il Palazzo Ducale di Mantova.

Quali sono stati i benefici comportati dall’autonomia dei musei? Diversi, come abbiamo avuto modo di sondare, su queste pagine, lo scorso anno nella nostra inchiesta sulla riforma dei musei nell’ambito della quale abbiamo messo a confronto i pareri di diversi direttori: aver introdotto una corretta struttura coi poteri dei vari organi di gestione tra loro ben bilanciati, l’aver assegnato ai musei autonomia sulla ricerca, la possibilità di gestire in maniera autonoma anche la comunicazione e quindi svolgere azioni sul pubblico, la possibilità di elaborare la tariffazione oltre che gli eventuali abbonamenti, l’istituzione di un fondo di solidarietà grazie al quale parte dei proventi dei musei più grandi e ricchi viene destinata per aiutare finanziariamente i musei più deboli che altrimenti non avrebbero risorse per funzionare al meglio. Permangono comunque diverse criticità: per esempio, i musei non possono gestire autonomamente le risorse umane (si tratta forse del tema più delicato, anche perché il ministero stesso soffre di grosse carenze e da anni lavora sotto organico). Di recente, Ludovico Solima, ordinario di Economia all’Università della Campania, in un articolo scritto per AgenziaCult ha poi elencato in maniera sistematica diversi punti che andrebbero migliorati: il miglioramento della trasparenza e della capacità di spesa, lo scarso ricorso al Piano Strategico, il potenziamento dell’ascolto, della creatività, l’innovazione.

Le sfide per il futuro, dieci anni dopo l’introduzione dell’autonomia, sono dunque molte, e forse la struttura avrebbe necessità di una revisione. Certo è che l’autonomia sembra comunque una strada che non potrà essere abbandonata: varrà dunque la pena ricordare, come ha detto Stefano L’Occaso, direttore del Palazzo Ducale di Mantova, che l’autonomia “ha dato un nuovo modo di vedere le cose e soprattutto un nuovo modo di vivere il rapporto con il pubblico, che oggi è parte viva del museo”.

Fonte: FINESTRESULLARTE.INFO

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