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Esterno notte.

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Si è conclusa lo scorso giovedì la miniserie “Esterno Notte” del regista Marco Bellocchio. I film parlano dei tragici fatti legati al rapimento e all’uccisione dello statista democristiano in quella che fu “ la notte della Repubblica”. Si tratta dell’ideale proseguo di“ Buongiorno notte” dove gli eventi dal cineasta emiliano sono narrati con gli occhi di una brigatista presente nel covo. In questa sua seconda opera dedicata a Moro gli avvenimenti sono osservati invece dall’ “esterno” ovvero dal “presidente” prima del rapimento, dalla “moglie”, dal “ministro degli interni”, dai “terroristi”, da “Paolo VI” per giungere alla drammatica “fine”.

Dal punto di vista storico “ Esterno notte” è il consueto fumetto adorato dalla vulgata di sinistra. I democristiani “ forchettoni” carnefici del loro leader, i terroristi un po’ idealisti, Andreotti cattivo e Cossiga psicotico schiavo degli eventi. Le cose furono più complesse.

Bellocchio a nostro avviso ha il merito forse indiretto di non realizzare un’opera dedita alla ricostruzione della storia o ad una versione di questa, quanto di dare corpo alla psicologia drammatica dei personaggi e delle prospettive coinvolte dagli eventi.

I suoi ritratti sono irreali e parossistici proprio perché desiderano provocare e turbare la serenità dello spettatore proiettando angoscia e alienazione.

Bravi gli attori ed in particolare la Buy che interpreta la Chiavarelli, Servillo nel ruolo di Paolo VI ed uno straordinario Fabrizio Gifuni nei panni di Aldo Moro.

Pellicola lenta, volutamente controcorrente rispetto agli standard che vanno per la maggiore, “Esterno notte” mostra l’incertezza e la durezza del potere, la complessità dell’amore, la bestialità di certo idealismo, la drammaticità dell’incomprensione e della solitudine, l’inesorabile dramma della vecchiaia e della morte, attraverso vicende pubbliche e personaggi famosi. La tragedia di Moro è troppo nota per non essere, prima ancora dello scorrere di ogni fotogramma, impressa nella mente degli spettatori con la scena finale del dramma. Moro ucciso nella Renault rossa è sentenza del tempo, tragicità ineluttabile di un trauma che ancora oggi segna la sconfitta collettiva di diverse anime e biografie.

In quei terribili 55 giorni tutto si somma e inaridisce. La fragilità dello Stato, l’ incertezza del futuro, lo smarrimento delle grandi ideologie che avevano sorretto la storia della Repubblica e la crescita economica, l’agonia di un papato che aveva trasformato la Chiesa e la natura del cattolicesimo.

Probabilmente Moro rapito fu un trauma più grave di quanto sarebbe stato un Moro “ semplicemente” ucciso. Può capitare che personaggi della cosa pubblica vengano assassinati. E’ successo a sovrani, capi di governo e stato. Ma nell’immaginario collettivo l’attentato omicida è cosa diversa dal rapimento. Non una bomba, un colpo di proiettile, una pugnalata contro l’ordine stabilito ma il suo “sequestro” , la sottrazione del potere da parte di altra entità che si candida a sostituirlo.

Vinse lo stato ma la repubblica perse l’ anima. Gli anni 80 senza Moro furono giochi di fazioni contrapposte e gli italiani, troppo “provinciali” per investire sulla modernità, troppo “moderni” per tornare al “compromesso storico”, da allora videro definitivamente agonizzare la loro patria tra tatticismi senza strategia.

Le severi lenti dello storico probabilmente non giudicano Moro come l’ idealista sognatore desideroso di unire cattolici e comunisti in un governo capace di ridare vita allo spirito della repubblica della Resistenza e della costituente. Il grande leader democristiano fu credibilmente invece un geniale temporeggiatore, un conservatore scettico verso le sorti progressive, capace di spegnere entusiasmi senza lasciare impronte digitali; un trasformista multiforme non privo però di concretezza, realismo , autentico desiderio di costruire pace, benessere e migliorie a favore della collettività.

Fu lui il tessitore dell’egemonia DC e il principale collaboratore di Paolo VI, all’epoca il vero Re d’Italia.

Uomo di “intelligence” nazionale e pontificia raffinatissimo, capace come pochi di manovrare equilibri anche sotterranei, il Presidente DC era un alchimista del potere, un filosofo realista che sapeva dare visione all’azione politica.

Fu ucciso quasi certamente dagli stessi che “assassinarono” Mattei, dai nemici della sovranità, prima ancora che della democrazia, del nostro Paese.

Sulla vera causa del suo rapimento molto si è detto. Difficile pensare che fu tutta farina delle BR, un gruppo di manovrabili imbecilli carichi di odio più che di lucidità, e un altro film, Piazza delle 5 Lune di Renzo Martinelli, al riguardo suggerisce ipotesi interessanti.

Sicuramente i 55 giorni, in cui il partito dei filobrigatisti fu molto più numeroso di quello che comunemente si crede, finirono con le immagini di un illustre potentissimo, ammazzato con la barba sfatta e ricomposto in un’espressione triste, quasi cristica.

Moro prigioniero che soffre pensando alla famiglia, che ritrova per sua moglie le parole d’amore della gioventù , che sogna il nipotino e cerca conforto nella fede, lascia un’ eredità e interrogativi non meramente politici.

Il film, a tratti onirico di Bellocchio, ha a mio avviso il pregio di suggerire il dramma dello statista democristiano come autoanalisi di un lutto collettivo.

Tornare a Moro è riflettere su una cesura traumatica, più simbolica che reale, da cui però tutto comincia a divergere senza più trovarsi, ed è anche lo spunto per capire quanto sia possibile ancora ricomporre lo stato, il potere e persino la vita seguendo la concretezza dell’umanità e la saggezza che talvolta sa suggerire ciò che più è semplice ed è capace d’ amore.

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