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Giù le mani da Via Giulia: via il muro che devasta uno dei paesaggi più belli al mondo.

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Un muro alto 5 metri svetta da più di un anno in Via Giulia a Roma. Un muro incomprensibile che devasta uno dei paesaggi più belli al mondo e che è stato realizzato per proteggere un giardino barocco che non si potrà realizzare per errori progettuali. “Tutte le volte che si parla di Roma si finisce sempre per usare toni rassegnati”, scrive il promotore dell’appello “No Wall”, un movimento nato attorno a questa battaglia e che sta ottenendo migliaia di firme sulla petizione che chiede da anni al sindaco Gualtieri di ripensarci e modificare questo progetto partito ormai oltre quindici anni fa e che sembra utile solo a giustificare la realizzazione di un maxi parcheggio all’interno di un’area che l’Unesco ha dichiarato, negli anni ottanta, patrimonio dell’umanità.

Qualunque comune cittadino romano decidesse di modificare il colore delle proprie persiane o ritoccare anche in modo lieve il progetto della propria abitazione si imbatterebbe in labirintici vincoli burocratici, se non in multe e sanzioni penali da parte delle soprintendenze. Perché a Roma di soprintendenze ce ne sono due, quella del Comune e quella dello Stato. Due Enti potentissimi che non di rado esprimono pareri contrastanti. Ma sul muro di via Giulia la burocrazia sembra non avere dubbi: va fatto perché qualche burocrate ha deciso di farlo e nessuno si vuole prendere la responsabilità di modificare un progetto anche davanti a lampanti vizi procedurali, progettuali e di realizzazione. Contro quel muro è nato un movimento, si chiama NO WALL e, in questo articolo, ospitiamo un contributo che esprime il punto di vista del suo presidente, l’architetto Fabio Mazzeo, il quale, oltre che sulle questioni di impostazione progettuale, pone l’attenzione su cosa possa rappresentare, anche in termini di sicurezza e manutenzione, una recinzione in muratura, così invasiva e aggressiva di uno spazio urbano in una zona centrale di una capitale come Roma.

Contro tutti i muri, giù le mani da Via Giulia

Tutte le volte che si parla di Roma si finisce sempre per usare toni rassegnati. Colpisce l’abitudine che questa città ispira nell’uso di certi aggettivi, usati a coppie, spesso tristemente confliggenti, facce di una stessa moneta che, di fatto, si fa fatica a non condividere. Bella, ma sporca; romantica, ma decadente; iconica, ma sfregiata; attraente, ma caotica; accogliente, ma escludente; aperta, ma incastrata, una città coacervo di contrasti qualificativi che disarma e che nonostante lo struggimento nell’amarla anche per la sua imperfezione, spesso finisce per generare rabbia e frustrazione. Certo, è vero, di solito è proprio una certa imperfezione a rendere le cose più attraenti, dato che non è così raro che la perfezione (semmai esistesse) crea un certo disagio emotivo, quasi un senso di allontanamento sentimentale, ma a Roma, almeno questo rischio, non lo si corre.

Di occasioni per provare rabbia e frustrazione Roma ne propone proprio tante e le offre da sempre anche in luoghi quali la storica via Giulia dove, meno che in altri, ci si aspetterebbe di soffrire per quella vocazione nell’essere città duale e controversa. Via Giulia è una strada bellissima, storica e particolarmente importante per il tessuto della Roma a cavallo tra rinascimento e barocco e, nonostante questo, sta vivendo un dramma che molto probabilmente si concluderà con una tra le più tristi e incomprensibili mancate occasioni degli ultimi decenni.

Quella dell’annoso problema del “giardino barocco” previsto nell’area di largo Perosi del VII Rione Regola del centro di Roma tra il Tevere e la via Giulia, non è che l’ennesimo tragicomico motivo per tornare a riflettere su quanto questa città subisca una certa intolleranza al cambiamento e una innata perversione procedurale nelle attività della sua macchina amministrativa.

Tutto parte nel 12 febbraio 2008, anno in cui con un’Ordinanza Comunale viene autorizzata la stipula di una convenzione per un nuovo parcheggio parzialmente interrato con accesso da Lungotevere de’ Tebaldi. Da quel momento avranno luogo tutta una serie di episodi legati ad una possibile nuova destinazione d’uso della parte superficiale di quel parcheggio, area strategica tra la via Giulia, appunto, e il Lungotevere. Tanti progetti differenti, tra cui anche un hotel a 5 stelle, finiranno sui tavoli di amministrazioni comunali di ogni colore, Soprintendenze, I Municipio, passando per il MIBACT e le associazioni di cittadini, secondo quella che a mio parere è stata un’”insalata russa procedurale”. Si finirà per optare, solo nel 2015, per il progetto di un giardino, un giardino però “barocco” recintato da un muro altissimo, di quasi 5 metri, per ripristinare quello che, secondo le intenzioni di Donato Bramante, nel 1508, avrebbe garantito l’asse prospettico della via. Un’intenzione certamente nobile e di tutto rispetto dal punto di vista storicamente filologico che, tuttavia, appare tragicamente poco coerente se per “alto” è rimasto solo un muro dato che quel giardino (barocco) al suo interno, pare abbia grossi impedimenti realizzativi a causa della scarsa portanza dei solai di sottofondazione.

In altre parole, siamo davanti al problema, anche urbanistico, di avere un’area da rifunzionalizzare, lungo una via meravigliosa e di trovarci a subire un’idea che tutti ormai, compreso chi amministra, dopo 15 anni di controversie ritiene sbagliata, ma che la burocrazia intende comunque portare avanti perseverando diabolicamente in un pasticcio procedurale ereditato nella gestione del territorio. Un vuoto di programma che si somma a quell’altro vuoto urbano, oggi impropriamente denominato “piazza della Moretta” (leggi “vicolo”) di epoca rinascimentale. Vuoti che, ovviamente, anche in questo caso, come in tanti altri sono perfettamente riconoscibili, ahimè, non per la bellezza dei suoi arredi o fiori ben curati, dalla gente che vi passeggia e dai ragazzi vi giocano, ma dal caotico pattern di auto parcheggiate selvaggiamente. Si potrebbero quindi organizzare, con l’aiuto di semplici arredi e giardini tematici, aree di sosta e passeggiate, aree per i giochi e lo sport dei più piccoli, magari con una recinzione in ferro battuto, permeabile alla vista, che lasci al tessuto urbano la possibilità di respirare allargando i polmoni di un tessuto che sempre più soffre un traffico veicolare invasivo e ormai ampiamente fuori scala nel confronto con quei luoghi.

Potrebbe essere il momento di ripensare quelle aree in modo strategico, senza “recintarle” con cortine di mattoni alte quasi cinque metri nel goffo tentativo di riportare alla memoria concetti rinascimentali di origine bramantesca i quali oggi escluderebbero ogni possibilità di espansione prospettica, isolando senza motivo e impedendo l’orizzonte del Tevere e del Gianicolo da vicolo della Moretta, mortificando di fatto ogni possibile occasione di creare luoghi di nuova e aperta socialità, nel rispetto del decoro e l’attenzione per la sicurezza. Ed è proprio la sicurezza il tema che a nostro avviso rende ancor più evidente la debolezza di una soluzione che ormai sembra ineludibile come quella del completamento del muro parzialmente edificato da mesi. Si, perché un muro così alto, costruito proprio lì, affianco agli uffici della Procura Nazionale Antimafia, oltre a dividere, escludere e impedire la vista, nasconde e crea anfratti difficili da sorvegliare; luoghi perfetti per accogliere il degrado sociale e facilitare l’abbandono, a meno di non prevedere una continua manutenzione e un imponente sistema di videosorveglianza che, di fatto, imporrebbe maggiori costi e un impegnativo, rafforzato, presidio delle forze dell’ordine. Non credo che via Giulia e la stessa Roma si meriti tutto questo.

È facile chiedersi se questo processo squalificante sia davvero inevitabile; burocraticamente inarrestabile come tantissime altre vicende che, incredibilmente, riguardano la Città Eterna. Una sorta di maledizione che si compie ad ogni tentativo di dare vita a soluzioni funzionali e migliorative, bilanciando la complessa equazione con incognite quali: l’utilità e il benessere sociale nella fruizione della città e la tutela del patrimonio artistico, archeologico, architettonico; una trappola che si innesca, come per via Giulia negli ultimi 15 anni, attraverso il solito e malsano protocollo delle migliori tradizioni capitoline che, a prescindere dai colori di ogni sua amministrazione, riesce a dare prova di una surreale e articolata inefficienza gestionale. Altro che risolvere equazioni!

Sono certo che anche Donato Bramante, progettista di quella bellissima via, davanti a un contesto del genere e, soprattutto, a quella “lacuna urbana” consiglierebbe di dare valore all’”assenza”, rendendola urbanisticamente integrata, invece di precisarla e trattenerla, costringendola in un perimetro impenetrabile, insicuro e ingiustificato.

Finestre sull’arte Fabio Mazzeo.

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