Si conclude il periodo natalizio, caratterizzato soprattutto da abbondanti pranzi e cene con amici e parenti. Un tour de force gastronomico in cui magari alla convivialità si affianca l’elemento ludico, dalla tombola agli scherzi goliardici (sempre che quest’anno, data l’incertezza dei tempi, ve ne sia ancora voglia). Oggi parleremo dei gusti alimentari degli imperatori romani, spesso rivelatori del loro carattere o di uno stato psicosomatico, gusti che, in alcuni casi, avrebbero fatto stracciare le vesti a più di un moderno nutrizionista.
Cominciamo con Augusto. Il “princeps” aveva gusti semplici: amava i pesci piccoli, il pane fatto in casa, il formaggio di latte di mucca pressato a mano e i fichi verdi. Durante il giorno, per dissetarsi, mangiava un tozzo di pane inzuppato nell’acqua fresca, un pezzo di cetriolo, un cespo di lattuga o un frutto.
Anche Tiberio adorava il cetriolo: ne mangiava praticamente ogni giorno. Amava i broccoli e rimproverava a suo figlio Druso di disdegnare questa verdura salutare. Tutti gli anni si faceva arrivare dalla Germania Inferiore una specie di carota, il “siser”, incrementata nel suo contenuto di zucchero dal freddo. L’imperatore apprezzava anche il cinghiale e, quando cenava a Sperlonga, assaporava la freschezza dei frutti di mare e dei pesci. Fu Tiberio a lanciare la moda dell’uva essiccata ed affumicata nelle forge d’Africa. Egli dette anche il proprio nome alle sue pere preferite (“Tiberiana pira”), grosse e colorite, di cui però non possiamo identificare il tipo.
Claudio era ghiotto di porcini, e Agrippina ne approfittò per ricavarne gli eccipienti del veleno che lo spedì all’altro mondo.
Nerone resta il simbolo dell’orgia romana. Tuttavia, gli stupefacenti banchetti che Svetonio e Tacito evocano non costituivano una regola quotidiana: l’imperatore-citaredo teneva particolarmente alla sua voce a sarà proprio lui a lanciare la moda del porro “a taglio”, visto che risultava un portentoso espettorante, buono contro la tosse, le faringiti, le laringiti, le bronchiti e le tracheiti. Ne mangiava all’olio, ogni mese e a giorni fissi, senza pane. Sempre per preservare la voce, Nerone si asteneva dal mangiare frutta e cibi che potessero nuocere al prezioso organo vocale. In particolare, teneva molto alla qualità dell’acqua, facendola bollire per metterla poi in flaconi di vetro che venivano fatti raffreddare nella neve.
I banchetti di Vitellio stuzzicarono l’immaginazione dei cronisti. Si dice che facesse servire fino a duemila pesci e settemila uccelli arrostiti. Inaugurò poi un piatto, detto “Scudo di Minerva Poliouchos”, che consisteva in pezzi di fegato di scaro (detto anche pesce pappagallo), latte di murena, lingue di fenicotteri e cervella di pavone e fagiano. Per accontentare la ghiottoneria imperiale si fece di tutto, anche scorribande dal regno dei Parti allo Stretto di Gibilterra, usufruendo addirittura della flotta di Stato. L’enorme vassoio d’argento che servì a presentare tale portata, e che era sopravvissuto al goloso porporato, venne poi riservato alle offerte del culto fino al giorno in cui Adriano lo fece fondere.
Domiziano, che andava pazzo per la frutta, faceva servire mele lazzeruole, frutti di una varietà del biancospino, che venivano apprezzate per la loro polpa zuccherina e profumata. Grandi come ciliegie e di color rosso arancio, le lazzeruole, originarie del Vicino Oriente, furono importate all’inizio dall’Africa prima di essere acclimatate verso la fine del regno di Augusto.
Adriano era di gusti raffinati, anche se sapeva adattarsi alla vita da soldato nei suoi numerosi giri di ispezione alle armate del Reno, in Scozia e in Africa. Il suo biografo afferma che mangiava volentieri il rancio della truppa: lardo e formaggio imbevuto di acqua acetata. Ma il suo figlio adottivo, Lucio Vero, seppe fargli apprezzare la ricetta del “pentapharmacum” che comprendeva come ingredienti fagiano, mammella di scrofa, prosciutto e cinghiale, il tutto in crosta.
Antonino Pio offriva per pranzo un pasto a base di fave, cipolle e pesci. Apprezzava molto la selvaggina e gli uccelli arrostiti, ma sembra che ricercasse più la freschezza, la qualità e l’autenticità dei prodotti della terra piuttosto che il lusso e la rarità.
Marco Aurelio, che consacra il periodo migliore del suo regno alla vita in campagna, non impiega mai troppo tempo per mangiare, limitandosi al necessario per sostenersi. Non ebbe mai un grande appetito: poiché soffriva di stomaco, non diede alcuna importanza ai piaceri della tavola.
Commodo sembrava apprezzare tutte le verdure. Era solito presentarne una notevole varietà, soprattutto se si trattava di verdure fuori stagione. Gli si attribuiva l’invenzione di un piatto che consisteva in una purea di piselli cosparsi di pepe, di aneto (noto anche come “finocchio fetido”), cipolla, vino e salsa di pesce: prima di mettere il tutto a cuocere, lo si versava in una pentola insieme a quattro uova, accuratamente battute.
Pertinace conservò il semplice stile di vita che aveva prima di diventare imperatore. Un po’ di lattuga o un piede di cardo, un po’ di carne servita con parsimonia (si conservava ciò che non veniva consumato per servirlo agli invitati il giorno seguente!): ciò costituisce il normale cibo del Palazzo. Come colmo della sua cortesia, Pertinace faceva portare agli amici ed ai senatori assenti una coscia di pollo, un pezzo di trippa o polpette di carne tritata, credendo di far loro piacere, mentre invece suscitata malumore agli aristocratici destinatari che sdegnavano questa plebea frugalità.
Si racconta che la sera della proclamazione ad imperatore di Didio Giuliano (che odiava le modeste cene di Pertinace) fosse stato allestito un lauto convivio a base di ostriche, pollame e pesci rari. Tuttavia, il biografo dell”Historia Augusta” contesta tale versione dei fatti e sostiene che la sua parsimonia lo portava a mangiare per tre giorni di seguito lo stesso piatto di porchetta o di lepre che gli era stato mandato. Spesso Didio Giuliano si accontentava di verdure e farinacei, cosa che non impedisce ad Erodiano di attribuirgli uno stile di vita molle e voluttuoso. Fu lui, forse, l’inventore delle “Pultes Iulianae”,di cui il ricettario di Apicio ci fornisce gli ingredienti: si tratta di una poltiglia di farro con olio, guarnita con cervella, carne tritata e pepata, condita con “garum”, finocchio, levistico e vino.
Lo sfortunato concorrente di Settimio Severo, Clodio Albino, non soggiornò mai al Palatino, ma regnò per qualche tempo in Bretagna e in Gallia. Visse soprattutto a Lione, dove gli approvvigionamenti potevano soddisfare il suo appetito facilmente, poiché era un “gulosus” avido di frutta, cacciagione ed ostriche che divorava in enorme quantità. Il cronista Cordo ci fornisce cifre spaventose sulla sua capacità di mangiare quando era giovane: quattrocento ostriche, cento beccafichi, dieci meloni, cento pesche, cinquecento fichi, sei chili e mezzo di uva!
Al contrario, Settimio Severo mangia poco e spesso, non mangia carne, ama gustare i farinacei della sua terra, più esattamente i ceci “punici”
Le orge culinarie di Eliogabalo riempiono la cronaca scandalistica della storiografia basso-imperiale. Passa come colui che avrebbe inventato vari piatti, le cui ricette furono poi integrate nel “De coquinaria”di Apicio: chenella o trito di pesce, di ostriche, di aragosta o di gambero; calcagni di cammello, lingue di pavoni o di usignoli, creste di gallo. Come avveniva da Trimalcione, la tavola del principe riservava sorprese da gran signore: assieme ai piselli si trovavano monete d’oro; nelle lenticchie, nelle fave e nel riso, pietre preziose, ambra o perle che Eliogabalo spolverava sul pesce o sui funghi a mo’ di pepe.
I banchetti di Alessandro Severo, non certo opulenti ma nemmeno meschini, si caratterizzavano per il loro buon gusto. Nei giorni di festa si mangiava l’oca, mentre il primo dell’anno per gli “Hilaria” (celebrati il 25 marzo, anniversario della ressurrezione di Attis), o in occasione dei “Ludi Apollinares“, dei Saturnali o per il convito “di Giove” (13 novembre) si mangiavano fagiano o gallo.
Il vecchio pastore Massimino il Trace, che succede ad Alessandro Severo dopo averlo fatto assassinare, è un carnivoro che arriva a mangiare fino a venti chili di carne al giorno e senza alcuna verdura.
Più tardi Gallieno amerà stupire i suoi invitati facendo servire loro uva fresca fuori stagione, fichi verdi o altri tipi di frutta raccolta da alberi tenuti al riparo dal freddo o dalle intemperie in una sorta di serre.
Le ostentazioni di Gallieno sono le ultime dell’Alto Impero. Più tardi Aureliano offrirà ai suoi ospiti semplici carni arrostite senza particolari raffinatezze o sontuose decorazioni. E’ vero d’altronde che, impegnato com’era nella riconquista dell’orbis Romanus in seguito all’usurpazione di Zenobia ad oriente e del gallo Tetrico ad occidente, questo imperatore-soldato non ha tempo per godersi il Palatino.
Diocleziano amava l’insalata e le verdure che egli stesso coltivava a Spalato dopo aver abdicato. Quando lo si esorta a riprendere il potere, risponde: “Ah! Se sapeste il piacere che provo nel far crescere i miei ortaggi, non provereste a convincermi!”. Comunque, celebrò fastosamente il ventesimo anniversario del suo avvento al trono nel novembre del 303: per l’occasione offrì al Palatino un banchetto degno dei suoi memorabili “Vicennalia“, anche se non ve n’è particolare memoria nella tradizione storiografica, non più di quanto si parli del suo tenore di vita nella residenza imperiale di Nicomedia. Ma si può credere che il vecchio soldato illirico, le cui riforme assicurarono all’Impero vantaggi per un intero secolo, non avesse altre spese che quelle imposte dal cerimoniale e dal prestigio di una sovranità ufficialmente istituita da Giove.