IEFE – Universita’ Bocconi Milano – IL COSTO AMBIENTALE DEI PRODOTTI – Forum sulla nascita della certificazione italiana in materia – Istituto Europa Asia informa
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Forum IEFE all’Università Bocconi di Milano sulla nascita della certificazione italiana che lo quantifica
IL COSTO AMBIENTALE DEI PRODOTTI
I prodotti non hanno solo un prezzo per chi li acquista: possiedono anche un costo ambientale. Vale a dire che sono più o meno “dannosi” per l’ambiente a seconda della quantità di acqua e risorse impiegate per produrli, della Co2 liberata nell’atmosfera dal processo e così via.
I consumatori, con le loro scelte quotidiane, hanno il potere reale di influenzare il mercato e le scelte produttive, e ne sono sempre più consapevoli. E sono sempre più numerosi i cittadini che presterebbero attenzione ad un indicatore sintetico, un voto, un giudizio sulle conseguenze ambientali delle proprie scelte di consumo e della fruizione di servizi. Tocca pertanto alle aziende la responsabilità di misurare l’impatto dei propri prodotti e di dichiararlo in un modo verificabile, restando a loro volta stimolate ad innovare le produzioni per renderle più sostenibili e i cittadini a cambiare consumi e stili di vita.
Il 29 maggio è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il Decreto Ministeriale 21 marzo 2018 n. 56, recante il Regolamento per l’attuazione dello schema nazionale volontario per la valutazione e la comunicazione dell’impronta ambientale dei prodotti, denominato “Made Green in Italy”, di cui all’Art. 21, comma 1, della Legge 221/2015. Con questo atto normativo prende definitivamente il via la fase applicativa dello schema, basato sul metodo della Product Environmental Footprint della Commissione Europea.
Per approfondire i contenuti del Decreto, ovvero i requisiti, le modalità di adesione e le opportunità di comunicazione offerte dal nuovo schema di certificazione, all’Università Bocconi di Milano si è svolto a cura di IEFE un seminario dal titolo “Nasce la certificazione italiana dell’impronta ambientale” cui hanno partecipato
FABIO IRALDO Coordinatore Osservatorio Green Economy, IEFE, Università Bocconi e Istituto di Management, Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa;
ENRICO CANCILA Osservatorio greenER e segreteria tecnica della Rete Cartesio;
LAURA CUTAIA ENEA;
PAOLO MASONI Eco Innovazione;
SIMONETTA RONCARI Regione Lombardia.
Aziende e distretti industriali che hanno valutato o stanno valutando il proprio impatto ambientale sulla base del ciclo di vita dei prodotti oramai costituiscono una massa critica: una dozzina di distretti industriali italiani (calzaturiero, mobile, conciario, vitivinicolo…), un centinaio le aziende che hanno individuato nelle etichette di prodotto uno strumento di garanzia nel dialogo con il consumatore o con i clienti, siano pubblici o privati. Le “impronte ambientali” dei prodotti (e le etichette che ne certificano l’attendibilità), afferma Legambiente, rappresentano oggi un’efficace opportunità per poter comunicare al mercato il proprio impegno e l’eccellenza delle proprie prestazioni, evitando i rischi del cosiddetto greenwashing (l’ingiustificata appropriazione di virtù ambientaliste da parte di aziende, industrie e realtà produttive).
Con la Raccomandazione 2013/179/CE è stata ufficialmente introdotta nell’Unione Europea la Product Environmental Footprint, una metodologia che regolamenta il calcolo, la valutazione e la comunicazione a tutti gli stakeholder dell’impronta ambientale dei prodotti. La Commissione Europea, in questo modo, mette a disposizione delle imprese un metodo che consente di elaborare una rosa di indicatori relativi alle principali categorie di impatto ambientale (emissioni di gas ad effetto serra, efficienza nell’uso delle risorse, impronta idrica, etc.) che il produttore è legittimato a utilizzare liberamente a fini competitivi, in particolar modo nella comunicazione di marketing e nei confronti del mercato.
La possibile valorizzazione competitiva delle impronte ambientali può essere ad ampio spettro: dall’indicazione sul packaging del prodotto, al materiale promozionale (es.: brochure sui prodotti), dalla comunicazione pubblicitaria fino all’utilizzo in documentazione ufficiale atta a comprovare il rispetto di criteri inseriti dei bandi per appalti pubblici (cosiddetto Green Public Procurement).
Con l’art. 21 della Legge 221/2015 è stato perfino introdotto in Italia il marchio “Made Green in Italy”, che si basa sul calcolo della Product Environmental Footprint e che, una volta che saranno disponibili i regolamenti attuativi (attesi per l’inizio del 2018) potrà essere richiesto e ottenuto da chi ha applicato la metodologia dell’Impronta ambientale definita nella Raccomandazione 2013/179/CE.
La Commissione Europea sta puntando fortemente sull’Impronta Ambientale come leva principale per accrescere la quota dei prodotti “verdi” nel mercato unico, invitando le imprese a calcolare l’impronta che i propri prodotti sono in grado di generare “dalla culla alla tomba”. L’ approccio seguito dalla Commissione si basa su un principio largamente condiviso e già attuato in molte esperienze aziendali e di policy: l’impatto di un prodotto va misurato considerando i diversi problemi ambientali su cui esso può incidere lungo tutto il suo ciclo di vita, dall’estrazione delle materie prime e delle risorse naturali che vengono impiegate nella fase produttiva, fino al termine della vita utile del prodotto, quando esso deve essere smaltito oppure trova una nuova funzione nel recupero come materia secondaria in un’altra filiera (si pensi alla carta da macero).
La diffusione di questa prassi da parte delle aziende dovrebbe aiutare a superare le principali barriere che oggi ostacolano la diffusione delle tendenze della Green Economy. Da un lato, infatti, le PEF rafforzano la credibilità delle aziende nei confronti dei consumatori e dei clienti, prevenendo il fenomeno del greenwashing, che oggi costituisce uno dei principali freni allo sviluppo dei prodotti “amici dell’ambiente” sul mercato. Dall’altro, la Commissione Europea ha più volte dichiarato di voler definire un quadro di incentivi e premialità per chi deciderà di raccogliere la sfida della PEF, in modo che sia premiato soltanto chi prova in modo serio e credibile di poter vantare performances ambientali migliori.